Paradigm Shift

5 Ottobre 2015

“Forse la storia universale non è che la storia di alcune metafore”, scriveva Borges, e l’intuizione si può estendere ai modi in cui le diverse epoche definiscono se stesse attraverso l’uso di metafore o narrazioni influenti che, depositandosi nel senso comune, delimitano i confini di ciò che si può dire o pensare. Che si tratti di rappresentazioni egemoni lo si capisce dall’uso inconsapevole che se ne fa. Chi vive dentro un racconto dominante lo percepisce come realtà ed è talmente suggestionato dalle sue strutture, dal suo lessico e dalle sue funzioni, da identificarle con l’ordine naturale delle cose. Solo quando il racconto comincia a perdere colpi, solo quando la sua influenza viene messa in discussione, lo si riconosce come un costrutto culturale. La tesi di questo articolo è la seguente: la prima metà del Novecento è stata condizionata dalla grande narrazione rivoluzionaria; nell’ultima parte del secolo il racconto del lager ne ha preso il posto, istituendosi a metafora biopolitica dominante; ma alcuni segnali indicano che siamo alla vigilia di un nuovo mutamento di paradigma. Una montante insoddisfazione per la retorica della memoria, a fronte degli eventi diversamente traumatici che oggi scuotono le nostre coscienze, suggerisce che le maglie del racconto egemone si stanno allentando e che la comunità culturale si sta predisponendo a considerare nuovi candidati al ruolo di racconto esemplare.

 

La notizia dei ventun migranti ospitati temporaneamente nell’ex lager di Buchenwald è stata accolta con relativa indifferenza dalla maggior parte dell’opinione europea. In effetti non si tratta di una vera notizia, visto che la decisione di alloggiare i migranti nel perimetro ristrutturato del campo era già stata presa a gennaio di quest’anno. Il caso lanciato dal Daily Mail dell’11.9.2015 ha fatto sì il giro del mondo ma, anziché assurgere a scandalo mediatico come auspicato dagli artefici dello scoop, si è depositato nella categoria delle curiosità varie, come si evince dai numerosi “like” in calce agli articoli che lo riportano online, a fronte della scarsità di discussioni e di commenti, tendenzialmente improntati ai toni dell’“embé?”. Ho l’impressione che fino a poco tempo fa le reazioni sarebbero state diverse. Di solito ci vuole poco a scatenare una rissa attorno ai simboli della Shoah: basti pensare all’indignazione suscitata dal McDonald’s di Oświęcim, o alle infinite querelle scoppiate attorno alle trasposizioni metaforiche del lessico concentrazionario… Come mai questa volta no?

 

 

A rischio di generalizzare una sensazione soggettiva, avanzo l’ipotesi che sia in corso un radicale cambiamento di sensibilità riguardo a temi sino a ieri percepiti come fondativi della cosiddetta identità europea. L’ipotesi è confortata dalla sorprendente ipotrofia commemorativa che ha segnato il settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. Ci si aspettava una ridda di eventi, convegni e articoli impregnati della consueta retorica celebrativa e/o vittimaria con cui, da quindici anni a questa parte, ogni 27 gennaio ci stringiamo attorno al nostro solenne “mai più”. Ma non è andata così: a dispetto della cifra tonda, la partecipazione è stata tiepida e i media assai più interessati al centenario della Grande Guerra; persino i negazionisti più incalliti hanno tenuto un profilo basso nella stagione in cui solitamente riescono a far sparlare di sé. Saturazione della memoria, fastidio per le sue derive banalizzanti e sacralizzanti, fine dell’era del testimone, naturale assorbimento del trauma dopo decenni di operoso working through? O ci sono altre spiegazioni possibili per la diffusa perdita di interesse nei confronti di quella che siamo abituati a considerare come la grande frattura del Novecento?

 

Oltre che per gli eventi che le animano, le epoche storiche si definiscono per i racconti dominanti che le incorniciano. Paradigmi che modellizzano l’esperienza, riconducendola a schemi ricorrenti, metafore assolute e automatismi interpretativi la cui cogenza raramente viene messa in discussione. Quando si affermano, le narrazioni egemoni forniscono filtri cognitivi adattabili a una molteplicità di usi pubblici e privati: repertori di fabulae prefabbricate di cui sia gli individui, sia le comunità culturali si avvalgono per attribuire un senso unitario e consequenziale ai dati bruti dell’esperienza. Così è stato per la grande narrazione rivoluzionaria, con il suo programma di emancipazione e di autodeterminazione, tutto incentrato sul conflitto tra oppressori e oppressi, e proiettato per analogia su una varietà di eventi successivi, dalle guerre di liberazione ai movimenti in difesa dei diritti civili, almeno sino a quando, nel corso degli anni sessanta e settanta, l’altro grande racconto esemplare – quello concentrazionario, per l’appunto – ne ha scalzato la primazia.

 

 

Il disamore per il Giorno della Memoria e il disinteresse per la sconsacrazione di Buchenwald sono forse due microscopici sintomi di un ulteriore avvicendamento? È da tempo che saggisti e studiosi denunciano i limiti del modello concentrazionario come paradigma biopolitico contemporaneo, i cui corollari retorici – vittime e carnefici, memorie e identità collettive, trauma e riconciliazione – sono spesso funzionali al mantenimento di un ordine di senso presentato come indiscutibile, col ricatto del male assoluto che rende accettabile qualsiasi male minore. Oltre a incoraggiare la passività di coloro che si identificano d’ufficio con le vittime di una violenza inaudita, il filtro dell’Olocausto si dimostra palesemente inadeguato qualora lo si sovrapponga a situazioni moralmente ambigue e politicamente complesse, e cioè alla stragrande maggioranza dei contesti in cui capita di imbattersi, dove è raro che tutto il male si concentri in un unico soggetto. Per alcuni decenni ciò non ha impedito a politici e commentatori di ricondurre i più svariati fenomeni alla nota matrice, diversamente riempita a seconda della prospettiva di volta in volta privilegiata – si pensi alle accuse incrociate di hitlerismo che accompagnano ogni diatriba da settant’anni a questa parte – ma sempre evocata come substrato metaforico condiviso. È questa la forza delle narrazioni egemoni: la struttura è rigida quanto i suoi usi sono flessibili.

 

Tuttavia nessun uso è infinitamente flessibile. Gli eventi incalzano, e arriva un punto in cui la presa d’atto, per tardiva che sia, rivela la totale inadeguatezza degli schemi di cui si dispone per spiegare ciò che è avvenuto. A questo collasso cognitivo si riferivano forse coloro che per primi introdussero il tema dell’indicibilità del genocidio ebraico, sul quale le narrazioni eroiche di stampo rivoluzionario non avevano presa, nonostante gli iniziali tentativi di mettere l’enfasi sulla rivolta del ghetto di Varsavia, anziché sulle deportazioni, per imporre un senso intelligibile al macello. Ma il residuo storico di una simile riduzione era troppo immenso, troppo strabordante, e fu necessario dotarsi di nuove matrici per incapsulare ciò che era avvenuto in formati narrativamente efficaci. Vittime e Carnefici, Collaborazionisti e Giusti: quattro ruoli, distribuiti sul continuum teso al massimo dell’asse Male/Bene, che con l’aiuto dell’industria culturale conquistarono il centro dell’immaginario europeo. Tagliato sulla storia delle persecuzioni razziali, di cui effettivamente dava conto, sia pure in modo schematico e banalizzante, il copione ha dapprima schiacciato il racconto rivoluzionario: a ciò si deve la sua popolarità presso l’ideologia liberale che si pretendeva post-ideologica. Dopodiché si è imposto come matrice di senso universale, saturabile con le cronache di altri eventi traumatici come i conflitti arabo-israeliani, le guerre nei Balcani, i massacri ruandesi ma anche, retrospettivamente, l’eccidio armeno, il colonialismo e la tratta atlantica degli schiavi.

 

Il successo di una narrazione egemone si coglie quando essa spinge ai margini un’altra, imponendo il suo lessico e le sue categorie sul sentire comune, orientando le percezioni, filtrando le rilevanze di ciò che accade e fissando i limiti di ciò che è dicibile o persino pensabile. Non c’è dubbio che tale sorte sia toccata al macro-racconto delle deportazioni, dell’internamento nei lager e dello sterminio, a scapito del paradigma rivoluzionario che lo ha preceduto. La mia ipotesi è che ultimamente anche il modello concentrazionario stia cominciando a mostrare i sintomi dell’invecchiamento, sebbene non sia affatto chiaro quale narrazione possa legittimamente aspirare a sostituirlo.

 

 

Di fronte alla notizia dei ventun migranti ospitati a Buchenwald, è del tutto comprensibile che l’ex deportata Miriam Spitzer si sia sentita oltraggiata: “è un museo per ricordare la tragedia, non può trasformarsi in un alloggio”, ha dichiarato alla stampa. Può darsi che in passato il resto del mondo le avrebbe fatto eco, ma questa volta la reazione è suonata anacronistica, quasi stridente rispetto all’evento da tutti definito “epocale” che ora scuote la coscienza collettiva. In relazione alle centinaia di migliaia di migranti in fuga dalla guerra e dalla povertà, il protezionismo della memoria rischia di confondersi con altre forme di respingimento. Non solo con la resistenza a far entrare i migranti in casa nostra, ma anche con l’incapacità di comprendere ciò che vi è di irriducibilmente specifico nelle loro (e nelle nostre) storie. Storie che nessuna forzatura può più ricondurre allo schema Vittime-Carnefici, non foss’altro che per il fatto che il ruolo dei Carnefici è disordinatamente ripartito presso un numero imprecisato di attori – Daesh, Assad, sunniti e sciiti, gli stati del Golfo, i movimenti xenofobi europei, Orbán, gli interessi delle multinazionali, il retaggio del colonialismo… – notoriamente in lotta reciproca in uno scenario di tutti contro tutti che, più che lo Scontro delle Civiltà (altra narrazione che da una ventina d’anni aspira all’egemonia), richiama le trame intricate del Trono di Spade.

 

Potrebbero volerci decenni prima che si affermi una concezione alternativa del senso della storia. Così come in campo scientifico la decisione di abbandonare un paradigma è sempre al tempo stesso la decisione di accettarne un altro, la crisi del modello biopolitico del lager si manifesterà appieno solo quando emergerà una nuova narrazione o metafora influente in grado di comprendere ciò che nessuno dei vecchi schemi è stato in grado di mettere a fuoco. Finora nessun candidato, tra quelli che circolano nel sapere condiviso, è riuscito a imporsi sugli altri. Proviamo a elencarne qualcuno. Innanzitutto la già citata sceneggiatura dello Scontro delle Civiltà: residuo di una mentalità tribale e arcaica, è in evidente affanno rispetto al groviglio delle motivazioni che presiedono agli attuali sconvolgimenti, e può funzionare solo a condizione di obliterare vaste aree della nostra consapevolezza. L’idea che sia in corso una Terza Guerra Mondiale rende bene la sensazione di trovarsi sul ciglio di un baratro, senza capire né come ci si sia arrivati né cosa potrebbe accadere in seguito, ma non fornisce alcun modello a cui rifarsi per conferire intelligibilità agli eventi (a quale Guerra Mondiale assomiglierebbe la nostra? Alla multilateralità della Prima o alla concentrazione di responsabilità che ha contraddistinto la Seconda?). Il ritorno agli schemi rivoluzionari (“Siamo il 99%”, “Siamo Tutti Migranti”) può forse piacere di più, ma è una soluzione palesemente imprecisa: non è così pacifico che i lavoratori sottopagati, i precari, i disoccupati, i migranti e i rifugiati confluiscano in un unico macro-Soggetto internamente solidale, come purtroppo avremo modo di constatare se e quando l’Europa implementerà le annunciate politiche di integrazione; per non parlare della disperante elusività dell’avversario comune, quel presunto 1% frutto di un mostruoso innesto tra Wall Street e Jihad, con la compartecipazione più o meno attiva di un numero indefinitamente aperto di altri attori, inclusi i piccoli azionisti convinti di appartenere al 99%.

 

È chiaro che ci mancano le bussole. Ma se non altro comincia a farsi largo la consapevolezza dei nostri deficit cognitivi e culturali. Le metafore che prima ci aiutavano a capire ora ci ostacolano. E, più cinicamente, il declino del paradigma egemone suggerisce una perdita di potere delle istituzioni che prima lo sostenevano: chi o cosa le rimpiazzerà? Non ne ho la minima idea. Mi limito a osservare che qualcosa sta cambiando, non solo nel mondo ma anche nel nostro modo di rappresentarlo.

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