Catania / Paesi e città

25 Giugno 2011

Catania è una signora in nero. Il fasto barocco della città nega se stesso, perché tende all’oscurità della pietra lavica della quale è intriso. Niente a che vedere con il tufo dorato di Noto, né col fragile calcare leccese, né tanto meno con i marmi e gli ori di quello romano. Ciò accade perché il barocco catanese non è nato solo come una scelta stilistica, un adeguamento alla moda dei tempi; è stato anzitutto una necessità: bisognava ricostruire la città dopo che l’Etna, nel 1669, decise di spalancare le bocche dell’inferno. Le colate laviche raggiunsero il centro, aggredendolo in più punti. Poi, nel 1693, un terremoto diede a Catania il colpo mortale: le vestigia greco romane e l’abitato medievale vennero spazzati via come briciole di pane da un pavimento. In cambio, il vulcano donò alla città i materiali da costruzione per rimettersi in piedi.

Ecco perché il barocco catanese è oscuro. Si tratta di uno stile da stress postraumatico, che incorpora le ombre e il lutto di una città intera.

 

La lava ha fatto un altro regalo a Catania, il lungomare in pietra lavica che si stende da Piazzale Europa al litorale di Ognina e poi a nord fino agli Aci (Aci Castello, Aci Trezza, Acireale…) e che fa da contraltare alla dorata e finissima sabbia della Plaia rivolta a sud. È un modo tutto catanese di scendere a mare, se lo fai dalla parte del litorale lavico. Devi fare molta attenzione ai piedi, perché il suolo è pieno di punte e buchi, ma appena entri in acqua lo Ionio ti avvolge completamente: non si tocca, ci si lascia sprofondare nelle sue acque azzurro-verdastre.

 

Catania è barocca fuori e dentro. Come i suoi abitanti. Provate a intrattenervi per un po’ in una conversazione con un catanese colto. Che sia anziano o giovane, vi colpirà per il suo eloquio pirotecnico: lessico variegato, aggettivazione sovrabbondante, tendenza all’iperbole, utilizzo di motti e termini tipici e un intermittente ricorso al “burocratichese”. Ogni tanto, fra un frase e l’altra, ecco apparire una locuzione che sa di ministero polveroso. Si può interpretare questo vezzo dialettico come un portato della lunghissima e ingombrante dominazione borbonica e, poi, dopo l’Unità d’Italia, della “presenza assente” dello stato centrale che produceva e richiedeva scartoffie di ogni genere. Per ogni cosa bisognava “fare le carte”, non importava molto, alla fine, se quei documenti dicessero il vero o il falso. Tanto nessuno si sarebbe preso la briga di controllare. Bastava ottenere una firma o un timbro ed era cosa fatta.

 

 

Dentro la Catania barocca esiste un cuore liberty che ha cessato di battere quasi completamente all’inizio degli anni ‘50 del secolo scorso, travolto dall’incuria e dalle speculazioni edilizie. Per rendersene conto basta imboccare Viale Regina Margherita e osservare la teoria di ville, villini e complessi abitativi sorti tra la fine dell’‘800 e i primi del ‘900, a cavallo fra il neoclassico e il modernismo. Palazzotti austeri nella struttura, ma ingentiliti da volute e fregi floreali, da giardini un tempo elegantissimi, fitti di palme, banani, nespoli. Erano le dimore dell’antica nobiltà terriera, i duchi di Misterbianco, i marchesi di Torrazza, i baroni di Belmonte ma anche di imprenditori e commercianti dell’altissima borghesia catanese. Adesso sono per lo più abitazioni di fantasmi che occhieggiano dalle finestre nere sperando che le ville che infestano sopravvivano al tempo e al disinteresse il più a lungo possibile.

 

Passeggiando lungo via Etnea, è inevitabile entrare a Villa Bellini: dalla pesantezza del “barocco oscuro” a un’insostenibile leggerezza. È la leggiadria dei giardini, dei palmizi, delle fontanelle, dei vialetti alberati: solo quarant’anni fa comparivano qua e là pagode orientaleggianti e perfino un palazzotto in stile cinese. Adesso quelle strutture non ci sono più: sono state bruciate, non dalla natura in questo caso, ma da un vandalismo e da un disprezzo per la cosa pubblica che non conosce ragioni. Lo stesso vandalismo che, alla fine degli anni ‘80, ha preso di mira i cigni e le papere che popolavano la grande vasca, attorniata da leoni in marmo, che fa da ouverture alla villa. Una mattina gli animali sono stati trovati massacrati a colpi di arma da fuoco.

 

Accucciate qua e là rimangono anche tracce della Katane antica. Da corso Vittorio Emanuele si accede al teatro greco, splendido avvallamento architettonico dove ancora oggi si mettono in scena spettacoli tratti da Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane. E, in mezzo alla centralissima piazza Stesicoro, riposano i resti solenni dell’anfiteatro romano.

Viene da chiedersi quanto ancora si possa scavare per ritrovare la Catania greco-romana delle origini. E anche se mai sarà fatto.

 

 

Fra gli anni ‘60 e i ‘70 Catania era una città lanciata verso un futuro splendido: la chiamavano “la piccola Milano”. Il governo democristiano aveva programmato un piano d’incentivi per gli imprenditori che intendessero avviare nuove aziende al sud. Parecchi di loro scelsero Catania perché era una città viva, bella e soprattutto perché ancora non c’era la mafia. C’era sì la delinquenza locale, ma non era organizzata e stringente e oppressiva come accadeva a Palermo. I catanesi erano, piuttosto, abituati ad aiutarsi tra loro attraverso conoscenze e raccomandazioni; una sorta di “mafia bianca” che non richiedeva sacrifici umani. Così Catania raggiunse vette di massimo fulgore e un benessere economico piuttosto generalizzato, grazie alla creazione di un’ampia zona industriale a sud della città.

Ma, si sa, quando c’è odore di denaro facile la mafia si sposta volentieri. Alla fine degli anni ‘70 il “modello palermitano” della piovra era ormai esportato. La malavita si organizzò in fretta e bene, penetrò nelle istituzioni così a fondo che ancora oggi è quasi impossibile estirparla.

 

A dire il vero, alcuni imprenditori locali ci avevano già messo del loro a rovinare la “faccia bella” della città, avviando una speculazione edilizia no limits. Palazzi su palazzi che spuntavano come funghi nelle immediate zone suburbane, che imbruttivano le campagne e le coste, fabbricati “col cartone” perché i costruttori potessero arricchirsi con le vendite.

Si radicò l’abitudine di chiedere il pizzo a chiunque aprisse un nuovo negozio o avviasse una nuova impresa. C’era un modo tipico di richiederlo, quel pizzo, perché non sembrasse un ricatto ma una sorta di beneficenza: “datemi qualcosa per i disgraziati in carcere che debbono mantenere le famiglie”.

 

Negli ultimi decenni la città ha perso molto, soprattutto in termini di ricchezza e di “buon nome”. Però qualcosa ha guadagnato, recentemente, grazie all’intervento di sindaci e assessori non collusi e lungimiranti. Alcuni di loro hanno capito che, se si voleva frenare la malavita, bisognava riempire la città di gente, giorno e notte. E hanno dato il via alla “movida” catanese. Provate a uscire la sera lungo via Etnea nel periodo che va da marzo a novembre. Non abbiate paura di abbandonare il corso principale per imboccare le strade laterali. Ormai la notte catanese è viva e calda. Giovani e meno giovani fanno le ore piccole nei locali dove si beve e si fa musica. I ristoranti sono aperti fino a tardi così come i bar delle piazze principali, piazza dell’Università, piazza del Duomo, con i loro immensi plateatici. Perfino la zona del Teatro Massimo, che un tempo era considerata impraticabile dopo le otto di sera, adesso è piena di luce e persone. Si fa tardi in tutti i modi, anche semplicemente appoggiandosi a uno dei tanti chioschi che vendono bibite fresche d’invenzione locale. La più dissetante, la più richiesta è “il completo”, ma è inutile provare a chiederne la ricetta a uno dei proprietari dei chioschetti. Non ve la dirà mai per intero: è un po’ come la Coca Cola, il suo originale mix di sapori deve rimanere un segreto.

 

 

I catanesi sanno bene dove è meglio non passare, né di notte né di giorno: per esempio nel quartiere San Cristoforo, alle spalle del Castello Ursino,l’unico edificio medioevale sopravvissuto agli sfaceli seicenteschi. A San Cristoforo s’incontra la miseria densa e dolente, quella dei bimbi in strada sporchi e mezzi nudi e delle fogne a cielo aperto. Lì risiede anche gran parte della malavita che opera in città.

Al di fuori del centro storico, spostandosi a sud ovest, c’è un’altra zona malfamata: “Il Librino”. È nata a metà degli anni sessanta, progettata da Kenzo Tange come una sorta di utopia, la “città ideale”. Con la crisi della zona industriale e l’importazione del modello mafioso, il quartiere satellite venne abbandonato a se stesso e divenne “covo ideale” per la malavita organizzata e per le sue attività preferite: spaccio, ricettazione, traffico illegale di armi, omicidi. Ultimamente anche il Librino è oggetto di tentativi di rinascita: i cittadini per bene non si rassegnano alla pessima fama del loro quartiere, e lo riqualificano attraverso attività educative nelle scuole e nelle associazioni culturali.

 

Intanto i catanesi convivono con il loro melting pot di antiche dominazioni e con un vulcano ancora così attivo che sembra star lì a ricordare che, da un momento all’altro, le sue colate, le sue piogge di cenere e le sue viscere in perenne sommossa potrebbero cancellare la città dalla cartina geografica come già accadde nel ‘600.

A guardia della città e dei suoi abitanti c’è o liotru, l’elefante in pietra lavica che dal 1200 campeggia in Piazza Duomo. Questa statua simbolo di Catania non ha ancora un’origine storica precisamente identificabile. Che sia punico o bizantino, è sicuramente dotato di capacità magiche. Forse l’elefantino non ce l’ha fatta a evitare che la lava raggiungesse Catania, però sta lì a garanzia perenne di un talento indiscutibile della città e dei suoi abitanti: risorgere dalle proprie ceneri come l’araba fenice.

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