Speciale

Tra le donne del Kurdistan

20 Ottobre 2015

 

“Nella società per cui mi batto e che spero di vedere non ci saranno più donne costrette in questi ruoli. Una donna che si trova a dipendere dai vecchi rapporti di potere fra i sessi non può che risultare perdente. Per me oggi una donna esiste solo nella misura in cui è libera. Se dipende dal suo uomo non può essere se stessa. Secondo me una donna ha perso nel momento stesso in cui a proprio rischio si piega alla dipendenza e rinuncia a fare i conti con la questione della propria libertà personale. La donna è sempre stata idealizzata, ma l’ideale può realizzarsi solo nella libertà”. L’impegno di Abdullah Öcalan per la liberazione delle donne curde ha un grande valore per le donne di tutto il mondo. Nel partito da lui fondato, il Pkk, militano donne e uomini insieme, accomunati da un solo grande obiettivo: la libertà dei popoli del Kurdistan. Le combattenti del Pkk hanno sempre avuto un certo ascendente su Dilsha, una guerrigliera curda che quando era solo una quindicenne scriveva poesie sui martiri e sognava un solo grande Paese per la sua gente. Qualche anno più tardi, nel 1990, si è arruolata nel Pkk facendosi fotografare con Öcalan, più confidenzialmente Apo, nel campo di addestramento della Bekaa, in Libano. “Le donne hanno spezzato il sistema della divisione di genere – spiega Dilsha. – Quando per la prima volta le ho viste radunate tutte insieme, ancora più belle grazie alla lotta che le aveva rese libere, ho capito che il secolare sistema patriarcale era stato distrutto. Da lì saremmo dovuti ripartire per costruire il nostro amato Paese, e così abbiamo fatto.”

 

ph. Linda Dorigo

 

Nome di battaglia Raperin, rivoluzione, Dilsha ha trascorso due mesi nel campo di addestramento libanese prima di spostarsi a Beirut alla ricerca di nuovi combattenti curdi. Sulle montagne innevate ha proseguito il suo addestramento fino al 1991, anno della rivoluzione curda in Iraq, quando si è stabilita sul monte Haftanin tra Turchia e Iraq, dove ha iniziato la sua vita da combattente. “Una vita fatta di attesa – racconta – sempre in guerra contro il governo turco, sempre pronta con lo zaino in spalla e il fucile a tracolla. Devi essere un lupo e una volpe insieme per sopravvivere. Era difficilissimo vivere sulle montagne perché faceva freddo, mancavano il cibo e quelle poche comodità a cui eravamo abituati. Ma Apo era con noi e ci dava la forza di affrontare ogni cosa: i suoi discorsi ci commuovevano – ricorda Dilsha con gli occhi sognanti – e noi pensavamo che lui arrivasse direttamente dal cielo.” Dopo quattordici anni di militanza Dilsha ha abbandonato la lotta armata. “Apo è stato catturato – spiega – e senza di lui un grande Kurdistan è impossibile. Tutti i curdi hanno capito che la guerra non è sufficiente per veder riconosciuti i propri diritti. Le armi servono per difendersi, possono spianare la strada alla libertà ma non la fanno guadagnare.” La nuova Raperin sistema i riccioli rossi da un lato all’altro del collo. Versa un bicchiere di limonata e si intenerisce davanti all’album di famiglia. Passa dal curdo al turco all’arabo con una facilità imbarazzante. Il marito appare e scompare dietro la poltrona intento a lavorare al suo prossimo libro. Il racconto di Dilsha è un flusso di coscienza e la sua amata terra ne rappresenta la scenografia. Le pareti sembrano scomparire per lasciare posto al Kurdistan di Dilsha: boschi e corsi d’acqua, sentieri, roccia, amicizie e sacrificio, pace. “Nelle città imitiamo la civiltà, ma nei villaggi il legno è ancora il combustibile e le erbe sono medicine. Il popolo, l’acqua e le montagne: ecco la trinità, ecco la nostra anima!”

 

Nei secoli le donne del Kurdistan hanno attirato la curiosità di molti viaggiatori che ne hanno decantato la bellezza e la forza. A metà ‘800 la “nera Fatima” era a capo di un battaglione, e di Marguerite Georges, “la Giovanna d’Arco del Kurdistan”, si racconta ancora oggi tra i peshmerga che andavano a combattere con la sua fotografia sul cuore. I due ruoli femminili dominanti – quello di sposa e madre che trasmette la tradizione, e quello di simbolo della nazione, di lotta e resistenza – si ripetono incessanti come la propaganda di un paese in guerra. Ma capita di fare incontri inattesi e scoprire così che la radice di ogni magia è la sorpresa. Dilpak ha 23 anni e vive ad Halabja, città simbolo di Anfal, il genocidio curdo perpetrato dal regime di Saddam Hussein. Qui, il 16 marzo 1988 un attacco chimico ha ucciso oltre 5 mila persone. Da allora la città non si è più ripresa e chi è sopravvissuto lotta per non lasciarsi sommergere dai ricordi. Nessuno è stato risparmiato dalla violenza invisibile dei gas, anche a distanza di tempo. Dilpak ha deciso di non essere l’ennesima vittima e di non assecondare ruoli precostituiti. “Quando mi sono iscritta all’università americana di Sulaymāniyya i parenti mi hanno fatta sentire in colpa perché secondo loro gli americani sono cristiani di facili costumi. Mia nonna invece mi ha sempre incoraggiata.” Dilpak indossa il velo un po’ per scelta un po’ per evitare commenti indiscreti. Studia economia, dà ripetizioni di inglese per mantenersi agli studi, e a breve partirà per uno scambio culturale negli Stati Uniti. “Qui se indossi qualcosa di strano attiri scherno e curiosità. Noi donne non siamo libere. Non ci sono caffé dove incontrarci – spiega – ma io voglio vivere qui perché c’è molto da costruire. Se non lo facciamo noi chi lo fa?” Nei weekend si fugge dalla città per nascondersi al riparo di noci secolari ad arrostire spiedini di pomodori e kebab. I giardini degli zii di Dilpak sulle montagne di Hawraman sono un paradiso.

 

Almeno quattro famiglie danzano e raccolgono gelsi color del sangue. Qui non si fanno distinzioni o preferenze: i bambini sono di tutti, così come le albicocche riscaldate dal sole. La zia Murad è la più bella, la più giovane, sveglia, sempre pronta a recuperare un bicchiere pulito o a sgranare un fagiolino per il nipote. Nel 1988 aveva 12 anni e quattro fratellini da crescere. “Ho iniziato a piangere – racconta – come avrei potuto sostenere quella situazione? Sono stata tra i primi a scappare da Halabja. I miei genitori hanno avuto il sentore della tragedia che stava per accadere, così mi hanno caricata su un taxi insieme ai fratelli. Purtroppo l’auto non è mai tornata indietro a prendere i miei genitori e le mie sorelle perché nel frattempo sono iniziati i bombardamenti e sono morti tutti.” Per due mesi Murad e i fratelli hanno trovato rifugio nei campi profughi del vicino Iran, ignari di quello che era accaduto: “Nostro zio ci trovò e mi raccontò ogni cosa. I fratelli erano tutto quello che mi rimaneva. Mia madre era morta e io le avevo promesso che mi sarei occupata di tutti. Ero solo una ragazza! – esclama tra le lacrime – ho rinunciato a tutto, consapevole del sacrificio che avrei dovuto affrontare e l’ho desiderato dal profondo del mio cuore.” Murad ha allevato i fratelli lavorando come bracciante e cucendo scarpe tradizionali fino al 2010, quando anche l’ultimo fratello è diventato medico. “Ora sono tutti laureati e io posso finalmente tornare a studiare”. La bella zia di Dilpak ha deciso di non sposarsi perché il matrimonio le avrebbe impedito di occuparsi dei suoi fratelli. Oggi è alla ricerca dell’anima gemella ma “deve essere qualcuno di speciale”.

 

ph. Linda Dorigo

 

L’operazione di sterminio Anfal ha lasciato in eredità abbandono e solitudine. Le vedove Anfal piangono figli e mariti; per loro non c’è presente, solo lacrime di un passato mai sepolto. Nei villaggi dell’area di Barzan, vicino Dohuk, ci sono cinquanta vedove Anfal. Solo quattro si sono risposate, le altre aspettano ancora che gli uomini facciano ritorno a casa. Asia ha sessant’anni ma ne dimostra venti di più. Siede rannicchiata sui tappeti di casa, accanto a lei l’amica con cui ha condiviso gioie ma soprattutto dolori. La casa è spoglia: non un vaso, un fiore, un soprammobile colorato, solo gusci di semi di lino sparsi a terra e due fotografie appese alla parete. I martiri, i fantasmi di Asia, si stagliano per magia davanti a scenari idilliaci e la osservano seri nei loro abiti tradizionali. “Ci hanno separate dagli uomini e caricate su un camion fino a un castello vicino Dohuk. Lì facevano sfilare i nostri mariti colpendoli sulla testa e spezzando loro le braccia affinché non potessero proteggersi. Siamo rimaste nel castello per quasi venti giorni senza cibo né acqua. Eravamo sole e i soldati si prendevano gioco di noi. Le più giovani, le più belle venivano vendute agli arabi del Golfo. Non era permesso andare al bagno e facevamo i nostri bisogni lì, in mezzo a tutti, mentre i soldati ci lanciavano pezzi di pane che finivano tra le feci incitandoci a mangiarle. Nemmeno i porci vivono così!” L’amica sospira, stanca di riavvolgere ancora una volta la tragedia della sua vita. “Io ero incinta quando ci catturarono – racconta – ho partorito sul camion. Dopo tre giorni ancora non avevo mangiato nulla. Mio marito è stato ucciso insieme a sette cugini e tre nipoti; ma mio figlio è vivo, è nato nel 1988 e adesso fa il poliziotto a Dohuk.” Asia, timorosa che Saddam possa ripresentarsi sotto spoglie diverse, interrompe l’amica per ricordare di quando ha testimoniato al processo contro l’ex rais: “Dio ti giudicherà – gli dissi. – Oggi sua figlia collabora con l’Isis e io spero che Dio li faccia bruciare entrambi.” Ma la rabbia lascia presto spazio allo sconforto: “Ogni giorno mi siedo qui, guardo quelle fotografie e piango”.

 

Oltrepassato il confine di Semalka che separa il Kurdistan iracheno da quello siriano (Rojava) si aprono scenari inaspettati. Il fiume Tigri lambisce pazientemente le sponde, animando una danza di barche e ponti temporanei per il passaggio di merci e tir. Non ci sono più profughi ammassati in attesa di un timbro per la libertà. Intorno le colline sono verdi, morbide, uno scenario bucolico dove la pace e il silenzio ovattano i rumori della guerra che si combatte a pochi chilometri di distanza. La natura sembra essersi risvegliata. Il Rojava è un guizzo inaspettato di primavera dove assaporare il fermento di una rivoluzione democratica nata dal basso. Da gennaio 2014, da quando i curdi del Rojava hanno dichiarato la propria autonomia da Damasco, la società si è organizzata con una “costituzione” dove si celebrano la convivenza, il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Vanesa insegna inglese a Derik, prima città dopo il confine. Non è una vera e propria insegnante, ma una volontaria in un gruppo di ventenni che hanno dato vita all’istituto Xdandakar: uno spazio libero dove si studia, si fanno lezioni, riunioni, e si organizzano eventi. “Ho studiato inglese da autodidatta – racconta Vanesa – perché mio padre è all’antica, è un fondamentalista lui! – ride – e non ha voluto che andassi all’università a Damasco.”

 

Vanesa non ha mai parlato inglese con qualcuno che non fosse curdo, la sua vita è in Rojava e da qui non è mai andata via. I ragazzi dell’istituto le fanno la corte ma lei sembra non accorgersene. Sorride estasiata alla vista di una straniera, “sono onorata di poter parlare inglese” e domanda con innocenza dell’Europa, di cosa pensa l’Occidente del Kurdistan, dei suoi combattenti impegnati contro l’Isis. Le sue lezioni sono un soffio di purezza, un inno all’educazione sentimentale di Flaubert: “Voglio coinvolgere le mie studentesse e domando loro dell’amore, degli uomini, della vita... le nostre lezioni sono pratiche. Devono essere pronte ad affrontare questi discorsi anche in inglese perché nessuno possa approfittare delle loro debolezze.” Vanesa sembra una donna matura, eppure anche lei ammette di non avere molte esperienze di vita. Ma forse queste non sono necessarie quando il fuoco che muove la sua esistenza è un altro. Vanesa è consapevole di se stessa e il suo valore di donna autonoma diventa esempio per le altre donne. L’uomo della sua vita non ha ancora bussato alla porta ma lei non ha fretta. Nel frattempo, lascia spazio ai sogni: “Vorrei visitare Venezia un giorno, magari con il mio fidanzato. Venezia è romantica vero?”.

 

 

Il reportage di Linda Dorigo dal Kurdistan è stato pubblicato sul numero 22 de il Reportage

 

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