Le Harbor Series di Gil Mares

26 Novembre 2013

Hull With Float, II: Un rettangolo orientato in verticale, scandito da forme geometriche bidimensionali, frontali, schiacciate. Dominano i toni caldi, ed è il colore a creare le forme, ad animarle, non a riempirle - in alto, un rosso pastoso e levigato, compatto, taglia la superficie a formare una ‘L’ capovolta. L’asta più stretta è sbiadita nella parte bassa e rivela un’anima chiara nelle abrasioni e nei graffi arabescati dal tratto incerto, spezzato, che contraddicono la regolarità della geometria generale. Sulla sinistra si inserisce, complementare, un quadrato più sfumato: bande orizzontali più o meno definite alternano toni viola, antracite e rosa, slavati a tratti in direzione verticale.

 

A completare la composizione, in basso interviene una striscia impressionisticamente lavorata. Una spessa linea scura, che appare tratteggiata di bianco, la separa dalla parte sovrastante. Un’altra linea scura scorre in verticale, si staglia sul rosso dello sfondo ma genera aloni caldi dove taglia i campi più chiari, e la incrocia. Sembra originare da un’apertura circolare, nera, in alto. A prima vista, l’intera superficie si impone come un motivo astratto, che oscilla tra effetti materici pittorici e nitidezza fotografica. Un istante più in là, rivela il dettaglio di un guscio navale, catturato in digitale laddove la linea di galleggiamento separa la carena dall’opera morta, la parte emersa della nave. È sull’ambiguità del vedere che Gil Mares fonda i sensuali ‘Harbor Abstracts’ - ma prima ancora, magistralmente composte, le fotografie riflettono sulle modalità del porre in immagine, sulla posizione del fotografo e dell’oggetto, e dunque sull’ambiguità strutturale del mostrare il reale nell’arte.

 

Gil Mares, Hull with Float II, 2009

 

Parzialmente in mostra da Weinhart Design a Bel Air, le ‘Harbor Series’ coronano l’esperienza fotografica pluridecennale di Mares. Originario della Bay Area in California, l’artista ora vive e lavora a Los Angeles e sin dalla fine degli anni novanta espone regolarmente in personali e collettive negli Stati Uniti. È l’iniziale sperimentazione con motivi architettonici a permettergli, nel tempo, una crescente focalizzazione sul dettaglio: in Study 1, datato 1985, è ancora un campo lungo a investire la baracca chiara, dalla forma minimalista, che si staglia contro il fondo boscoso, appoggiata sulla linea curva del prato. Benché a colori, la composizione rivela influssi del bianco e nero di Edward Weston, mentre l’oggettivazione artificiosa, tuttavia non ancora frontale, sembra orientarsi a Bernd e Hilla Becher. Nelle serie successive, composte da riprese di edifici più ravvicinate, il linguaggio di Mares si fa personale: il fondo tende a scomparire e cessa di fornire appigli alla figura.

 

Gil Mares, Study II, 1989

 

Restano i rapporti complessi tra gli elementi della superficie. In frammenti isolati, indagati con crescente precisione, la rappresentazione mimetica si capovolge in astrazione. Study 2 (1989), per esempio, nega punti di fuga allo sguardo, costretto a rimbalzare sulla bidimensionalità della parete terrosa. Ogni accenno di profondità, come le aperture della porta o della finestra, perde di concretezza tridimensionale e assume una materialità pittorica, esaltato nella varietà delle testure e del loro logoramento atmosferico e dunque temporale. Negli ‘Harbor Abstracts’, infine, è il colore a prevalere, in generale, sulla forma. Traccia di una pitturazione vera, volta in origine a coprire e sigillare più che a decorare i gusci di pesanti navi cargo, è liberato, nell’isolamento dello scatto, da ogni funzionalità, catturato nelle sue qualità estetiche. A tenerlo in equilibrio interviene una sottile struttura compositiva, più o meno visibile, ricalcata sulle linee di sutura delle tavole, sugli alleggi, sui barcarizzi.

 

Gil Mares, Untitled, 1985

 

Nella pratica di Mares, il rapporto tra dissimulazione astratta e rivelazione figurale traduce una riflessione sul porre il reale in immagine, e si posiziona rispetto alle molteplici interconnessioni tra la storia della pittura e quella della fotografia. È attorno al 1970 che il foto-realismo prende la fotografia a modello della pittura, non solo nella scelta del soggetto e dell’inquadratura, ma anche nella finzione apparativa di uno sguardo oggettivo. Pratica iconica volta a far presa sul reale, ha una tradizione occidentale, raccolta in mostra, per fare un celebre esempio, a Documenta 5 nel 1972. Sulle tele di Gerhard Richter, in una fase della sua produzione, il rapporto di emulazione si complica. Entrano in gioco tecniche pittoriche quali lo sfocato a deformare soggetti fotografici. Di rimando, sono numerosi gli artisti contemporanei che si servono di effetti pittorici in fotografia, basti pensare alle strutture compositive di Jeff Wall, all’applicazione del fuori fuoco nei lavori di Uta Barth, o alla tessitura granulare nelle fotografie di Seton Smith. Altri, invece, si appropriano di dipinti conosciuti (John Baldessari, Sherrie Levine).

 

Gil Mares, Hull with Float, 2009

 

Se la fotografia può dunque emulare la pittura nei colori, nei contenuti, nelle qualità pittoriche e narrative, Mares sceglie di rimandarne alla storia senza arrangiare composizioni o fotografare opere preesistenti. Nei lavori che appaiono come citazione dell’espressionismo astratto di un Willem de Kooning, o dei décollages di Mimmo Rotella, la composizione emerge nel momento dello scatto, isolando il dettaglio di una superficie già dipinta – per scopi industriali. Questa tipologia di cattura della superficie reale sembra esprimere un intento più vicino al nuovo realismo che all’espressionismo.

 

Il rapporto con l’astrazione è infatti un rapporto di contraddizione. La componente lirica dell’astrazione, che sottolinea nella traccia, nel colore, l’impronta del soggetto, è al contempo evocata e negata. Il colore, la struttura non sono qui traccia di gesti estetici, non svelano, nella perfezione dell’immagine messa a fuoco, alcun moto soggettivo, ma il risultato della storia dei materiali, colto in un attimo casuale. Lo schema interpretativo dell'oggetto-specchio, di un'alterità rivelatrice, fallisce a contatto con l'autonomia delle superfici, che sfuggono alla tirannia della significazione. Le stratificazioni, il deterioramento, la ruggine impongono una forma di ricezione che è meticolosità del vedere.

 

La negazione di un rinvio allegorico, narrativo o politico, unito alla ricerca di coerenza interna, di una struttura armonica, e di colori accattivanti e paradigmatici per pratiche Californiane, si espone consapevolmente al rischio di un formalismo, di un’estetizzazione fine a se stessi. Ma offre, nell’ordine dell’esperienza, un’attivazione sensoriale rara, e rispetto al mezzo fotografico, una riflessione importante sul campo e il fuori campo, sul particolare e l’insieme, sulla trasposizione del reale in immagine.

 

Gil Mares, 'Harbor Series', Weinhard Design, 2337 Roscomare Rd, Los Angeles, CA 90077, Stati Uniti

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