Speciale

Il deserto

26 Agosto 2011

L'avvicinamento al deserto comincia a sud di Gafsa. Il lago salato è uno specchio d'acqua a perdita d'occhio, senza confini. Oggi, primo gennaio del nuovo anno, la strada sembra il ponte di una diga. Sfrecciano le Yamaha e le Bmw lanciate verso Tozeur. Qui i romani si fermarono, non procedettero oltre: se il Vallo di Adriano era la testa dell'impero, seminascosta nelle nebbie scozzesi, il limes tripolitanus fu i suoi piedi sprofondati nella sabbia.

 

Lo Chott El Jerid, in Tunisia, sta a Salt Lake City, nello Utah, come lo zingaro all'uomo d'affari, il serpente al cane, l'abisso alla solitudine. Douz è una postazione umana dentro il vuoto, alle soglie del nulla, dove un battaglione francese costruì un fortino sotto gli occhi enigmatici dei beduini: alla fine del diciannovesimo secolo doveva essere un luogo desolato, uno dei numerosi punti sparsi nel Maghreb in cui gli europei, saturi di pragmatismo, cercavano l'ebbrezza.

 

A Zafrane, verso il confine algerino, un passante al quale chiediamo dove sia il deserto ci dice andate laggiù e con la mano indica un mucchio di rottami tra palme divelte, abitazioni in muratura basse e grigie che sembrano disabitate. Il piccolo Peugeot a trazione anteriore scivola come un verme in quella direzione. Bisogna guidare prudenti fra i cammelli con le zampe legate, le capre immobili nel fango, le lamiere arrugginite, i rifiuti. Questo è l'estremo avamposto o l'ultima retrovia della civiltà urbana.

 

Poco più in là cominciano gli orti, le piante coi datteri. Ogni tanto passa qualche carretto trainato da asini. I conducenti ci informano che non è sicuro procedere oltre senza trazione integrale. Ma a noi, sospinti dal sentimento del margine, basterebbe dare un'occhiata. Eppure non vediamo niente. La pista è un solco confuso fra erbacce e immondizia. Stiamo per tornare indietro quando all'improvviso, a duecento metri, spunta una fila di dune.

 

Lo stacco tra questo paesaggio di frantumi in cui siamo e quella linea di sabbia ondulata è netto come potrebbe essere la costa sul mare, una pianura e le montagne. Penso a una carta dell'Africa che ho visto prima di partire: da Douz a Zinder, nel Niger, c'è soltanto il Sahara. Il deserto comincia qui, dove sono adesso. D'istinto mi dirigo verso le dune.

 

È il classico passo dell'uomo occidentale, nell'eco di Alessandro e Napoleone. La marcia del condottiero intrecciata con quella dell'esploratore: conquistare e capire, due atti in uno. Un'azione cognitiva e un gesto politico, impossibili da dividere, un nucleo potente che nemmeno il cristianesimo seppe intaccare e ancora oggi guida, maestoso e solenne come un barrocciaio d'antico lignaggio, la nostra percezione del mondo.

 

Subito intuisco, fra le dune di Zafrane, che questo passo di marcia, l'avanzata ellenica verso l'Indo, il rullo di tamburi sotto il Cremlino bruciato, è una scansione fatale. Lo capisco correndo verso sud, negli avvallamenti sabbiosi che scendono e risalgono sotto di me. A cinquant'anni riscopro l'assetto del quattrocentista in uno strappo lancinante di gioventù nel deserto tunisino. Quando mi fermo per riprendere fiato e mi volto indietro non vedo più i miei compagni.

 

Eccomi solo nella valletta dell'eremo, nei quaranta giorni e nelle quaranta notti di Gesù, sotto un cielo perfetto: vernice anodizzata con l'azzurro e il bianco della medina di Kairouan. Sulla duna si alza la sabbia. La vedo sollevarsi come il mantello di un predone: è il deserto che parla e mi dice di non avanzare. Davanti a me ci sono migliaia di chilometri così: pietre, rocce e topi.

 

Se proseguissi in queste condizioni, con il mio giubbotto della Barbour, il mio cellulare Samsung, i miei jeans, la mia macchina fotografica digitale, mi trasformerei presto in un Gulliver rosicchiato dagli scorpioni. Il deserto è cieco, muto e sordo: un animale gigantesco, preistorico. Io gli sto sulle labbra e lui potrebbe azzannarmi.

 

Dovrei capire che questa sabbia, questo vuoto, questo cielo, questo vento non sono affatto distanti. Essi stanno dentro di noi: dettano la nostra fine. Le dune di Zafrane dovrebbero farci comprendere che non esistono Sirie ed Egitti da conquistare. I gioielli diventeranno fossili, i corpi ossa. Bisognerebbe accettare la morte accogliendola quasi fosse un generale francese. Aprire porte e finestre facendosi mangiare da lei. Ma io, come ha detto di sé il piccolo Gigick incamminandosi con me verso le dune, sono troppo giovane per morire. E così continuerò a sentirmi anche da vecchio.

 

Soltanto alcuni spiriti sono riusciti a lasciarsi catturare dal deserto: Charles De Foucauld, Antoine de Saint-Exupéry, Théodor Monod, Thomas Edward Laurence, Albert Camus. Ma quando sono tornati nelle loro città, si sono sentiti stranieri.

 

Alzo gli occhi e vedo Elsa e Gigick: mi hanno raggiunto. Sono due bambini russi, figli del mio amico Roberto. Rotolano sulle dune come ricordo di averli visti fare nella neve di Mosca. Se noi adulti riuscissimo a ritrovare, soltanto per qualche attimo, la loro adesione naturale, forse il deserto ci avrebbe insegnato qualcosa. La sua lingua di fuoco avrebbe formulato un ordine indiscutibile al quale dovremmo soltanto ubbidire.

Fra Tozeur e Gabès, 1 gennaio 2006

 

(da Pensieri viandanti. L'etica del camminare, a cura di Italo Testa, Diabasis 2009)

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