Cecenia reloaded

26 Novembre 2012

Non fosse per quei ritratti giganti affissi ovunque – Padre, Figlio e Spirito Santo, come li chiamano qui – accompagnati da slogan di propaganda come Red Bull visuali per il popolo distratto, oggi Grozny, a 12 anni dall’ultima guerra tra Russia e Cecenia, sembrerebbe quasi una città normale. Anzi, migliore di tanti buchi della provincia federale. La “città più felice di Russia”, secondo un sondaggio recente che lascia molti non detti.

 

 

Grattacieli, centri commerciali, caffè, pizzerie e sushi bar, strade asfaltate, parchi di rose e panchine, auto moderne e pick-up di lusso che si fermano ai semafori, fitness club. Ordine e pulizia. Ogni tanto, qualche posto di blocco: forzuti in mimetica e kalashnikov piazzati sulle arterie strategiche, come il Corso Putin, rimpolpati in occasioni ufficiali. Come alla parata di star per la Festa della Città, il 5 ottobre, quando ho visto il centro blindato, i cittadini comuni esclusi dalla festa. C’era anche Ornella Muti, ha fatto scandalo il suo ballo col dittatore, e poi fuochi d’artificio che pareva Las Vegas. Ma di solito i buzzurri armati, per non infastidire lo sguardo, sono mimetizzati, tra giardini e alberi, come fiori. Sorridono ai passanti, persino, in questa tiepida ottobrata. L’input dall’alto è “normalizzazione”.

 

 

La scenografia è nota, raccontata dai media di tutto il mondo. Per ricompensare la repubblica tornata fedele con la forza, Mosca vi ha investito miliardi di rubli, trasformando la Grozny rasa al suolo dalle bombe russe nel 2000, come Dresda ’44, nel poligono di fantasmagorici esperimenti urbani, tra kitsch e grandeur. La cornucopia l’ha affidata nelle mani di Kadyrov jr (il figlio, nei ritratti alterna look giovanilista e militaresco), orfano dell’ex presidente Kadyrov sr (il padre, morto ammazzato: sguardo bonario), poi adottato da Putin (vigile e impassibile sui manifesti, ante botox). Che ne fa un uso smodato, ai propri fini personali. Terminatala ricostruzione vera e propria, siamo alla fase del superfluoe degli sprechi, in barba alla disoccupazione record. A che servono, per esempio, mi fanno notare i miei amici ceceni, quei lampioni piazzati ogni 10 metri e quei muri perimetrali sulla strada per Gudermes, residenza ufficiale di Ramzan? A una rotonda, immagini alla Socialisme di Godard: una enorme mezzaluna-falce e martello di metallo rotante placcato d’oro, indica la Mecca? E i lampadari a goccia di finto cristallo che pendono come luminarie paesane agli incroci principali? Per non parlare dei cachet milionari alle star invitate dall’Occidente, che se ne infischiano dei diritti umani.Nei progetti ancora (nuovi) teatri, nuovi grattacieli, nuove prigioni.

 

 

C’è un immaginario su Grozny, e una retorica coincidente, consolidati come acciaio. Da icona dell’Apocalisse in terra, a simbolo della Rinascita edilizia – senza passare per la democrazia. Contrasti a tinte forti: mattoni in cambio di libertà, panem et circenses, il popolo terrorizzato e ammutolito, i denti aguzzi grondanti di sangue del brutale dittatore. Il rigore autoritario, che si riflette anche nell’architettura cittadina: prospettive rettilinee squadrate e gelide, palazzi di marmo e colonne che si moltiplicano nella nuova cittadella del potere che sta sorgendo a ridosso della (nuova) immensa moschea, mutando l’antica “capitale delle rose” del Caucaso in un paesaggio da Metropolis, simbolo di un potere occhiuto che tutto controlla. Obelischi, viali, moschee, parchi e musei dedicati al Padre. Fan club e gruppi sportivi con le iniziali del figlio. Una città nuova di zecca nata sulle ceneri della vecchia, dove la storia ante guerra, di resistenza e fierezza indipendentista, è azzerata per decreto. Fredda, ostile e respingente, mezza disabitata.

 

 

“Una città senza città, non concepita per la gente” riassume unamico siriano che qui muore di noia da sei mesi, uno dei pochi “expat” in città (con vietnamiti, turchi, e qualche russo, a suo modo “straniero”), rimpiangendo le notti di Damasco – prima del conflitto in Siria, ovviamente.E l’alcool, ufficiosamente bandito in Cecenia. Un disadattato al cubo: non parla russo, lavora come co-manager dell’hotel a quarantadue piani a Grozny City 2. Quasi sempre vuoto. Dalla sua camera al sesto piano dell’albergo-fantasma, esce raramente: “tanto non c’è nulla da fare”, spiega sconsolato. Dal balcone lassù in alto, Grozny gli appare deserta, e morta.

 

Eppure.

 

Eppure questa immagine stilizzata racconta solo una porzione del presente. Perché oggi Grozny, a dispetto del regime autoritario che vi regna, cambia a una velocità impressionante. E ormai non è più solo il boom edilizio, il cambiamento sta contagiando la società, contrariamente ai piani di Ramzan. Ogni volta che ci torno, mi sorprende. Nel 2007 la ricordo semidistrutta, c’era ancora il coprifuoco. Da allora, decine di viaggi, sempre con tempi lunghi, ritmi lenti e rilassati. Lontani dal mordi e fuggi dei reportage e della cronaca giornalistica.

 

 

Una scelta. Mi fermo di solito da due settimane a un mese, affitto un appartamento in un quartiere qualunque. Mi concedo giornate vuote di impegni, senza interviste, visite o incontri fissati, bighellono senza meta, fermandomi a chiaccherare in strada con chi capita senza pensare a tradurlo in note sul taccuino, immagini o video. Vado a fare la spesa al mercato, mi attardo nelle bettole, a colazione al bar sotto casa ormai posso ordinare “il solito”. Mi riservo, anche, il lusso di annoiarmi.

 

 

Ogni città dittatoriale ha un ventre nascosto. Per penetrarlo, l’unica via è abbandonarsi alla sua quotidianità. Così, l’immagine b/n di Grozny si fa subito più complessa.Stavolta a colpirmi non è solo il cemento che avanza, i nuovi caffè alla moda che spuntano come funghi, lo scintillio delle vetrine, là dove c’erano bettole arrangiate negli scantinati. Sono gli abitanti di Grozny, il loro modo di muoversi nello spazio. Per la prima volta in tutti questi anni, ho l’impressione che anche loro stiano cambiando. Come a Sarajevo, dopo la guerra la città si era riempita di contadini inurbati per necessità: l’intellighenzia in esilio, la capitale che si irrozzisce. L’islamizzazione imposta da Kadyrov, un ritorno a imprecisati “costumi tradizionali” e uno stile di vita represso-orientale, una scusa per instaurare un bigottismo di Stato come forma di controllo sul popolo.

 

 

Adesso la tendenza sembra invertirsi di nuovo: la diaspora torna dall’estero (come l’amico Iliaz, “ceceno dell’Indiana”, venuto per essere presente alla morte della madre, e poi rimasto), i cugini che fanno avanti e indetro da Mosca, qualche russo che viene ad allenarsi nella palestra di boxe di R. che sforna talenti. Tutti portano i germi di culture “aliene”. Quella russa: messa alla porta dopo la guerra civile in nome della “cecenizzazione”, ora rientra per la finestra. Dalla tv, anzitutto: i canali locali trasmettono per 24h balletti, prediche e letture Corano, mescolati a spot e tigì di regime.Ma tutti guardano i canali russi, vallette scosciate e Grande Fratello. La Cecenia per legge, territorio e politica, è ancora Russia, un dato incallabile e incensurabile. Nemmeno Ramzan può proibire nulla per legge che non sia proibito a Mosca – al massimo può “suggerirlo”.Ma non sempre funziona – anzi, funziona sempre meno. La Russia laica di Putin che i ceceni guatano nel tubo catodico, in confronto alla Cecenia di oggi, paradossalmente, è un faro di libertà.

 

 

E poi naturalmente c’è internet. Due anni fa c’era un unico web point in città. Ora nei caffè del centro come il Central Park sul Viale Putin, c’è il wi fi gratuito. Dentro, divanetti in pelle verde e arredi Chicago, uno schermo al plasma trasmette a ripetizione i video dell’Mtv russa insieme alle vecchie puntate di Friends. Un giovane elegante in giacca e cravatta (non più il kitsch caucasico di scarpe a punta e revers rosa) lo guarda ipnotizzato muovendo le dita sul suo IPad. Ramzan non può censurare la rete, anche se di recente i web provider ceceni hanno bloccato YouTube per censurare il film-scandalo su Maometto.

 

 

Anche l’islamizzazione ha esiti contraddittori, fino alla schizofrenia. Specie per i giovani nati o cresciuti nel nuovo sistema. Donne e ragazze sono sempre più intolleranti al velo: di fatto obbligatorio (per editto informale di Ramzan) in tutti gli istituti pubblici (uffici, scuole, ospedali, ministeri), appena in strada molte se lo levano. Un compromesso ipocrita – Ataturk a rovescio. E qualcuna comincia a ribellarsi anche all’università: una ragazza ha scritto a Putin dopo esser stata fermata dalle guardie all’ingresso perché non indossava il fazzoletto. Altre, alla confusione dei diktat e segnali culturali ed estetici provienienti dall’alto – un mix di sharia, legge russa, adat ceceni e capricci di Ramzan – reagiscono scegliendo la via pop-talebana: gonne lunghe ai piedi, tacco 15, vita sexy strizzatissima, hijab da odalisca. Una moda tra le teen ager in età da marito: pare aumenti la possibilità di accalappiarne uno nella drammatica penuria di maschi dovuta alla guerra. Qualcuna si è fatta pure il botox alle labbra.

 

 

In giro, nuove catene di Burger King, Pizza House, apparente trionfo del consumismo. A Grozny City, in mezzo alla pista di pattinaggio sul ghiaccio hanno eretto un telone di plastica per dividere uomini e donne. Ma i giovani ogni tanto sconfinano per noia (dal lato delle ragazze c’è più gente), e al piano di sopra, in un café fast food stile Usa che affaccia sulla pista, si mescolano senza ritegno, ridacchiando davanti a bevande rosa shocking e popcorn. Al cinema al secondo piano, film d’azione in 3d e blockbuster da Hollywood.Al grande (nuovo) bazaar invece, per le casalinghe vanno forte dvd pirata di telenovele turche e drammoni di Bollywood. Nessun film russo, né sovietico.

 

 

Il bando all’alcool, neoproibizionismo “consigliato” da Ramzan in tv e adottato da tutti i ristoranti caffè e bar,è poco più di un paravento. L’appartamento che ho affittato, ad esempio, sta in un quartiere un po’ lontano dal centro. Al quarto piano di una classica krusciovka sovietica, l’ascensore puzza di urina e viaggia a lampadina spenta. Le tre stanze, vengo a sapere, di solito fungono da bordello. Cioè, da posto dove vanno a fare sesso gli amanti non sposati. Il proprietario è un poliziotto. Miracolo: l’acqua non manca quasi mai, inclusa quella calda: una rarità a Grozny ancor oggi. Dietro l’angolo c’è un grande supermercato che si chiama Halial, ma di halial ha solo il nome, prezzi europei e un sacco di gente, non solo i ricconi amici di Kadyrov ma una sorta di nuova classe media cecena. Sugli scaffali, vedo più marche di pasta italiana che a Mosca. Giusto di fronte c’è un chiosco che fa spaccio di vino, birra e vodka, non è esposto in vetrina ma basta chiedere. E quasi in ogni supermercato c’è una stanza a parte dove tutti si riforniscono di alcool, prima della cassa una commessa te lo infila in un sacchetto nero perché non si veda. Sabato c’è un matrimonio nella mia scala, ci invitano. Classe media, donne con foulard sottili. La festa però finisce prima dei tre giorni previsti: i vecchi mandano tutti a casa, troppo ubriachi. Solo un anno fa era impensabile. Molti, certo, non bevono: sono diventati religiosi sul serio. Troppo, secondo Kadyrov – potenziali “terroristi”, nemici del popolo.

 

 

Nel cortile di giorno donne col fazzoletto annodato dietro la nuca e vestaglie a fiori in ciabatte battono tappeti, come da icona caucasica classica. Ma la sera nella penombra, intorno alle panchine gruppetti di giovani spalancano le portiere delle auto, dalla finestra mi arrivano le note di hip hop e Michael Jackson, ma niente passi di danza. Non è cosa da poco quaggiù: in Cecenia come in Footlose, ogni musica e ballo che non siano “tradizionali” risultano tabù, non vietati ufficialmente, ma mai eseguiti in pubblico.

 

 

M. ha ventun anni ed è un frutto raro, prezioso di questo strano mix. Madre russa, papà ceceno, scrive poesie.“Il problema maggiore oggi in Cecenia non sono i ribelli - dice apertamente sorridendo timido – è il sesso”. Coi suoi amici “alternativi” – ce ne sono anche a Grozny ora, metallari, emo, un rasta –si ritrovano nell’unico club dove risuona una musica diversa, in uno scantinato. Jazz e blues. Le autorità ovviamente sanno, e lasciano fare per ora. Per M. che ha sogni diversi da quelli ufficiali, “Grozny forse è fredda, ma è la mia città, e la amo per molti versi, ci sono tante cose da scoprire”.

 

 

La globalizzazione insomma avanza anche in Cecenia, a dispetto di tutto.

 

Nemmeno Ramzan può fermarla. E il risultato è a tuttoggi imprevedibile. Represso brutalmente ogni dissenso, cancellata l’opposizione politica, violati i diritti umani, ora però sempre più gente si lamenta del potere. Certo non gridandolo sulla Prospettiva Putin né citando il nome del Leader, ma più o meno senza paura. Criticano la situazione economica, la mancanza totale di lavoro e di prospettive, la cerchia di governo che si accaparra tutto, gli sprechi in barba ai poveri, l’atteggiamento protervo di chi comanda. In particolare i tassisti, i più loquaci come da tradizione in Russia. Insofferenti dei continui blocchi al traffico per “feste inesistenti”. A sentire loro, la rivoluzione è vicina: la pazienza dei clan per il re-bambino che non rispetta nessuno, sarebbe al limite. Il signor Shamsuddin, sessantacinquenne, mi da un passaggio sulla sua Zhiguli. Nel 1968 ha partecipato alla presa di Praga con l’Armata Rossa, tankista. Profugo negli anni ‘90 della lotta contro Mosca, volontario nelle tendopoli. “Oggi il potere – dice senza che io chieda – per conservare se stesso in sella dà soldi agli stupidi, e nulla agli istruiti. Mio figlio, un insegnante di storia, guadagna ottomila rubli al mese. Questi cani senza cervello che stanno in piedi sulle strade tutto il giorno col fucile a non far nulla, ne beccano quarantacinquemila”. Nelle tendopoli ha studiato diritto internazionale: “Conosco la legge russa ed estera, conosco i nostri diritti. Nessuno può dirti come ti devi vestire”.

 

A vederla così, è una strana dittatura, quasi trash. Ma non mi aspetto proteste di strada pacifiche in Cecenia come sta accadendo a Mosca, siamo lontani anni luce. Digito su Google (linea traballante) in cerca di lumi: “Dittatura + Globalizzazione”, e mi imbatto in citazioni come queste:

 

The reason is that today’s authoritarian regimes are nothing like the frozen-in-time government of North Korea. They are ever-morphing, technologically savvy, and internationally connected, and they have replaced more brutal forms of intimidation with seemingly “free” elections and talk of human rights.

Today’s autocrats are not idiots. They have learned from the mistakes of their predecessors. Putin is not Stalin, and Hu Jintao is not Mao Zedong. In many cases, Dobson writes, modern dictators understand that it’s in their interest to observe the appearance of democratic norms even while they’re subverting them. “Putinism comes just for your political rights but does not touch your personal freedom,” the opposition leader Boris Nemtsov told me.

“We don’t waste our time with what is capitalism or what is socialism,” one Chinese Communist Party adviser told me. “If today is better than yesterday, then I like the policy.”

Dictators require detachment from empathy, a centric laser focus, belief in their own omnipotent powers, a keen understanding of the psychology of the people they lord over and yes, a tad bit of grandiose delusions. In truth the level of Narcissism required to be a stalwart dictator is by nature outside the bounds of an ordinary mind.

The challenge today isn’t having the guns to mow down people in the streets. It’s keeping them from learning how to march.

 (Will Dobson, The Dictators Learning Curve: Inside the Global Battle for Democracy)

 

 

Ma Kadyrov non è certo uno “smart dictator”, né uno da soft power. Si immischia nella vita privata, padrone assoluto, tratta la Cecenia come un affare di famiglia. La sua sorte, in mancanza di un evento violento, dipende solo da Putin e dai suoi denari. Allora i cambiamenti, le piccole concessioni, rientrano in un astuto gioco delle parti per mantenere lo status quo? Oppure gli anarchici ceceni, senza che Ramzan ne accorga, gli stanno strappando qualcosa?

 

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