Verdi Lenz Re Lear

15 Ottobre 2015

Perfino i grandi capolavori, quelli che di fatto, nei secoli, continuano a nominare misteri attraverso la precisione di forme magiche, sono solo rigurgiti di un grande silenzio, slanci incoscienti, interruzioni, dimenticanze – miracolose, poiché davvero inspiegabili – dell'afasia che caratterizza la vita di chi passa la vita a convocare vuoti. Più spesso vince l'afasia: gli aborti superano di gran lunga le nascite. L'artista abortisce di continuo, e quanto più crea più abortisce, poiché ogni nascita produce un fallimento, ogni slancio testimonia una inadeguatezza, tradendo la vertigine che l'ha sospinto in forma; ed è sempre più difficile: ma il dolore, appunto, a tratti si dimentica, per fortuna. E nascono La Sonnambula e la Norma in cui ci sono frammenti di un Ernani che Bellini non è mai riuscito a scrivere, per esempio. E Rigoletto, Il trovatore, Nabucco, La forza del destino, dai semi di un desiderio incompiuto di Giuseppe Verdi che per tutta la vita ha progettato di scrivere un'opera dal Re Lear di Shakespeare, lo slancio insuperabile, il suo capolavoro. Dell'opera fantasma – non incompiuta, ma abortita, appunto – resta unicamente il libretto di Antonio Somma, con le correzioni, massicce, del compositore. Gli aborti di opere liriche di cui esistono solo i libretti, sono terra di nessuno: snobbati dai musicologi che non si interessano a ciò che non è musicato, ignorati del tutto dai teatrologi che all'opera lirica non si interessano affatto. Eppure, tra le righe delle correzioni, nella relazione tra drammaturgo e compositore, dentro l'officina di un futuro aborto, c'è un potenziale di senso enorme: ci sono le tracce ancora vibranti della disperata smagliatura di un limite da parte di un artista. C'è la sua relazione con il mondo, prima che si perfezioni in una scoria. E dal momento che “nulla è, tranne ciò che non è”, per citare proprio Shakespeare, nel Re Lear che non c'è c’è Verdi, che è il Re Lear tradito dalle figlie a cui ha dato fiducia per superbia, soccorso invece dall'unica figlia fedele, esiliata; non per sovrapposizione tematica, ma per investimento desiderante, poiché l'accerchiamento stesso di una assenza sprigiona la presenza più sincera.

 

Lenz Fondazione + Robin Rimbaud aka Scanner, Verdi Re Lear, di Francesco Pititto

 

Verdi Re Lear si chiama infatti l'opera verdiana assente che Lenz Fondazione, collettivo fondato e diretto da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, dal 1985 attivo nel campo delle visual performing arts, esplorando il linguaggio contemporaneo a livelli altissimi, ha presentato – significativamente – nell'ambito del Festival Verdi 2015 di Parma e Busseto. Tutto sommato è comprensibile che solo a degli artisti possa venire in mente di accostarsi ai fantasmi di un altro artista, e d'altro canto, solo l'energia di una approssimazione, il pathos di una distanza, la precisione e l'evanescenza di una forma che desidera può evocare un precedente accerchiamento, un altro desiderio, appunto.

 

Lenz Fondazione + Robin Rimbaud aka Scanner, Verdi Re Lear, di Francesco Pititto

 

Il pubblico transita da una prima stanza a una seconda abitando un'unica installazione, senza consequenzialità, dalla sala del colore a quella del bianco e nero o viceversa, dal canto pronunciato da una bocca visibile, a quello solo udito, suggerito come ricordo, da sequenze logiche che parlano di potere, scettri e tradimenti, a sovrapposizioni, innesti, ombre. Lo spettatore insegue, riconosce, si perde, intuisce, come in un incubo, che a tratti è di Lear, ma di Verdi, o invece di Cordelia, o il nostro, o non si capisce più di chi, che non inizia e non finisce, ingoia e restituisce ossessioni, insistenze, paure, abbandoni, tenerezze, struggenza, frammenti di parole di cui spesso, soprattutto se a parlare è il fool–Barbara Voghera, ormai storica straordinaria attrice “sensibile” di Lenz – rimane solo l'ossatura vocalica, il balbettio, nello sforzo del pronunciare, del riconquistare di forza una corporeità, un senso viscerale a parole il cui significato dice solo storielle.

 

 

In una delle sale, in una doppia proiezione, su due retinature che si sovrappongono in profondità, un uomo nudo accovacciato al suolo, Lear, compatisce, letteralmente, ciò che avviene in scena, tra le due retinature; la sottrazione del regio scettro pronunciata da due cantanti lo ferisce, proprio mentre lo vediamo follemente versare sulla propria testa del liquido nero, nero come i capelli neri di un re giovane e ancora sovrano, nero come la sua peluria, che si fa pelliccia nera che prova a vestire tutto, a riguadagnare il potere perduto. Il canto d'addio di Cordelia esiliata, "pellegrina ed orfana" come nell’aria della Forza del destino, fa contrarre il suo ventre, la voce di lei sembra scavare come un sondino nel corpo di lui, l'occhio della telecamera, la cui azione sembra essere controllata direttamente dalle altezze e dalle volute della voce, scava fin dentro i pori della pelle; e ancora, non capiamo se sia il canto a scuotere il corpo, come un'accusa, o il corpo, nell'atto stesso di muoversi, a produrre suono con il movimento, l'oscillazione, a rigurgitare il canto, come un rimorso che arriva dalle viscere; vediamo e sentiamo, indistintamente, comprendiamo per sinestesia, poiché siamo compresi. Sintesi, indiscrezione, massa, evanescenza, contraddizione e chiarezza, vastità e precisione: davvero come in un sogno, ma con il rigore linguistico attraverso cui il teatro può convocare i fantasmi.

 

 

Lenz Fondazione + Robin Rimbaud aka Scanner, Verdi Re Lear, di Francesco Pititto

 

Proprio allo squadernamento della forma, insistendo in una pratica di riflessione teorica che negli anni è diventata consuetudine per la compagnia, Lenz ha dedicato un convegno intitolato ai Teatri del suono, coordinato da Enrico Pitozzi, docente dell'Università di Bologna, e curato da Valeria Borelli con ospiti Helga Finter dell'Università di Giessen e Massimo Marino, docente e critico teatrale. Un'occasione estremamente preziosa e rara, per riassumere, sintetizzare e condensare in un discorso a più voci riflessioni già piuttosto strutturate, dal punto di vista scientifico, circa il potenziale drammaturgico del suono nel teatro contemporaneo; ma più precisamente sullo slittamento, sulla frattura epistemologica che si è prodotta rispetto allo statuto stesso di ciò che si riconosce in quanto teatro, teatralità, con lo scarto innescato dalla performatività, dal superamento dell'istanza di rappresentazione in favore di una istanza di autoreferenzialità; un superamento che nella voce – in quanto suono che rimanda a se stesso prima che a un significato –, nella dimensione del vocalico come corpo, vita che pulsa prima e tra le maglie delsignificato verbale,ha trovato un viatico eccezionale.

 

Verdi Re Lear offre, evidentemente, l'occasione perfetta per provare a chiarire il punto. Lenz esplora lo iato tra il desiderio e il compimento che non avviene (e che per statuto non deve avvenire), muovendosi tra i sospiri, nell'accadimento dell'esperienza prima che si esponga al giudizio e muoia, evocando le escrescenze sensibili dell'inconsolabilità dell'artista, i capolavori, le arie e i duetti dal Nabucco, da Rigoletto, da La forza del destino, da Luisa Miller (ma non solo), opere – rintracciate da Carla Delfrate, cui Pititto e Maestri hanno affidato la ricerca musicale –in cui sono disseminati alcuni elementi di quel desiderio originario. Un Verdi reale è innestato dentro un Verdi in potenza, secondo un singolare procedimento di sottrazione: l'opera reale viene depauperata della musica per dare un corpo a un'opera inesistente: togliere un oggetto proprio mentre lo si nomina, per produrre vuoto desiderante, unheimlich, perturbanza.

 

Lenz Fondazione + Robin Rimbaud aka Scanner, Verdi Re Lear, di Francesco Pititto

 

Più nel dettaglio, la dimensione sonora dell'installazione si sviluppa secondo un doppio tracciato. Da un lato Robin Rimbaud aka Scanner, uno dei compositori più importanti della scena elettronica mondiale, imprime il colore alle scene (e proprio in termini di colori confessa d'aver dialogato con Pititto in fase di creazione), quasi assumendosi la responsabilità diegetica, suggerendo continuativamente allo spettatore l'intreccio delle atmosfere, il pericolo, l'accadimento, la disperazione; in qualche modo recuperando la vocazione lirica dell'opera, il potenziale asemantico, commovente del melodramma. Dall'altro i frammenti verdiani cantati dagli allievi del Conservatorio Arrigo Boito di Parma (con la consulenza di Donatella Saccardi) – che sembrano invece non più suggerire le atmosfere della scena ma sporgere da dentro come schegge impazzite –, privati della musica, perdono proprio quel potenziale asemantico nella sua qualità originaria, per acquistarne una nuova, attraverso un strategia altra. La melodia che il canto a cappella conserva, infatti, facendo anche leva sull'archeologia che è nella mente dello spettatore, sul ricordo di quelle arie e quei duetti accennati, suggerisce un pieno mancato; è il silenzio dove ci si aspetta un rumore a effondere senso e commozione, a frustrare la percezione, a suonare; di «peso di una assenza di una musica nominata», parla più precisamente Federica Maestri. Ricapitolando: mentre il disegno sonoro di Skanner ci chiarisce che siamo dentro un sogno/incubo, i relitti delle opere verdiane ci costringono a esperire lo stesso vuoto desiderante di una composizione abortita. E davvero non si riesce a immaginare una forma più precisa per evocare l'impossibilità, il deserto sconfinato della vita in cui abitano Lear, Verdi, Lenz e noi.

 

Lenz Fondazione + Robin Rimbaud aka Scanner, Verdi Re Lear, di Francesco Pititto

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