Marthaler: un sogno enarmonico

30 Aprile 2015

Una camera d'albergo: la moquette lisa dei tanti passi che l'hanno calpestata e la carta da parati a disegno floreale un po' optical, uno specchio incastonato fra una geometria di ante che custodisce armadi vuoti, il bagno con la porta scorrevole, il telefono anonimo, un bouquet di fiori finti, quella luce sempre troppo piena, né calda né fredda, come se fosse appesantita dal viavai di sconosciuti che l'hanno attraversata nel tempo.

 

È qui che si svolge il tragico e ironico recital che Christoph Marthaler ha voluto intitolare King Size (visto al Fabbricone di Prato, in chiusura della stagione del Metastasio): in tutto e per tutto una stanza d'hotel qualsiasi più vera del vero, con tutti quei dettagli infinitesimali fra l'usato e il posticcio e la grana così autentica dei materiali, utilizzati per costruire un altro degli innumerevoli “interni” in cui il regista svizzero ha ambientato buona parte della sua ricerca sull'umano attraverso il teatro. Ma, come al solito, niente è come sembra nella sua radicale estetica iperrealista, così anche in questo ulteriore suggestivo capitolo del suo percorso l'atmosfera di quotidianità così ben definita è destinata progressivamente a sgretolarsi in inquietanti e travolgenti sorprese man mano che l'opera procede. King Size, del resto, fa sì riferimento – come si usa nel mondo anglosassone – alla misura del letto gigantesco che troneggia al centro della stanza, della scena e al suo ruolo ingombrante nello spettacolo intero; ma anche alla dimensione spropositata dei sogni che di lì si dispiegano ogni notte, rispetto alla rigida stretta concretezza della realtà di tutti i giorni. Anche i sogni, coerentemente con quel realismo di cui si accennava, sono più veri del vero, e nel corso dello spettacolo prendono solidamente forma, tanto che dopo un po' diventa impossibile stabilire con certezza quali siano gli eventi reali e quali invece quelli solo immaginati. Del resto, è questo forse il senso più profondamente (e sorprendentemente) radicale dell'iperrealismo del teatro di Marthaler: una spinta talmente estrema verso il reale, così minuziosa tanto sul piano estetico che su quello emotivo, nelle azioni, nei personaggi e nelle loro vicende, da oltrepassare il limite che separa realtà e fantasia, autentico e fictional, quotidianità e poesia, fino a interrogarne i confini, a diluirli, a superarli. Tutto è normale, credibile; ma la svolta verso l'inimmaginabile è sempre in agguato dietro l'angolo. L'inquietudine che si genera in questo scarto ricapitola il senso di una ricerca sull'umano che esprime enorme capacità di ascolto e di analisi rispetto alle condizioni più intime dell'individuo e ai loro segreti, e si dimostra così capace di raccontare qualche profondo pezzo di vita con inusitata efficacia e semplicità.

 

 

Quando il pubblico entra in sala, c'è già un uomo che dorme nel grande letto al cuore della scena. Si alza, va in bagno canticchiando, si veste. Di lì a poco, scopriamo che non è lui il protagonista dello spettacolo, ma il pianista (Bendix Dethleffsen, anche curatore delle musiche) che accompagnerà lo svolgimento di questa sorta di recital quasi interamente musicato e cantato, in cui si intrecciano suoni e melodie di ogni genere e tono, Mozart, Beethoven, ma anche Wagner e Satie, fino ai Jackson Five. Al centro, un “lui” e una “lei” (Michael von der Heide e Tora Augestad): entrano in abiti da camerieri, rassettano la stanza, ma presto si mettono a letto e si rivelano i magistrali conduttori di un gioco scenico travolgente, con momenti di canto al limite dell'acrobatico – incredibile la forza di Augestad quando intona una canzone schiacciata sotto il letto, con solo la testa a sporgere dal bordo delle coperte – e giustapposizioni fra la consueta coreografia minimale della gestualità quotidiana che distingue il lavoro di Marthaler e passaggi di ballo sfrenato e infine rari e potenti momenti di silenzio, dove per contrasto è la micro-mimica dello sguardo e del volto a guidare la scena. Pensiamo siano loro i protagonisti di King Size e che più o meno quella che ci rimandano fra un canto e l'altro sia la loro storia d'amore, dall'entusiasmo degli esordi, all'affaticamento della routine, all'insoddisfazione e all'incomprensione, allo straniamento che giunge alla fine, quando non ci si riconosce più; lo dice il testo esploso nelle parole delle canzoni, ma anche i mutamenti sonori, e soprattutto il fatto che l'uno sembra non aver nulla a che fare con l'altra, ciascuno va per la sua strada, canta, balla, parla come se il compagno non esistesse, tanto che King Size si potrebbe definire uno spettacolo – più che “di” – sulla coppia. Però, a un certo punto entra un altro personaggio: è una signora matura in tailleur e borsetta (Nikola Weisse), sta in disparte e non interagisce con gli altri. In realtà parla poco e canta ancor meno, il suo comportamento è scandito da una certa lentezza, di contro all'energia dirompente delle altre scene. Marthaler non spiega chi sia la signora, cosa voglia, cosa c'entri con l'epopea tragicomica degli altri due, però è chiaro il suo ruolo d'alterità, che potrebbe farla assumere come protagonista nel senso del punto di vista da cui l'intera vicenda è osservata. Dalle poche frasi che dice, dal tono sommesso e neutro, è quasi un coro post-drammatico, un contro-canto: solo che più che tirare le fila o spiegare, lancia qua e là brandelli di stimoli per riflettere un po' più in profondità su quello che sta accadendo. E, quindi, forse potrebbe essere lei, sola, il personaggio “reale”, lì che ricorda o sogna tutto quanto.

 

 

I fili interpretativi, le motivazioni, le possibilità di lettura del senso dell'opera sono, come di consueto nel lavoro di Marthaler, infinitamente stratificati: innumerevoli sì, ma destinati anche a moltiplicarsi autonomamente man mano che lo spettatore segue l'uno o l'altro, quasi ad auto-rigenerarsi a ogni svolta o dettaglio, via via che si presentano nuove connessioni possibili.

 

Marthaler è (soprattutto) un musicista, di formazione e di vocazione; lo stanno a testimoniare, non solo la consistente presenza musicale in questo e altri lavori e la particolare cura riservata a questo piano, ma più in generale l'impostazione stessa, strutturale, dello spettacolo. Così, non stupisce che per spiegarne il tema, nella presentazione, faccia riferimento a un termine di quell'area, “variazioni enarmoniche”, tecnica di composizione in cui uno stesso suono si scrive in due modi diversi, scelta qui per dare l'idea “dell'evoluzione e della metamorfosi”. Viene da pensare qualcosa di simile, di conseguenza, per quanto riguarda la definizione delle relazioni umane in questo spettacolo, che si concentra proprio sulla qualità straziante di quello scarto estremamente evidente ma tutto sommato indicibile che si realizza fra diverse persone coinvolte in uno stesso rapporto, modi diversi di sentire una stessa cosa, simili e incommensurabili come un La bemolle e un Sol diesis.

 

 

In realtà, tenendo conto di questa suggestione, si potrebbe dire che il percorso tra reale e finzionale è a doppio senso, un'andata e ritorno infaticabile fra immedesimazione e straniamento: ci sono un'ambientazione, una vicenda e un'umanità costruite alla perfezione, iperrealistiche; ma le scene sono smaccatamente sovraccariche, grottesche, a tratti impossibili, sostenute da un'interpretazione grandiosa a volte ai limiti del virtuosismo, nel trasporto dei canti e nelle gag che strappano più di una risata; eppure, alla fine, tutto è così riccamente composto sul piano emotivo e mirato con tale precisione al cuore di uno dei più normali ed enormi misteri del rapporto con l'altro, da togliere completamente il respiro.

 

Il teatro di Marthaler, in King Size, si rivela ancora una volta una variazione di quella feroce analisi sull'umano sviluppata dal regista negli anni, che ci ha regalato spettacoli dirompenti grazie alla messa in opera di un rigoroso quanto spietato processo di disfacimento del reale, in cui la (presunta) banalità del quotidiano è interrogata in profondità fino a incrinarsi, straripare, esplodere, per far vedere per qualche momento la vertigine che c'è sotto. L'ironia di una gag si rivolta in ripetizioni inquietanti, piccoli gesti diventano danza, una filastrocca magari diverte, ma poi si scopre interrogare l'abisso dell'incomunicabilità. Basta spostare un dettaglio (un frigo-bar troppo in alto, un coretto di tre persone nascosto dall'anta di un armadio) per svelare in un attimo le sorprese meravigliose del mondo o vertigini di terrore; del mondo del teatro, sì, ma anche di quello reale, nostro di ogni giorno.

 

 

In ambienti come questi, dai mille sensi, rimandi e risvolti, è possibile perdersi. Però, sembra ci dica il regista con le sue scelte, è questo uno dei grandi privilegi di essere spettatori di un'arte dal vivo, che si rigenera a ogni passaggio sotto i nostri occhi, grazie a bravissimi interpreti: lasciarsi andare alla fruizione, al proprio coinvolgimento diretto, certo un po' intellettuale, ma anche emotivo; abbandonarsi al fluire dello spettacolo col rischio di smarrirsi, però poi con la soddisfazione della promessa di potersi ritrovare, dentro e fuori la finzione teatrale, in un'opera tragica e poetica che sa parlare appassionatamente ma con feroce lucidità della realtà dell'uomo.

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