Tiziano Terzani, Un’idea di destino

3 Giugno 2014

“7 ottobre 1996, Francoforte. Fiera del Libro. Mai più.

10 ottobre 1996, Amburgo. Spiegel addio.

16-19 ottobre 1996 Cernobbio. Aspen. Basta con questo mondo. […] Viviamo in strani tempi dove la letteratura è pubbliche relazioni, dove quel che si produce non conta, basta che venda, dove le relazioni sono virtuali, dove la conoscenza viene uccisa dall’informazione, dove le menzogne sono vendute come verità, dove la dittatura della mente domina la democrazia, dove i cittadini e le menzogne sono al centro dell’universo. La moralità è persa, tutti i criteri sono economici, l’economia mette fuori gioco l’etica e l’estetica. Dove può condurre questo credere solo nell’economia?”

 

In quei dieci giorni del 1996, a 57 anni, Tiziano Terzani traccia uno spartiacque determinante nella sua vita e nella sua scrittura. È tutto in mezza pagina dei suoi diari appena pubblicati da Longanesi con il titolo Un’idea di destino. Diari di una vita straordinaria.

Il libro, che esce a dieci anni dalla sua scomparsa, raccoglie una piccola parte delle 3500 pagine che Terzani aveva riordinato sul computer e in decine di scatole nella casa di Orsigna. Alen Loreti, con l’aiuto e la supervisione della famiglia Terzani, in particolare della moglie Angela, ne ha selezionato con sapienza le parti destinate alla pubblicazione.

 

I diari partono da poche note del 1981, sulla disillusione di quella Cina che per anni aveva sognato, e arrivano alla metà del 2003, quando l’autore si dedica esclusivamente al suo ultimo libro, Un altro giro di giostra.

Il Tiziano che emerge dai diari coincide solo in parte con quello fin qui conosciuto dai suoi lettori. È la stessa persona nella ricchezza del pensiero e della lingua, nella profondità e nell’ironia dello sguardo sulla realtà, nell’osservazione dei dettagli. Ma qui si affaccia un uomo travagliato, tormentato, che dà voce ai dubbi, alle domande senza risposta, alle oscillazioni che l’attraversano per anni. Lo anticipa, in una intensa prefazione, Angela Terzani Staude: “Mi pare bello oggi poter ascoltare quest’altra sua voce, quella adirata, dubbiosa, sofferente, che faceva da contrappunto alla voce forte e convinta con cui si presentava al mondo. È come scoprire le radici affondate nella terra buia di un albero che svetta nel cielo”.

 

L’impressione che si ha nella lettura è di una tensione costante e irrisolta per decenni tra due domande essenziali ed eterne: “chi sono io?” e “come stare nel mondo?”. Domande che in lui sono insieme questioni personali e universali, a partire dagli eventi quotidiani. Le prime sono pagine di lucida disillusione scritte nella sua amata Cina, la terra che, come tanti giovani, idealizzava dal 1968 e dove era approdato dopo la morte di Mao, primo corrispondente europeo, per il quotidiano tedesco Der Spiegel. Si parte con una delle sue osservazioni capaci di illuminare in poche righe un intero mondo: Marzo 1981, Pechino. Di notte un’unità dell’Esercito di liberazione taglia tutti gli alberi classici della Cina (i salici piangenti) attorno alla sede del governo, all’interno della vecchia città imperiale, e li porta via. Al mattino sembra che niente sia successo. Ognuno è stato sostituito da alberi di Natale di tipo americano che in nulla appartengono alla tradizione cinese.

 

Resterà in Cina quattro anni, a osservarne e descriverne la realtà e a denunciarne le storture senza mezzi termini (“Ci avviamo sempre più verso una forma di fascismo senza ideologia, se non quella della disciplina, dell’ordine, della forza, della delazione, del sospetto”), fino all’arresto e all’espulsione come “indesiderato”: non gli andò peggio, lo svelano ora i diari, solo grazie alla mediazione del Presidente della Repubblica Pertini.

 

 

Da quell’esperienza vissuta con grande dolore Terzani approda a Tokyo e, disgustato dalla direzione in cui va quella società, modello dell’economia mondiale, è invaso dalla depressione, con cui dovrà fare i conti a lungo. I diari ci accompagnano per traslochi e viaggi nelle Filippine, in Thailandia, Birmania, Cambogia, India. Più volte, negli anni, richiama se stesso, con tanto di lettere maiuscole, al proposito, poi spesso disatteso, di dare continuità alla tenuta di un diario (“Ce la farò? DEBBO FARCELA. È certo un modo per vivere due volte il tempo che resta”).

Scopriamo la sua estrema difficoltà di arrivare a quella scrittura diretta, efficace e creativa che persegue come artigiano della parola alla ricerca della perfezione: “Bloccato sul capitolo sei [dell’Indovino]. Orribile. Se non so scrivere libri continuerò a scrivere pezzacci di giornalismo”.

 

È inquieto, insoddisfatto, in eterna oscillazione tra due estremi, in ogni campo.

Si interroga sul senso del suo lavoro: “Non ho già scritto abbastanza? Voglio davvero scrivere perché mi interessa far partecipare i lettori a un’importante esperienza o è per rimettere in piedi il mio ego dimenticato da qualche tempo?”.

 

È attratto dall’Oriente ma legato alla cultura di provenienza: “Non c’è un modo indiano di vedere le cose e uno occidentale. C’è soltanto un uomo empirico e uno interiore e quest’ultimo è universale. Plotino dice esattamente quel che dicono il Vedanta e Buddha”. Rifugge dalla ritualità ma osserva che “forse è meglio spendere la vita a fare gesti rituali attorno a un lingam che a una catena di montaggio”.

È sferzante con chi ricerca (invano) guru e maestri e con tutte le costruzioni teoriche, ideologiche e religiose. “Sono un uomo con un solo principio: quello di non avere principi. Anche quello di vivere in solitudine è superato. Non ho più voglia di cercare nulla, tanto meno me stesso.”

 

Vive un opprimente dissidio interiore tra lo stare da solo o in famiglia: “Per la famiglia sono diventato un peso e la famiglia lo è per me. Mi ritiro nei miei ritmi cercando di non dipendere più dagli altri e non far dipendere gli altri da me”. E più avanti: “Ho ancora, almeno in famiglia, delle stelle su cui orientare il mio sempre più confuso e labirintico cammino”.  Ma via via che si avvicina la fine, preannunciata e accolta con serenità, il pendolo di cui è stato in balia ha oscillazioni più dolci, gli opposti si conciliano come nel segno del Tao, la preoccupazione per i figli così diversi da lui diventa comprensione e il suo amore per Angela può finalmente trovare pace in una profondità di intesa che esalta la storia d’amore di una vita.

 

A coronamento del percorso il lettore incontra gli appunti scritti in occasione del matrimonio della figlia Saskia, sei mesi prima di “lasciare il suo corpo” (come lui amava dire). È insieme una sintesi alta dei travagli esistenziali e un inno al significato del matrimonio, “componente fondamentale in un mondo così instabile”: “La più grande sofferenza dell’uomo è il senso di solitudine e separatezza, e la sua più grande separazione è di essere parte dell’Uno, ricongiungersi con l’Uno. Quindi il matrimonio è la quintessenza di tutto ciò, come l’OM che unisce tutti i suoni”.

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