Via con me

20 Giugno 2014

Via, via, vieni via di qui,
niente più ti lega a questi luoghi,
neanche questi fiori azzurri
via, via, neanche questo tempo grigio
pieno di musiche e di uomini che ti son piaciuti,
It’s wonderful, it’s wonderful, it’s wonderfoul
good luck my babe


Paolo Conte

 

Venerdì notte.

 

Siamo seduti in una specie di finta baita, legno chiaro ovunque, manca solo la signora in Dirndl a servirci. Ordiniamo una birra e qualche panino con bratwurst. Sembra una gita all’Octoberfest, invece siamo sempre noi, stremati dalle auto, in attesa di recuperare una delle vetture che si è persa. Siamo poco lontani da Koln; a Bochum, la nostra destinazione, manca un centinaio di chilometri. L’ultima volta che siamo scesi dalla macchina è stato vicino a Nancy, al confine con la Francia. E stamattina eravamo a Marsiglia, e ieri a Milano. E’ uno strano jet lag questo viaggio verso Nord, il  fuso orario è sempre quello, ma salendo ci dirigiamo veloci verso il crepuscolo che arriva sempre prima, a poco a poco, anticipando la notte e restringendo i giorni. Siamo devastati dalla stanchezza, ma al contempo sollevati. Eravamo in riserva, e quasi al limite del serbatoio abbiamo finalmente trovato il tanto agognato distributore (in autostrada, magicamente non c’erano). Abu Nawar scherza con Gabriele a riguardo: “Pensa te, sono sopravvissuto agli scafisti, sono fuggito da Lampedusa, e poi, quando finalmente abbasso la guardia e mi sento tranquillo, rischio di morire di freddo in auto con Marta e Valeria perché siamo in riserva!”. Ora è più sereno, ma sempre con una certa fretta. Lui e Mona scendono, prendono un tè e risalgono immediatamente in auto, pronti per ripartire.

 

I nostri improbabili Furio e Magda non vedono l’ora di giungere in Svezia. Siamo sollevati anche perché abbiamo incrociato i poliziotti a una rotonda, fuori dall’autostrada. Nell’auto è sceso il gelo, è uno di quei momenti nei quali vorresti diventare piccola e nasconderti sotto il sedile, sperando di non essere intercettata. E, incredibilmente, nonostante la notte tedesca nera come la pece e nessuno in giro per le strade del bacino minerario della Ruhr, famosa per il carbone e il ferro e ora anonima provincia, non ci hanno fermato. Anzi, casualmente abbiamo incontrato nello stesso Autogrill l’auto-sonda, che ci aveva preceduto. Nel silenzio e nella stanchezza, finalmente giunge anche l’auto che avevamo smarrito. Nessun controllo, ci siamo tutti, ripartiamo tra le casette basse per arrivare da Chris.

 

Quello che non immaginavo, alle 3 del mattino, nella Germania da stereotipo, era di trovarmi all’improvviso a una festa. Chris ci attende e ci accoglie con una cassa di birra. La casa ha una luce gialla, ed è affollatissima. Ci stavano aspettando. Ci sono poeti siriani arrivati da mezza Germania per incontrare Khaled, ci sono migranti iraniani che hanno cucinato teglie di pollo, prugne, riso allo zafferano e mandorle, verdure, insalate, c’è una cucina accogliente che si sviluppa attorno ad una stufa, in una casa che somiglia a quella di Hansel e Gretel. E’ una cascina del 1800 che un gruppo di ricercatori e attivisti hanno affittato e questa notte hanno deciso di aprire per darci conforto. L’idea del calore umano e dell’accoglienza sono le più forti, e penso a come ci sia un’altra Europa fatta di persone che hanno voglia di stare insieme e di creare una comunità di intenti, non solamente un’unione economica e una fortezza.

 

Siamo tutti stipati con bicchieri di vino, e birre e piatti di cibo, tra scale di legno, vecchia mobilia, pianoforti, bandiere indipendentiste basche e tazze di tisane calde. Siamo tutti nel corridoio che unisce l’ingresso e la cucina, alcuni appollaiti sulle scale, ascoltiamo i poeti che recitano poesie in una lingua che non capisco, ma il suono è quello della musica, ed è piacevole, così come l’emozione che arriva, ormai da giorni, senza bisogno di comprendere i fonemi. Siamo tutti vicini, stanchissimi, ma nessuno cede al sonno. I nostri ospiti ci riempiono di domande e di affetto, e anche se non ci fossero le telecamere, la sensazione è quella di essere in un film, con le luci morbide, smarmellate dalle mille sigarette accese, con il tepore delle stanze affollate, con i colori dei Balcani in questo pezzo di Germania metallurgica. Ci accampiamo per la notte, la mia stanza non ha il pavimento, ma almeno è sopra la cucina e una specie di oblò fa entrare il caldo della stufa e le parole dei poeti, ancora intenti a discutere di Assad. Le altre stanze sono freddissime, ma il sonno è tale che tutti ci addormentiamo come dei bambini.

 

Sabato mattina

 

Mi sveglio avvolta nel montone, con la stanchezza di chi ha dormito troppo poco. Scendiamo nella grande cucina. Sono tutti appoggiati su pezzetti di pavimento, sacchi a pelo, letti improvvisati. Ci troviamo nel bagno in 5 a lavarci i denti. I padroni di casa apparecchiano per la colazione. Tè, pane tostato, biscottini che avevamo comprato all’Autogrill. Il caffè e le tisane sono amare. Chiediamo gentilmente se c’è zucchero o miele. Alla parola miele i ragazzi di Bochum si illuminano. Corrono nella dispensa, ed escono con l’equivalente di un secchio di vernice. Un secchio gigante di miele autoprodotto. Ne vanno fierissimi, è buonissimo e il secchio è gigante, e loro sono un po’ gnomi buoni, un po’ i protagonisti della canzone di  Cocciante, con secchi di vernice a colorare tutti i muri, case vicoli e palazzi, e siamo immersi in questa bolla di Germania piena di sole e di persone affettuose e di oggetti bizzarri. Io rido, e mi sento come Gulliver, o forse lo sono dall’inizio. A tratti gigante a Lilliput, inspiegabilmente più alta e condottiera nel percorso di liberazione da Blefuscu. In quella cucina mi trovo improvvisamente catapultata a Brobdingnag in cui il miele è gigante, il calore umano è smisurato e io sono la piccola ricercatrice arrivata per caso e sbalzata tra la gentilezza e il voler essere parte di qualcosa. Gulliver viaggia come me per capire, e per segnalare attraverso il suo sguardo attento le violazioni, per ridurre l’ingiustizia e la malvagità. Noi viaggiamo per offrire respiro, per poter progettare una vita che preveda la possibilità di scegliere dove stare, con chi vivere, a chi volere bene.

 

Nel frattempo, Abdallah si è fatto la barba e si è bagnato i polsini della camicia. E’ freddo, perché Novembre avanza facendosi sempre più imponente più si sale verso la meta. Marta si offre di asciugargli le maniche con un phon. Sono seduti sul letto di Chris, e la luce del mezzogiorno sembra quella di un pomeriggio di fine estate. Marta parla e sorride, Abdallah la ascolta e la guarda, con l’imbarazzo che fa abbassare il capo e arrossire le guance. A lui Marta piace, e nella timidezza, nel viso scavato dagli ultimi mesi, nella stanchezza illuminata dalla finestra, si vede. Io mi emoziono, e torno piccola come se fossi tra i giganti, perché sono parte e sento non solo le passioni del viaggio, delle migrazioni, ma anche tutte le altre che queste sensazioni portano assieme, come una fitta rete da pesca che oltre ai pesci raccoglie coralli, stelle marine, pezzi di fondale. 

 

Esco in giardino. Da una parte uno degli abitanti della comune ha costruito una Yurta, piena zeppa di libri e mappe. Dall’altro lato, Mona e Abu Nawar osservano stupiti le piante officinali a loro sconosciute: la salvia, la maggiorana, piante di terre più piovose, meno soleggiate. Lui la convince a fare una foto: lei, vestita da festa, regge un innaffiatoio e cerca di darsi arie da disinvolta. Lui la immortala così: come se fosse casa loro, come se quello fosse il loro giardino. Sebbene siano alla continua ricerca di un posto dove abitare, la quotidianità è subito casa.

 

Ci rimettiamo in marcia: la meta è Flensbourg, dove passare il confine con la Danimarca. I chilometri si avvicendano tutti uguali, la notte scende prestissimo, e passiamo una Amburgo grandissima e illuminata, lasciamo il porto e Sankt Pauli fuori dal vetro e al confine, nuovamente, ci perdiamo. Il navigatore ha confuso il centro città con la frontiera, arriviamo in una piazzetta, e le altre macchine sono già dall’altra parte. Ci telefonano preoccupati. Reimpostiamo il navigatore, e con sempre più agitazione, passiamo un altro confine.

Urliamo di gioia e di sollievo, recuperiamo gli altri all’autogrill. Ci aspettano, dobbiamo ripartire, per essere in tarda serata a Copenaghen.

 

La strada continua e la notte boreale è più chiara.  Le isolette si susseguono sotto le ruote, passiamo Odense, con le sue sirenette scappate dal mare per poter essere umane, un po’ come i nostri compagni di viaggio. Nell’autoradio c’è un cd. Parte Paolo Conte. E’ “Via con me”, con il pianoforte marcato e il charleston che ci fa saltellare, muovendo le spalle e ballando. E nell’abitacolo che attraversa la Danimarca, quelle parole assumono un senso nuovo. “Via via, vieni via con me… it’s wonderful, good luck my babe, …via via, entra e fatti un bagno caldo/ c’è un accappatoio azzurro, fuori piove un mondo freddo”. Abu Nawar e io cantiamo e oscilliamo, e non importa se le parole non si comprendono del tutto, si parla di andare, e si parla di amore. Ogni volta che Conte parla di “Chips” lui rivolge uno sguardo a Mona, lei è l’interlocutrice, che lui porta via con sé, via con noi, verso Copenaghen.

 

Io sto con la sposa e tu? La campagna di crowdfunding

Qui il sito del film

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