Barcellona: Arxiu Roberto Bolaño

16 Luglio 2013

L’appuntamento è per le undici nell’atrio della piccola pensione a pochi metri dalla Rambla de les Flors ma, un momen…, mi sembra di ricon…, stai a vedere che è prop…: sì, è lei! Sta attraversando la strada sotto la grande lanterna tra gli unghioni del drago della Casa dels Paraigües, la Casa degli Ombrelli. Le corro incontro, con il trolley della raccolta punti DiMeglio che capotta in continuazione e la crocchia in caduta libera verso le spalle sudaticce. Paola! Paolaaa! La stringo forte, stampandole una manata di unto sulla schiena, tra le due scapole, marchio del mio affetto imperituro oltre che indizio inequivocabile di una recente sbandata. Le arepas. Cotte al momento. Vendute avvolte in sottili, inesistenti, tovaglioli di carta nei chioschetti di cibo latinoamericano dove, dalle enchiladas alle empanadas, passando per imprecisate varietà di tamales, carimañolas, bollitos e generose porzioni di banana fritta, il panamericanismo è servito con la gentilezza sbrigativa che contraddistingue i luoghi del sovraccarico turistico.

 

Paola. L’avevo salutata più di un anno fa su un taxi a Bogotá, non ricordo bene dove, ora la ritrovo nel cuore di Barcellona, vicino alla celeberrima Boquería, in mezzo al tripudio di voci, odori e sapori che scatenano l’euforia beona dei giovani statunitensi alticci, abbrustoliti dal sole catalano.
Lasciata la valigia dove alloggiamo (il trolley di cui sopra, essenziale e battagliero, guadagnato a furia di mangiar prosciutto), raggiungiamo a piedi gli spazi espositivi del CCCB, il Centro di Cultura Contemporanea. Si trova nel quartiere del Raval, dove per qualche tempo ha vissuto, al numero 45 di Carrer dels Tallers, Roberto Bolaño, prima di trasferirsi nell’appartamento della madre, vicino alla Plaza de España, per poi spostarsi, nel 1985, a Blanes, una piccola città della Costa Brava, a meno di un’ora da Barcellona. Prima del 1977, l’autore aveva vissuto in Cile, dove nacque nel 1953, e in Messico, dove emigrò nel 1968 con la famiglia.





L’esposizione Archivo Bolaño. 1977-2003, pensata all’interno della sesta edizione biennale di Kosmopolis, ricostruisce l’universo simbolico e alcune circostanze esistenziali partendo dagli anni trascorsi in Catalogna, dove l’autore cileno ha concluso molte delle sue opere, anni che gettano luce sull’intera cronologia creativa fino ad arrivare, se si decide di pensare a ritroso, alla militanza nel Movimento Infrarrealista messicano, il cui primo manifesto, dattilografato e firmato dallo stesso Bolaño, accoglie i visitatori nella prima sala.







L’intento dichiarato dai curatori è quello – parafraso dallo spagnolo – di creare un nuovo tracciato per una conoscenza minuziosa dello scrittore che getta le basi per un’interpretazione molto più profonda, libera e completa della sua opera, attraverso un percorso interattivo e multisensoriale pensato per il “lettore-detective”. Balle. Mi spiego meglio. Non mi si fraintenda, sono frustrazioni mie: bastassero un paio di giorni fuoriporta! Bastasse il doveroso aggiornamento di stato con il successivo ragguaglio fotografico sulla cucina locale, bastasse la Ryanair con le sue gabbiette tortura-valigie!

 

 

Dell’esperienza estetica interattiva e multisensoriale promessa non c’è molto. Poco male: le luci soffuse e gli effetti audio rendono suggestiva la passeggiata tra la cospicua quantità di materiale conservato dalla moglie dello scrittore, materiale che, senza dubbio, basta a se stesso. Fotografie, quaderni, fanzine, documenti, appunti sparsi, diari, manoscritti inediti (tra cui un romanzo dedicato a Philip K. Dick, scritto a biro su un quaderno a spirale marca Progreso), lettere, schizzi, ritagli di giornale, memorabilia e alcuni libri della biblioteca personale sono offerti per la prima volta allo sguardo dei lettori che, in questo modo, hanno il privilegio di ricostruire il ritratto postumo di un autore autoironico e dotato di un raro senso dell’umorismo.





Le città di Barcellona, Girona e Blanes diventano il pretesto geografico (e tematico) per la ricostruzione della genesi di un universo narrativo la cui proposta espressiva è stata elaborata con meticolosa coerenza durante tutta una vita. A questo proposito, il ridimensionamento dell’opposizione tra il poeta e il narratore guida l’intero percorso espositivo: i quaderni cartonati Miquelrius, riempiti con una grafia minuta e ordinata, testimoniano l’intenzione manifesta di scrivere romanzi fin dai primissimi mesi in Spagna, dove il lavoro di cesellatura dell’io lirico nei componimenti poetici va di pari passo con la scrittura di una prosa abitata da personaggi che, a posteriori, paiono averle scritte loro, quelle poesie, complice il fatto che la maggior parte di tali figure sono proiezioni autobiografiche o alter ego degli amici più intimi dell’autore.




 
Con la stessa cura con cui annotava frasi puntuali all’interno dei manoscritti, su alcuni dei suoi quaderni Bolaño riproduceva, con pennarelli colorati, mappe di scene militari.
Tra le annotazioni compaiono brevi frasi perentorie rivolte a se stesso, a mo’ di promemoria per le pagine successive, che segnalano una virata repentina del punto di vista o la rottura della voce narrante, svelando così, nel bel mezzo di una trama dattiloscritta, le intenzioni autoriali, attraverso una formidabile stratificazione della scrittura non ancora digitale.

 

 

Le mappe militari invece, collocate nell’ultima sala espositiva, sembrano suggerire come la scrittura non avesse nulla a che fare con l’improvvisazione e la fortuna. Al contrario. Nei suoi racconti, così come nei romanzi, Bolaño ha continuato a tracciare passaggi segreti per il fitto andirivieni di presenze, fantasmi e leitmotiv da un’opera all’altra, da un genere testuale all’altro, passaggi che gli hanno permesso di accedere a ciò che lui stesso, in un’intervista del 1998, ha definito come il paese di Extranjilandia, i cui abitanti sono tutti stranieri (extranjeros), anomali, marginali. E, mi si conceda, le nazioni qui non c’entrano nulla, perché la nostalgia per la propria terra ha più a che fare con il luogo che si vorrebbe occupare nel mondo.

 

 

Questo me lo dice Paola, mentre andiamo a piedi verso la pensione. Ci si confonde in continuazione – continua –  e nella confusione, la scrittura diventa comunque spazio restituito. Dove è lecito aspettarsi vie di fuga, penso io, mentre convinco il trolley ad aprirsi minacciandolo con il ginocchio puntato verso la serratura.

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