Berlinale 66. Kino meine Liebe

19 Febbraio 2016

La 66. Berlinale è cominciata con una dichiarazione d'amore per il cinema. Ave, Cesare! il nuovo film dei fratelli Coen presentato fuori concorso, è un'ottima griglia per inquadrare la tradizione del festival tedesco e l'infinito programma di questa edizione. Come ogni anno riuscire a selezionare il proprio percorso all'interno delle varie sezioni è un'impresa difficile, che spesso (ma non sempre) viene premiato. Il lavoro dei Coen in questo senso ricompensa sia il cinefilo che il pubblico, quest'ultimo vero (e a volte troppo rumoroso) protagonista della Berlinale. Il festival è infatti dedicato fin dalla sua nascita ad essere il festival “del pubblico” di una metropoli, che apre le porte delle sue sale a tutti e per qualsiasi occasione. Le cosiddette “minoranze” sono accolte ben volentieri a Berlino, che mescola agilmente l'Hollywood più feroce (Meryl Streep, la celebrità più materna di quella parte di cinema, è infatti a capo della giuria) con le marginalità del fare cinema, sia geografiche che di forma. Quest'anno si celebrano innanzitutto i 30 anni del Teddy award, il premio – forse il primo del suo genere in un festival internazionale di tale portata – che supporta i film di contenuto LGBT. All'interno di questa sezione ho scoperto gemme altrimenti inaccessibili e quest'anno è ottima occasione per immergersi nella sua retrospettiva, che ripropone, tra gli altri Toute une nuit e Je, tu, il, elle di Chantal Akerman, e Before Stonewall di Greta Schiller. Anche le donne registe, se non in massa, sono presenti un po' dappertutto. A cominciare da Mia Hansen-Løve, la cui biografia personale sembra inventata apposta per chi ama il cinema.

 

I Coen hanno inaugurato la rassegna raccontando la storia della fittizia Capitol Pictures, colta durante la produzione di un colossal sulla vita di Gesù. Qui gli Studios sono i veri protagonisti, sfondo caldo e onnipresente dell'eroe Eddie Mannix (Josh Brolin), produttore realmente esistito della MGM: un uomo dal polso di ferro, che soffre la frenesia dello spettacolo ma continua, nonostante tutto, a volerne far parte. A complicare gli ingranaggi della gigantesca industria è Baird Withlock (George Clooney), la stella più radiosa degli Studios e perciò vittima prescelta (perché ottusa) di un misterioso rapimento. Ave, Cesare! è zeppo di citazioni dell'epoca dorata di Hollywood, ma forse quella più legittima è quella recente che aleggia intorno a George Clooney. Sedici anni fa usciva Fratello, dove sei?, forse il primo film in cui prendemmo sul serio l'ex medico di E.R. Da lì in poi, Clooney è vissuto nella galassia delle stelle totali, quelle che soprattutto gli “autori” contribuiscono a rendere tali. Quest'ultimo lavoro dei Coen potrà sembrare non forte come altri, e forse verrà accolto tiepidamente dal pubblico che li ama ma vuole innanzitutto ridere; alcune figure danno poco più che colore a un film già gonfissimo e che, in fondo, si regge quasi solo su Josh Brolin. Tutto, alla fine, viene però perdonato al mondo di Ave, Cesare!, proprio nel nome del suo amore sconfinato per il cinema. La nota più originale è quella che riguarda i rapitori, che si definiscono il futuro ma dagli indumenti ben poco glamour rappresentano piuttosto un passato già nostalgico. Chiaramente sono “i comunisti”, capeggiati da un attore che – nello stardom odierno di quello parodiato dai Coen – possiede tutte le carte in regola per diventare una celebrità totale nonostante (spoiler!) le principali doti di ballerino. Sono divertenti, questi comunisti, e oltre alle infinite riflessioni che offre il loro ruolo al discorso sulla produzione culturale di massa, rimandano a un motivo della 66. Berlinale che a me piace immaginare come la sottotrama più interessante di questa edizione.

 

I comunisti e il cinema infatti si ritrovano in altri due lavori, The Lovers and The Despot e Hotel Dallas, presentati nella sezione Panorama. Entrambi documentari, raccontano il rapporto problematico (fallimentare, comico, tragico) tra i regimi comunisti (Nord Corea il primo, Romania di Ceausescu il secondo) e la cultura visiva. The Lovers and the Despot è un documentario nato dalla scuderia di BBC Farmville, realizzato da duo Rob Cannan-Ross Adam e soddisfa tutte le premesse del suo soggetto, bizzarro quanto sconosciuto. Un libro uscito l'anno scorso, A Kim Jong-II Production, di Paul Fischer, ne aveva già delineato i contorni, ma è senz'altro il mezzo visivo quello che fa più giustizia a un'altra storia di rapimenti. Anni Settanta, il matrimonio dell'attrice coreana Choi Eun-hee con il regista Shin Sang-ok è quasi finito. A distanza di pochi mesi i due scompaiono in circostanze misteriose. Cinque anni dopo si presentano all'ambasciata americana di Vienna con una storia incredibile – se non fosse per le preziosissime prove che presentano a testimonianza. Il protagonista è Kim Jong-II: non solo spietato come dittatore ma anche come critico cinematografico. “Perché nei film sudcoreani piangono tutti, sempre? Non siamo mica a un funerale!” si lamenta il caro leader in una delle conversazioni che la coppia riesce a registrare. Entrambi vengono imprigionati nella tetra Nord Corea e poi invitati, in modo più o meno coatto, a conquistarsi la stima del caro leader facendo cinema. In tre anni produssero circa 17 lungometraggi, convinti anche dagli ingenti finanziamenti concessi a Shin, che nella patria democratica viveva costanti problemi economici. La qualità di The Lovers & the Despot spicca proprio nei suoi paradossi, tra cui il desiderio di raccontare la verità – un obiettivo che i vari intervistati, Choi su tutti, sottolineano più volte – attraverso le immagini delle storie fittizie dei film di Shin.

 

In attesa di completare la mia personale triade sul tema con Hotel Dallas vale la pena di immergersi nel concorso con un altro documentario che indaga una verità spesso confusa e presentata ai media solamente nelle sue varianti sensazionali. Fuocoammare, di Gianfranco Rosi, è un lavoro che aspettavo con particolare ansia perché sull'isola di Lampedusa ho trascorso diverse settimane di ricerca, proprio durante i mesi invernali, quando il paesaggio isolano è avvolto da colori ben più cupi di quelli accecanti della stagione turistica (un punto che Rosi sembra avere particolarmente a cuore). Se siete interessati all'argomento consiglio un documentario uscito l'anno scorso, Lampedusa in inverno, opera di un giovanissimo regista viennese (Jakob Brossman) che, a mio parere, rende giustizia all'isola in modo più onesto e coerente di Rosi. Fuocoammare restituisce infatti un'idea di coesione narrativa che non esiste veramente sull'isola. Sebbene la prospettiva sugli abitanti – il piccolo Samule Pucillo, fratello del Filippo feticcio di Crialese – sia eccezionale e rifletta l'umanità sbrigativa e spiritosa degli isolani, questa trova poco dialogo con la sovra-trama della migrazione. Un paio di scene strepitose vedono gruppi di naufraghi avvolti nei lenzuoli termici, come lucciole dorate e fruscianti nel buio del centro di detenzione, ma l'impronta estetica scelta sembra eccessiva, quasi fuori luogo, per il materiale umano che rappresenta.

 

La voglia di sperimentare con la forma su storie di cui conosciamo già le coordinate ritorna anche in Denis Coté e Danis Tanović (e, incidentalmente, in André Téchiné). Il canadese che aveva vinto alla 63. Berlinale con Vic + Flo Saw a Bear fa per la prima volta sua un'estetica palesemente tale, laddove prima questa veniva ricreata naturalmente grazie alle ambientazioni, sia “agresti” che artificiali (su tutti, Que ta joie demeure). Boris sans Beatrice è un Don Giovanni ri-arrangiato, il cui protagonista (James Hyndman) finisce, superficialmente, per conquistare anche chi pensavamo fosse solo un Leporello dalle fattezze particolarmente invitanti (Isolda Dychauk). Il film è infatti non poco seducente da quel punto di vista: i suoi interpreti sono tutti belli, molto belli e in modo pieno, convincente. Ma il dramma non si consuma davvero nelle “pieghe dell'animo” bensì negli anfratti della villa design di Boris-Don Juan. Gli interni moderni e lucidissimi dell'abitazione diventano così nido dalle paure e delle ansie di Boris, risvegliate da un convitato di pietra tanto spietato quanto eloquente (Denis Lavant). Ma alla fine dell'opera, che non manca di momenti quasi comici (Bruce Labruce con alito cattivo, per esempio), rimane poco. Quasi a suggerire che sotto le impeccabili camicie del nostro Don Giovanni, le emozioni siano anch'esse solo un accessorio di raffinata fattura.

 

Un habitué di Berlino è anche Danis Tanović, che torna dopo aver raccolto lodi meritate nel 2013, per An Episode in the Life of an Iron Picker. In concorso presenta Mort à Sarajevo, il primo film veramente forte del festival. Qui Tanovic mostra la sua qualità maggiore: un'abilità narrativa specialissima, capace di riassumere strati complessi di storia bosniaca senza chiudersi in particolarismi ed estendendo il dibattito al contesto europeo. È il 28 giugno 2014, anniversario dello scoppio della Prima Guerra mondiale e giorno in cui il mondo conobbe Gavrilo Princip. L'Hotel Europe è in procinto di ospitare diplomatici e personaggi influenti invitati a commemorare l'evento. Mentre Jacques Weber (nel ruolo di se stesso) si prepara a tenere un discorso sull'Europa nella suite Olimpica, sulla terrazza dell'albergo la televisione locale intervista “esperti” che discutono la figura di Princip. E nei sotterranei, dove sembra che “l'uomo semplice” sia sempre costretto a rimanere, il personale dell'hotel pianifica lo sciopero generale. Sentiamo estratti del discorso (originariamente una pièce di Bernard Henri-Lévy). Srebrenica è un punto cruciale, menzione legittima e obbligatoria in una conversazione sull'Europa che sembra evitare non solo il confronto ma soprattutto il riaccadere di tragedie assolute, come quella recente dell'Ucraina. Così, Putin come Milosevic. La capacità eccezionale di Tanović imbastisce il discorso storico e politico della Bosnia – specchio e centro, per una volta, dell'Europa – rendendolo funzionale al racconto. Storia al servizio della Storia o viceversa, non importa molto, poiché entrambe funzionano insieme, organicamente. L'ha detto forse meglio uno degli intervistati fittizi, l'urbanista che discute sul luogo dell’attentato a Ferdinando d'Asburgo: “Gavrilo Princip era forse un criminale, forse un eroe, ma non ci è mai bastato vederlo in un solo modo. Questa dualità tipicamente bosniaca ci aiuta a non essere prigionieri di una visione unilaterale.”

 

Infine in concorso c'è stata un'altra storia che conosciamo già in parte, ed è quella di André Téchiné. Quand on a 17 ans sembra un ritratto aggiornato, “remixato” dell'adolescenza protagonista in Les roseaux sauvages. Il mondo dell'amore omosessuale non è cambiato per nulla, anche se è cambiato tutto: in gioco sono i medesimi scontri e scoperte – anche se qui corporei e molto meno verbosi del film del 1994 – tra ragazzi al termine del liceo. I caratteri e le situazioni ritornano, ma spostati, sostituiti e concentrati: il triangolo affettivo dei due ragazzi e una donna, qui madre del protagonista; il mondo militare, simbolo paterno ma anche erotico; la campagna, che condensa le esperienze nel suo paesaggio. Il Bildungsroman alla Téchiné funziona, dopo tutto, ma sembra una ricetta vincente quanto cauta, come troppo schematica nella sua variazione.

 

Per dovere di intrecci di filmografie, bisogna nominare anche la già citata Mia Hansen-Løve e il suo L'Avenir. Il cinema di Hansen-Løve credo abbia la qualità molto bizzarra di attrarre e repellere insieme. La parabola dell'insuccesso e dell'infelicità individuale, cominciata con Il Padre dei Miei figli e proseguita da Eden, si conclude qui con la storia di Nathalie (Isabelle Huppert), un'appassionata insegnante di filosofia che viene lasciata dal marito dopo anni di matrimonio. A partire da questo primo evento, Nathalie verrà man mano spogliata da tutti i suoi titoli borghesi. Eppure sono titoli che lei ha scelto e conquistato: venuti a meno quelli (gli unici, apparentemente, capaci di darle un'identità che la soddisfa) sarà incapace di inventarne di nuovi. Quello che spiace in L'Avenir non è tanto la nevroticissima Huppert ormai insetto-stecco, né i wannabe anarco-primitivisti trilingui presso i quali Nathalie trova rifugio (e poi ennesima delusione), quanto l'immobilità di un avvenire che la regista teme chiaramente più per se stessa che per il suo personaggio.

 

Infine, per questi primi giorni di festival, alcuni altri titoli sono degni di menzione. Jeff Nichols porta in concorso Midnight Special, un film per cui l'aggettivo “curioso” funziona come quando si definisce una persona imbarazzante e affascinante allo stesso tempo. Se Michael Shannon è nuovamente un solido eroe tragico, il film è una sorta di film d'avventura sci-fi degli anni Ottanta, con CGI di così bassa qualità (e inventiva) da suggerire la scelta deliberata. Ci piacerebbe che questo non disturbasse, ma ricordando la poesia del naturale e dell'innaturale in Mud e Take Shalter, qui non si può ignorare la differenza. Midnight Special è un film che si guarda con piacere, soprattutto se la morale finale coincide con (forse) un modo di visualizzare concretamente l’“ignoto Internet profondo”. Che il personaggio di Adam Driver come agente etico dell'NSA voglia suggerirci proprio questo?

 

A chiudere questa prima carrellata, dalla sezione Panorama, due esordi “originali” ma importanti: quelli di Omer Fast e Alex Andwandter. Entrambi non estranei alla cultura visiva, debuttano con lungometraggi dopo carriere in altri campi (rispettivamente nella video arte e nell'industria musicale). Fast (artista israeliano residente a Berlino) ha presentato un riadattamento di un romanzo di Tom McCarthy, Remainder, adottando uno stile limpido e patinato – cosa che un po' sorprende se si conoscono le sue installazioni precedenti, tutte lucidissime dal punto di vista del contenuto, ma dalla patina ben più cupa e grezza. I temi a lui cari rimangono, però: la circolarità della narrazione e il reenactement come esperienza individuale approfondita, la memoria difettosa e la critica a un sistema sociale e finanziario corrotto.

 

L'altro debutto da tenere d'occhio è Anwandter, classe 1983, nuovo talento del nuovo cinema cileno. Nunca Vas a Estar Solo rielabora un fatto di cronaca di un ragazzino morto suicida in seguito a ripetuti episodi di bullismo omofobo. Il quartiere piccolo-borghese di Santiago dove si svolge la vicenda è un luogo quasi onirico, come del resto la struttura narrativa del film. La violenza viene qui sfruttata come spartiacque della diegesi: dopo il pestaggio di Pablo (la vittima), Anwandter ci racconta di Juan (il padre, single e già anziano) ed è proprio in questo spostamento di prospettive che la tragedia individuale diventa esperienza universale. In questo sforzo di comprensione della rabbia personale risiede la forza del film, che beneficia anche di un impeccabile lavoro sul sonoro e una musica coi fiocchi, che alleggerisce e soppesa nei momenti giusti. E si conclude con Lucio Battisti che canta, in spagnolo, “Il mio canto libero”.

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