Il calviniano invisibile

16 Novembre 2015

Fuori dalle roccaforti scolastiche l'opera di Calvino sta lentamente passando di moda. A testimoniarlo è, tra l'altro, un certo atteggiamento difensivo che in questa stessa rubrica si è espresso fin qui non di rado: una tendenza a giustificare teoricamente la sua grandezza, anziché impugnarla con euforia o anche solo vagliarla alla prova dell'esperienza vissuta (quella pubblica, s'intende; ché di quella privata poco importa). Di tutt'altro registro sono le celebrazioni sovente morbose che si tributano, in quest'anno di ironiche coincidenze astrali, a quel Pier Paolo Pasolini che per molti e da tanti anni rappresenta, per un fortunato ma non fausto malinteso, una vera e propria nemesi dello scrittore sanremese: si deve anzi correre a smantellarne il «mito», come faceva Siti già un decennio fa, perché insieme con la verità storica non pregiudichi o sotterri addirittura, magari sotto una pila di smemoranda a firma PPP, un esercizio basilare di lettura dei testi.

 

Si rinnova così per l'occasione, a riempire il vuoto di ragioni, uno sport nazionale fra i più squisiti: il tiro a Carla Benedetti, l'autrice di quel Pasolini contro Calvino che dal 1998 in qua è stato di gran lunga più commentato che letto da cima a fondo; e che nulla ha a che vedere con quella sterile contrapposizione di poetiche, di cui una sarebbe «cerebrale» (il pessimo Calvino) e l'altra «viscerale» (l'ottimo Pasolini), per cui viene comunemente, e non solo da chi vi si oppone, spacciato (persino da coloro che, come Matteo Marchesini, hanno sempre del resto molto altro da dire: nella loro insistenza vanno forse viste bourdieusianissime ragioni di Lebensraum). E tuttavia questo sport viene in genere mimato, più che praticato, come il calcio fiorentino o il palio: rivela cioè quella che è sempre stata la sua intima natura apotropaica – tanto scarsa è la convinzione di certi lanci vintage; e sembra a volte, quando proprio si è a corto di argomenti, che se Carla Benedetti non ci fosse si finirebbe per inventarla.

 

Eppure è proprio il suo lavoro critico quello che meglio di altri avvicina Calvino alla nostra sensibilità. Nella letteratura contemporanea, infatti, il rapporto che lo scrittore istituisce con la propria opera è diventato spesso un nodo conflittuale: di questo fenomeno saggi come Pasolini contro Calvino e L'ombra lunga dell'autore hanno il merito di rintracciare una precisa genealogia, perlomeno italiana, e uno schema teorico possibile. Illuminati dal senno di poi, che Benedetti però non aveva, possiamo dire che il postmoderno, a furia di ragionare sull'assenza dell'autore, non ha fatto in fondo altro che legittimare una retorica della sua presenza; evidenziando l'artificio, ha costruito dentro l'opera letteraria (che non è davvero mai soltanto il testo) un posto problematico per l'artefice – dalla semplice notazione di poetica alla circostanza biografica (e di qui alla performance) il passo è dopotutto breve. A ben vedere dunque siamo tutti un po' figli di Calvino, ossia dello scrittore che con più assillo ha elaborato a margine dei suoi libri, a forza di pre- e postfazioni, una vera e propria retorica del paratesto, quale si sarebbe poi ritrovata, in una certa misura cambiata di senso e segno, in Troppi paradisi o nello splendido Facciamo un gioco di Carrère. Se si mettesse da parte il rigore filologico, insomma, e si leggesse tutta l'opera di Calvino considerandone il paratesto una parte del testo tout court, non saremmo di fronte a una serie di libri eterogenei per stile e ispirazione, per scommessa teorica o per genere, ma all'unica autobiografia di una lunga nevrosi compulsiva – in questa direzione vanno infatti le più centrate ricostruzioni.

 

E tuttavia il nocciolo cosciente della poetica di Calvino, quello per esempio dei Six Memos, ci si mostra improvvisamente velato di una patina d'inattualità. Perché, a distanza di trent'anni, le armi della «leggerezza» e della «velocità», del «pathos della distanza» e dello sguardo obliquo, per non parlare dell'enfasi combinatoria e intertestuale, ci appaiono tanto spuntate? Dopo decenni di raffinate disquisizioni sull'intransitività della scrittura, sull'inattingibilità del Reale, sulle iperuraniche biblioteche di testi che dialogano con altri testi, la letteratura imbevuta di cronaca, di autobiografia e di rappresentazioni del «Corpo» a cui la nostra epoca ci ha abituati, producendosi in risultati teorici spesso ingenui, originali raramente (penso per esempio a Donnarumma), somiglia molto al frutto caduco, assertivo cioè, e ispirato, di una mitologia che posticciamente ne ha scalzata un'altra – laddove vige invece in entrambe lo stesso disorientamento, la stessa sfiducia latente sulla possibilità di costringere l'inferno capitalistico in un racconto. Non più il Linguaggio ma il Corpo, dunque; non tanto lo stile, quanto la scelta del punto di vista; non più la descrizione, ma la performance; morta l'école du regard, evviva quei valori tattili che emergono come una sorta di rimosso storico della società dello spettacolo: valori tattili in senso non solo tecnico (il pulp, per esempio), ma anche e soprattutto metaforico – l'illusione di «toccare» il reale incarnandolo (come farebbe Siti con Berlusconi), fecondandolo (come farebbe Moresco a partire da La cipolla), dandone testimonianza, insistendo magari su una Verità con la maiuscola che non ha conosciuto la fatica del concetto (a rendere Gomorra interessante non è l'idea che l'autore abbia visto quanto è andato raccontando, ma che ci si sia trovato in mezzo).

 

La vela di un'ammiraglia taglia l'orizzonte da parte a parte. La nazione indiana subisce il fascino dell'invasione graduale dei conquistadores: ne scimmiotta dapprima la lingua straniera; poi sente il bisogno di registrare e distinguere, tracciare mappe e stendere inventari; per fede magica crede infine di appropriarsi di quell'energia mangiandone l'anima dai cadaveri. Così la retorica letteraria del dopoguerra al soprammontare della società delle merci si identifica con l'aggressore, scambiando il balbettio con l'avanguardia; avoca alla biblioteca il correlativo stretto del catalogo inesauribile (quanta strada separa Perec e l'Ikea?); vampirizza le «storie vere» per trasfondere un'ombra di vita al suo volto esangue (ma i fatti sono il corpo morto della Storia e la verità, più che un concetto ontologico, è un collaudo giuridico). In coda a questo diagramma è così naturale che ci sia poco spazio per un'eredità di Calvino. Lui stesso se n'era forse accorto nei suoi ultimi libri, se è vero che l'ipertrofia del visivo trova il suo argine negli incompiuti Racconti per i cinque sensi, se davvero in quel Palomar che è uno dei suoi più belli affiora a volte un disagio freatico, appiccicoso, che si rapprende in tessere o vicoli o immagini come questa da La pancia del geco:

«Se ogni materia fosse trasparente, il suolo che ci sostiene, l'involucro che fascia i nostri corpi, tutto apparirebbe non come un aleggiare di veli impalpabili ma come un inferno di stritolamenti e ingerimenti. Forse in questo momento un dio degli inferi situato al centro della terra col suo occhio che trapassa il granito sta guardandoci dal basso, seguendo il ciclo del vivere e del morire, le vittime sbranate che si disfano nei ventri dei divoratori, finché alla loro volta un altro ventre non li inghiotte».

 

Che anticipa l'equivoco tutto contemporaneo del profondismo: se ogni materia fosse trasparente, infatti, non sparirebbero le superfici ma soltanto il buio. Eppure, se partiamo da qui, proprio dove meno ce l'aspettiamo troviamo annidato il genoma di Calvino: in quell'Antonio Moresco che nel '99 fu autore di quelle virulente Note contro di lui, intitolate Il paese della merda e del galateo, che lo elessero a paladino di un'idea di letteratura antagonista ai bamboleggiamenti postmoderni. Solo Raffaele Donnarumma si è in parte accorto della dipendenza di Canti del caos da Se una notte d'inverno un viaggiatore: nondimeno i punti di contatto sono molti di più di quelli che indica lui nel suo articolo uscito nel 2010 su «The italianist» e, a studiarli a fondo, ne verrebbe fuori forse un libro; a cominciare da quel «tu» che, già alla prima pagina, si apre dialetticamente alle esigenze del lettore, la costruzione delle quali va di pari passo a quelle trame complottiste che si scavano da un vuoto, da una rarefazione originaria che è anzitutto apertura ai possibili; in entrambi i casi, anzi, l'iterato ricorso al deus-ex-machina, ai personaggi dai nomi improbabili, alla storia d'amore come lievito madre della trama e all'entrelacement ariostesco servono letteralmente a prendersi gioco delle convenzioni del novel coi mezzi del romance (né fa eccezione, in Moresco fino a Gli increati, l'accumularsi progressivo di agnizioni); persino le surreali enumerazioni caotiche del Gatto sono figlie di quelle dell'editore di Se una notte, che ha lo stesso atteggiamento mellifluo, la stessa tendenza a mettere le mani avanti e a soverchiare il discorso (ma è dalla Lettrice che gli proviene invece il paradossale potere di «evocare» le storie di là da venire coi suoi desideri); tralasciando naturalmente, oltre a tutta una serie di richiami puntuali, la stretta consonanza tematica sulla questione della creazione artistica e tanti altri nodi che si potrebbero senz'altro definire di poetica.

 

Riprendendo Calvino, com'è ovvio, Moresco intende rivoltarlo polemicamente: né escluderei che quell'impressione di «profonda angustia culturale, artistica e spirituale» che lo scrittore mantovano gli rimprovera dopo la lettura de I libri degli altri possa concorrere a caratterizzare l'esigenza del Gatto di tenere l'opera al passo con le mode editoriali del momento. La struttura geminativa di Se una notte d'inverno un viaggiatore, in effetti, non è semplicemente ripresa, ma resa dinamica e inscritta in una forma a imbuto che procede per dispersioni e riaccumulazioni orbitali fino alla finale fusione di temi, personaggi, storie, voci in una voce sola. Ma in definitiva l'entità stessa di queste appropriazioni suggerisce in primo luogo che i due autori, sia pure con mezzi e atteggiamenti diversi, giocano in fondo la stessa partita: quella sfida al labirinto che Calvino caldeggiò nell'omonimo saggio del '62. «Vogliamo dalla letteratura un'immagine cosmica», diceva lui. «Qual è la posizione dello scrittore, oggi? si sente chiedere da ogni parte. La sua posizione è nel cosmo, nell'occhio del ciclone del cosmo», dice Moresco quarant'anni dopo nel suo intervento al convegno Scrivere sul fronte occidentale, incoraggiato poi con dovizia di strumenti teorici dalle Disumane lettere di Carla Benedetti che pure hanno, paradossalmente, ancora in Calvino uno dei principali bersagli. Si tratta insomma in entrambi i casi di sondare e ispessire le intersezioni tra l'immaginario letterario e quello scientifico, di declinare virtuosamente una necessaria coscienza ecologica con la messa in forma del caos dell'esistente: di restituire le proporzioni della vita umana, come suggerisce una tradizione che rimonta soprattutto a Leopardi e a Lucrezio, a un contesto originario «più ampio»; una messa in forma che, grazie anche a una grana linguistica che si tiene lontana dalle ruvidezze dantesche e gaddiane, finisce per edificare una sorta di variegata favola petrarchista, cosmicomica in un caso, tragicosmica nell'altro (ma di tragico in senso proprio, a ben vedere, in Moresco non v'è traccia: se è vero che il tragico chiede almeno due voci; molto, tra le crepe di un lirismo sospeso e acuminato, è forse invece il melodramma).

 

Autori di favole sono infatti ambedue: in ambedue radicatissimo è l'istinto antirealista; viscerale è tanto l'attaccamento al potere metamorfico della fiaba, quanto l'odio per la psicologia dei personaggi, che in loro sono piuttosto proiezioni di un io-ventriloquo per lo più irriducibile al mondo adulto. In ambedue vige una congenita vocazione a un'imitatio naturae fondatamente antistoricistica e antidialettica (più travagliata nel caso di Calvino, che è l'autore del Sentiero e di quella febbrile Giornata di uno scrutatore che è probabilmente il suo capolavoro). Se l'ago magnetico della Storia è impazzito ed è crollata la fede nel marxismo, insomma, non resta che rifugiarsi nell'apologo cosmogonico o apocalittico o in un'idea di utopia che è tuttavia interstiziale, liquida, come le evangeliche «crune» di Moresco che si aprono all'improvviso nella muraglia editoriale o in una vita di povertà finalmente redenta da una Fiaba d'amore, che non si saprebbe come altro trovarle se non col «cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Ma quel che è in Calvino assaggio galileiano in Moresco diventa un archè presocratico; se Silas Flannery non crede «che la totalità sia contenibile col linguaggio», L'increato riscrive una Bibbia di ascendenza faustiana; da una parte Alice nel Paese delle Meraviglie, dall'altra riemerge Pinocchio; alla cosmogonia subentra insomma la teogonia, all'avventura newtoniana la fiaba profetica, alla parola apollinea la gnosi da fine impero.

 

Eppure se in questi tempi di letteratura regredita a giornalismo quella di Calvino e Moresco resta una lezione energetica, una lezione che ci parla del potere dell'immaginazione irrelata, del coefficiente metamorfico che è in ogni metafora, questo apparente allargamento prospettico al cosmo, quando si presenta, è il frutto di un'inossidabile rinuncia mimetica: è solo espungendo la Storia che l'esperienza degli uomini può dirsi «di specie»; i dinosauri che parlano e i serpenti che cantano sono ancora «umani, troppo umani»; far dire «io» all'universo equivale a estendere la propria coscienza puntuale, che è di un luogo e di un'epoca, alla coscienza collettiva dell'umanità intera di tutti i tempi e di tutte le epoche. Senza relativismo storico, sociale e psicologico, in conclusione, persino l'immaginario della scienza più dura ci ridarà indietro la cara, comoda immagine del vecchio umanesimo.

 

 

 

Roberto Gerace, nato a Sant'Agata di Militello nel 1991, studia Lingua e letteratura italiana all'Università di Pisa, dove ha conseguito una laurea triennale con una tesi su Antonio Moresco. Ha scritto di filologia machiavelliana su «Interpres» e suoi articoli (su Bacchini, Bianciardi, Pasolini fra gli altri) sono usciti sul blog della rivista «Il primo amore», di cui è redattore, e su poliscritture.it.

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