Speciale

Arti decorative e identità africana / Echi del passato, iscrizioni del presente

18 Marzo 2016

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In un salone elegantemente affrescato di Villa La Pietra, sede fiorentina della New York University, vi è un pregevole manufatto che ritrae una donna con una tunica marrone chiaro adornata da foglie di fico dorate, un colletto d’oro e bottoni e stivali in tinta. Sul suo viso d’ebano è disegnato un ampio sorriso e il suo corpo è semi-genuflesso. Le braccia aperte accolgono i visitatori, come a suggerire un invito: “Datemi i vostri guanti, le sciarpe, i cappotti”. Dall’altra parte della stanza vi è una statua simile, che ritrae una figura maschile. Le sue sembianze sono quelle di un paggio del XVIII secolo. È un giovane africano dalla splendida chioma ricciuta, adornato da stemmi marroni e dorati, raffigurato con un corno o una tromba sottobraccio, su un piedistallo a gradino, in un gesto di riverenza nei confronti degli osservatori. Queste opere appartengono a un genere di arte decorativa dell’Europa occidentale di cui fanno parte oggetti d’arredamento, sculture, dipinti e arazzi raffiguranti personaggi di origine africana nelle vesti di domestici, soldati, servitori e custodi di sontuose residenze. Noti generalmente in italiano come "mori" o "moretti" – in lingua inglese come “Blackamoors”, – gli esemplari appartenenti alla collezione d’arte di Villa La Pietra risalgono per la maggior parte a un periodo che va dal XVII al XIX secolo.

 

Photo by Awam Amkpa.

 

Anche la nostra epoca abbonda di figure del genere, rivisitate in chiave contemporanea e riesumate da una varietà di media e spazi espositivi: dalle abitazioni private agli hotel, dai musei alle creazioni di moda e di gioielleria. È impressionante quanto siano diffuse queste immagini in città come Firenze, Venezia e altre località italiane. La loro presenza è talmente “normale” da renderle quasi invisibili a chi le guarda. Ma se ci fermiamo a osservare i cimeli di varia epoca appartenenti alla Collezione Acton di Villa La Pietra, cosa possiamo dire della loro intrigante e disturbante bellezza? Chi li ha realizzati e perché? Che genere di arte decorativa rappresentano nella tradizione della produzione artistica e del collezionismo? Quali storie materiali e significati culturali vi sono codificati? Com’è possibile, per gli studiosi contemporanei, interpretare questi significati a partire da una varietà di prospettive disciplinari? E soprattutto, come vengono reinterpretati questi significati dagli artisti del nostro tempo, nella fotografia, nella scultura e nel cinema contemporaneo? La mostra ReSignifications, inaugurata a Firenze nell’estate del 2015, insieme alla conferenza dal titolo Black Portraitures: Imaging the Black Body, Re-staging Histories, presenta una serie di risposte ai manufatti e alla tradizione europea dei cosiddetti Mori.

 

Photo by Awam Amkpa.

 

Costruita attorno ai 39 moretti – per la maggior parte sculture – disseminati tra le opere d’arte presenti nella Villa, la mostra nasce dal dialogo con due straordinari collaboratori, Ellyn Toscano e Robert Holmes, rispettivamente produttrice esecutiva e produttore dell’evento. Con Ellyn e Bob, abbiamo deciso di utilizzare i moretti ospitati nella Villa come archivi e strumenti di ricerca per riflettere su arte, rappresentazione, storia e identità. Questi oggetti si inseriscono all’interno di un tema secolare, ovvero quello dell’incontro interculturale, della produzione artistica e dell’influenza esercitata da migrazioni, conquiste, schiavitù ed esilio. Rappresentano una preziosa occasione per decostruire, confrontare e contestualizzare, a partire da un approccio multidisciplinare, la miriade di ritratti di corpi africani, che identifichiamo come “neri”, nelle società occidentali. In questo senso, queste immagini costituiscono una risorsa di inestimabile valore per riflettere in maniera critica sull’identità diasporica africana e sulla sua rappresentazione nell’arte europea. Obiettivo del nostro progetto è quello di considerare queste figure come un prisma critico attraverso cui esaminare l’iconicità e la discorsività storica delle opere d’arte della Collezione Acton.

 

Nel concettualizzare il nostro progetto, non ci siamo limitati a riflettere soltanto sui singoli oggetti della Collezione Acton, ma anche sulla loro peculiare giustapposizione con opere di diversa epoca e provenienza (ad esempio, opere rinascimentali disposte accanto ad altre risalenti alla fine del XIX secolo). Ci siamo interrogati sulle modalità dialogiche attraverso le quali questi accostamenti danno forma alla storia e alla storicità. Opere del tutto diverse tra loro sono poste le une accanto alle altre, suggerendo una lettura non univoca e non lineare delle traiettorie culturali. Siamo partiti da questo approccio polivalente per strutturare la mostra. Sullo sfondo della storia e della politica contemporanea, delle prime formulazioni moderne dell’identità razzale e dei dibattiti del XXI secolo sui rifugiati provenienti dal Sud del mondo, abbiamo utilizzato la dimensione dialogica dell’arte per interrogarci sulla funzione discorsiva dei moretti nella storia e nella cultura globale. Al tempo stesso ci siamo concentrati sulla materialità di questi oggetti – rappresentazioni di corpi africani realizzate come ornamento, elemento decorativo o di arredo – e sui consumatori che li portavano nelle loro case o li aggiungevano alle loro collezioni d’arte.

 

Photo by Awam Amkpa.

    

Le molteplici rappresentazioni dei moretti all’interno di spazi pubblici e privati – dai musei ai salotti domestici – sono un segno della rilevanza degli africani nell’immaginario europeo e dell’intreccio di storie tra Africa ed Europa, frutto di relazioni commerciali, imperiali e migrazioni, sia volontarie che forzate. Come hanno osservato alcuni studiosi, a partire dal XVII secolo, la presenza di corpi fortemente connotati in termini razziali, raffigurati come servi, è indicativa della grandeur aristocratica cui aspirava la borghesia mercantile, che si manifesta nella rievocazione dei servitori africani nelle corti reali. Inoltre, come osservato dai teorici della cultura, se i corpi e le fattezze di queste figure evocano l’immagine di individui che identifichiamo come “neri africani”, l’araldica, i costumi e i vari accessori che indossano si richiamano all’immaginario fantastico legato all’“Oriente”. Come significante artistico, il moretto è dunque un’icona composita e sincretica ove si intrecciano le idee di Africa e Oriente che storicamente appartengono all’Europa. Questo progetto guarda, da un lato, alla storia dei Mori nel Mediterraneo, dall’altro, all’incontro tra Europa, Africa, Asia e Medioriente attraverso le relazioni diplomatiche, il colonialismo e lo scambio di merci e individui.

 

I conflitti odierni legati ai rifugiati africani in Europa rappresentano un’occasione propizia per riflettere sul peso della storia e dei codici culturali inscritti nell’arte. Ad alimentare l’esodo dai Paesi dell’Africa postcoloniale verso l’Europa sono stati l’instabilità politica, la deterritorializzazione e i conflitti legati alle estrazioni minerarie. Se l’ondata di migrazioni africane ha portato con sé una recrudescenza del razzismo e della xenofobia, l’immagine dei neri nell’arte tradizionale ha rappresentato una rassicurante via di fuga dalle spinose questioni legate alle politiche sull’immigrazione. Allo stesso tempo, se guardiamo al nostro versante dell’Atlantico, siamo del tutto consapevoli della condizione di pericolo delle identità diasporiche africane negli spazi pubblici. Dalle aule legislative della Repubblica Dominicana ai quartieri residenziali della Florida, alle città del Missouri, gli individui di origine africana sono vittime di emarginazione e violenza. Non potevamo non portare il “Nuovo Mondo” nella nostra riflessione sulle questioni di razza, identità e cittadinanza sollevate dai moretti della Collezione Acton.

 

Photo by Awam Amkpa.

 

Il nostro progetto ha preso forma attraverso una serie di incontri su questi temi, seguiti da un convegno dal titolo “European Blackamoors, Africana Readings,” nel corso del quale un gruppo di artisti e studiosi ha discusso le linee generali del progetto e i paradigmi artistici e intellettuali di riferimento per la realizzazione della mostra e di una conferenza sugli stessi temi. L’impianto curatoriale della mostra nasce dall’idea di utilizzare la collezione dei moretti ospitata all’interno della Villa per rintracciare i segni di una storia che inizia nel XVII secolo e continua fino ad oggi. Per realizzare il nostro progetto, abbiamo invitato alcuni artisti a visitare la collezione e a fornire un’elaborazione personale sul tema attraverso le loro produzioni culturali. Questo ci ha aiutato a definire gli orientamenti curatoriali della mostra. Le fotografie, i video, le sculture, gli arazzi e i dipinti realizzati da 45 artisti provenienti da Africa, America ed Europa hanno agito da testi visivi, mettendo in discussione le convenzioni attraverso le quali i corpi neri africani sono stati storicamente oggettivati. Questi artisti contemporanei hanno raffigurato quei corpi come soggetti artistici, dando nuovo significato in tal modo all’immaginario di mercificazione incarnato dai moretti.

 

Attraverso la giustapposizione di moretti tradizionali e rivisitazioni contemporanee, abbiamo concepito la mostra come un dialogo globale e intergenerazionale tra arte e artisti di diversa epoca e provenienza. Attraverso il confronto tra artisti provenienti dai Paesi e dalle isole dell’Oceano Atlantico, ReSignifications ha messo in luce i contesti originari in cui sono stati realizzati i moretti, evidenziando, sovvertendo e mettendo in discussione le logiche di oggettivazione che ne stanno alla base. Oltre a quest’opera di riflessione, revisione e sovversione, gli artisti si sono confrontati con le loro reciproche forme d’arte contemporanea e attivismo culturale. Queste intersezioni polivalenti, e gli spazi dove sono state esibite, hanno definito la trama curatoriale della mostra. 

 

L’evento si è svolto a Firenze in tre sedi: Villa La Pietra, il Museo Stefano Bardini e la Fondazione Biagiotti Progetto Arte. Anziché nel “cubo bianco” del tradizionale spazio espositivo, le opere allestite presso Villa La Pietra e il Museo Stefano Bardini sono state collocate all’interno delle collezioni già esistenti. Tra gli artisti in mostra, Viktor Omar Diop, Zanele Muholi, Malik Nejmi e molti altri.

 

Photo by Awam Amkpa.

 

ReSignifications non è soltanto una contro-narrativa che si oppone al significato storico del corpo nero/africano come oggetto artistico. Piuttosto, implica una visione dell’arte che attraversa una molteplicità di tempi (eterocronie) e luoghi futuri (eterotopie), mettendo in discussione sistemi di significazione che codificano, etnicizzano e racchiudono i soggetti umani all’interno di paradigmi ristretti, fondati sul “non-essere”. Il nostro obiettivo non era solo quello di mettere in discussione la stabilità del lessico tradizionale associato a determinati luoghi, ma di cercare un umanesimo più ampio da cui partire per immaginare e realizzare emisferi artistici in divenire. Per farlo abbiamo chiamato a raccolta artisti di varia fama, di diverse generazioni e collocazioni geografiche, dando vita a quel mosaico che è divenuta la mostra ReSignification. Attraverso questa polifonia e giustapposizione di voci in contrappunto, ogni opera è diventata trans-contestuale. Abbiamo messo in discussione gli archetipi, criticato gli stereotipi e immaginato “politipi”, espressione delle nostre identità frattali. Abbiamo analizzato in dettaglio i generi e le convenzioni della produzione e dell’interpretazione artistica, sovvertendo le geografie che li hanno provincializzati e sognando una molteplicità di utopie (eterotopie) e tempi interconnessi (eterocronie) attraverso cui mettere a confronto luoghi e tempi, cercando di frammentare logiche e “verità” tradizionali per dar vita a nuovi, inediti immaginari. Di fatto, la mostra è stata una visualizzazione testuale di quella che Édouard Glissant ha definito come “poetica della relazione”.

 

La conferenza Black Portraiture, organizzata principalmente da Deborah Willis, ha fornito una piattaforma intellettuale attraverso la quale artisti e studiosi di tutto il mondo si sono confrontati con le nostre ambizioni. Per gli artisti e gli studiosi provenienti dagli Stati Uniti, le speranze e i pericoli legati all’attuale stato delle relazioni razziali – come testimonia, ad esempio, la presenza del primo Presidente di origine africana nell’epoca delle incarcerazioni razziali di massa – hanno fornito l’occasione per parlare dello sviluppo sociale e culturale di un nuovo emisfero panafricano. Per gli studiosi e gli artisti provenienti dall’Africa, le devastazioni prodotte dal neo-colonialismo e dal conflitto etno-religioso rendono necessaria, per l’arte socialmente impegnata, l’elaborazione di nuovi immaginari. Per chi viene dall’Europa, le sfide del nativismo sollevano questioni legate alla capacità dell’arte di offrire spazi di socialità e comprensione interculturale. Con 219 relatori e 43 forum di discussione, la conferenza – significativamente intitolata Black Portraitures: Imaging the Black Body, Re-Staging Histories – ha rappresentato un’estensione del nostro metodo di indagine e confronto intersettoriale.

 

Insieme, la mostra ReSignifications e la conferenza Black Portraitures hanno rappresentato un evento eccezionale che continuerà a ispirare artisti e studiosi. Rimarrò eternamente grato a Ellyn Toscano, Robert Holmes e Deb Willis per la straordinaria capacità immaginativa, l’energia collaborativa e le risorse con cui hanno contribuito alla realizzazione di entrambi i progetti, aprendo certamente la strada a nuove collaborazioni nell’immediato futuro.

 

Questo testo è un estratto del catalogo della mostra ReSignifications curata da Awam Amkpa.

 

Traduzione a cura di Laura Giacalone.

 

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