Barcellona: la Trieste di Magris

11 Ottobre 2011

 

Domenica pomeriggio, caldo afoso. Vado a bere un caffè al CCCB, museo di arte contemporanea di Barcellona. Mi aspetta un amico, Claudio Magris. È lì seduto ai tavolini del Caffè San Marco. Claudio, triestino doc, prende per mano i visitatori e li porta a fare una passeggiata per la sua città, Trieste.

È un lungo giro quello della mostra, che abbraccia buona parte della vita novecentesca di una Trieste mitteleuropea, al confine tra Italia e Jugoslavia, crocevia di artisti, scienziati e pensatori dell’Europa che si andava formando prima e dopo le guerre mondiali. E che ancora oggi si propone come città di integrazione, di melting pot culturale.

 

 

All’ingresso soffia un vento forte e gli schermi mandano video di folate micidiali: sono cappelli che volano via, storie di destini che si incrociano sui corrimani. È naturalmente la bora, amore e odio dei triestini. Superata la prima, terribile prova, si passa per il Carso, montagna di rilassanti passeggiate domenicali tra le rocce di calcare, ma anche luogo di trincee della prima guerra mondiale. Trieste è, infatti, terra di contraddizioni, è pur sempre la terra di Saba: “Trieste ha una scontrosa pace. Se piace è come un ragazzo aspro e con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia”.

Dopo un piccolo tunnel basso, tutto bianco, asettico e surreale, e dopo una serie di sale colorate, si apre un sala dominata da un cavallo azzurro. È Marco Cavallo, la statua di cavallo che i “pazzi” di Trieste portarono in giro per la città, per celebrare la chiusura dei manicomi grazie alla legge Basaglia, medico riformatore della psichiatria, ed anch’egli triestino doc.

 

 

Trieste è città di libertà e liberazione che si celebrano nella sua piazza più bella, Piazza dell’Unità d’Italia, ricostruita nelle sale del CCCB. Con le sue luci azzurre, la piazza simbolo della città si fonde al mare in un meraviglioso discontinuo che comincia dai tavolini dei bar e finisce nell’Adriatico. E proprio seduti ai tavolini della piazza, dove si mischiavano italiano, tedesco, sloveno, croato, per citare poche lingue, nasce l’amicizia tra Joyce e Svevo, che portò la psicanalisi nella letteratura e il flusso di coscienza tra le pagine dei romanzi. Ma Trieste non conosce mezze misure, e nella sua piazza più bella e più libera, Benito Mussolini nel 1938, promulga le leggi razziali in difesa della razza ariana. E non sono solo le parole a ferire: Trieste ha conosciuto nella sua Risiera un campo di concentramento, con l’unico forno crematorio in Italia, e poi ha visto da vicino i gulag e le torture del regime comunista jugoslavo che Magris racconta nel suo libro Alla cieca.

 

 

Dopo una passeggiata nella libreria antiquaria, che fu di Umberto Saba, Magris propone uno sguardo ai dintorni della città, al Danubio, il fiume che attraversa il cuore dell’Europa e alla Dalmazia, proponendo, tra le altre cose, le parole di Marisa Madieri: “E così che ricordo la mia Fiume […] Io sono ancora quel vento delle rive, quei chiaroscuri delle vie, quegli odori un po’ putridi del mare e quei grigi edifici”.

 

Claudio si congeda dai suoi spettatori ricordando che Trieste è la città dell’alba e del crepuscolo, del non luogo e del non tempo. Come diceva Slataper, è “la città che dà ai suoi figli un’anima in tormento e per questo è amata”.

 

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