Istanbul, che aria tira

11 Giugno 2013

A undici giorni dall'occupazione del Gezi Park, a Istanbul si respira un clima d'instabilità palpabile, quasi più violento dei tear gas che hanno pervaso per più di 40 ore non stop una vasta area intorno a Piazza Taksim.

 

 

Ma non c'è solo tensione. Stasera l'euforia è alle stelle. E' incredibile quello che sta succedendo in questi ultimi minuti: tifosi delle tre principali squadre di calcio locali, Fenerbace, Galatasaray e Besiktas, si stanno riversando in Taksim. Ultras che fino a tre settimane fa si guardavano in cagnesco, per usare un eufemismo, sono ora riunite nel luogo simbolo della protesta, cantando a squarciagola gli inni da stadio, riadattati per l'occasione, sotto gigantesche bandiere della Turchia.

 

 

L'Ataturk Kultural Merkezi, dalla cui cima i giornalisti hanno scattato alcune immagini ormai diventate simbolo della protesta, è gremito di gente che si arrampica sulle scale pericolanti in preda a un sentimento di riappropriazione degli spazi.

 

Abito a Istanbul da sei mesi, non abbastanza per capire in fondo tutte le sfaccettature socio-politiche di un Paese storicamente isolato eppure guardato come la preziosa pedina di un Risiko virtuale.
La mia non vuole essere un'analisi culturale sul ruolo – cruciale – dei social network o la cronistoria di quanto accaduto durante i primi giorni di rivolta, ma una testimonianza interna filtrata unicamente dal mio sguardo.

 

 

Fotografie e video di bombardamenti all'Orange gas, di civili rimasti contusi durante gli scontri e di abusi di varia entità da parte delle Forze dell'Ordine sui cittadini non solo di Istanbul, ma di oltre 60 di città sparse in tutta la Turchia – come Izmir, Adana, Antakya e la capitale Ankara, da cui non pervengono ancora dati certi sul numero di morti e feriti – intasano le pagine Fb e Twitter e, da soli, bastano a testimoniare la spropositata violenza perpetrata dalla polizia in risposta a manifestazioni pacifiste.

 

 

Due sere fa alle 9pm (ora locale) circa 20.000 sostenitori del partito di Recep Fayyp Erdogan hanno accolto il Primo Ministro di ritorno da Tunisi, bloccando le strade e i quartieri adiacenti l'Ataturk Havalimani – il principale aeroporto cittadino, dove tra l'altro sono ancora in corso gli scioperi della Turkish Airlines e di altre compagnie di volo.

 

20.000 simpatizzanti del partito di Erdogan, la stragrande maggioranza di sesso maschile, fomentati dalle parole del leader che – mi faccio tradurre da amici turchi – usa un linguaggio che può essere letto su diversi livelli. Alimentati da un fervore religioso che costituisce uno degli aspetti più delicati in questione, urlano “Andiamo a spaccare le teste in Piazza Taksim!” “Riprendiamoci Taksim!”; il Primo Ministro dice a tutti di tornare a casa, di andare il giorno dopo al lavoro e aspettare.
Non retrocede di un passo, intanto, sulla costruzione del centro commerciale, anche se cerca di indorare la pillola con la promessa di costruire anche un teatro e un'Opera.
 

 

Si aspettava l'arrivo del Primo Ministro come il possibile innesco di qualcosa di incontrollabile, l'ennesima miccia che avrebbe potuto far scoppiare una guerra civile.
Qualcuno storce il naso quando sente pronunciare queste due parole, ma lo scenario è infelicemente verosimile.
Civili contro il governo, polizia contro civili, civili armati contro civili, la crescita del sentimento di appartenenza islamica che, ancora una volta, svolge un ruolo di cartina al tornasole: il rischio è davvero alto.
Ogni minuto può accadere qualcosa in grado di rovesciare il precario equilibrio che sembra essersi lentamente creato, ed è questa precarietà la sensazione più angosciosa che si vive da mercoledì scorso.
Eppure, si fatica a crederlo, ma sembrerebbe che per ora il buon senso stia vincendo sulla stupidità e sulla rabbia.
Intorno all'aeroporto, scenario perfetto per i provocatori, non si è verificato nessuno scontro. I dimostranti del Gezi non si sono lasciati sedurre dalla tentazione di trovarsi faccia a faccia con il nemico, hanno fatto un decisivo passo indietro, scegliendo con lucidità collettiva – in gran parte mediata dai social network, ancora una volta decisivi nel connettere le persone invitandole a non recarsi all'aeroporto e nelle limitrofe zone di Yesilkoy e Ortakoy – di restare a difendere il luogo simbolo della protesta.

 

 

C'è tensione per quanto sta avvenendo nelle ultime ore: molti gli stranieri che sono stati fermati ed espulsi per aver “inneggiato” alla rivolta su facebook e twitter. Alcuni sostenitori dell'AKP hanno postato messaggi molto duri, ma a nessuno di loro è stato riservato lo stesso trattamento.
Questo è un vero e proprio crimine contro la libertà d'espressione, e la dice lunga su come il governo – che, ricordo, non è una dittatura: Fte è stato eletto democraticamente e sembra tuttora godere della maggioranza, anche se molti suoi elettori hanno fatto un passo indietro negli ultimi giorni, di fronte al palese uso arbitrario della forza – stia usando tattiche intimidatorie proprio in considerazione del fatto che il web sharing ha assunto un'importanza di proporzioni notevoli. E' questo il vero nemico da combattere ora, ancor più delle persone fisiche che occupano le strade.

 

 

Ieri sera e stamattina, Halk tv – piccola emittente indipendente che nell'ultima settimana ha raggiunto un'audience da record, proprio perché è stata l'unica a diffondere notizie sin dai primi giorni – un membro di Redhack, gruppo di hackers attivisti in linea con gli Anonymous che hanno bloccato per un giorno i siti web governativi, sta parlando in diretta. Un'immagine fissa come sfondo, il mezzo busto di un ragazzo, il volto coperto da un fazzoletto con il simbolo di falce e martello, con la sua voce testimonia quanto sta accadendo dall'inizio degli scontri.

 

Niente di simile era mai successo prima in Turchia, eppure la vicenda Gezi non ha colto alla sprovvista i più. Già il primo maggio, festa dei Lavoratori, e il 19 maggio, ricorrenza storica molto importante qui in Turchia (si festeggia l'anniversario dell'inizio della Rivoluzione d'Indipendenza dall'Impero Ottomano da parte di Mustafa Kemal Ataturk) molti aspettavano che qualcosa succedesse.

 

 

“Sono più di 10 anni che stiamo a guardare, è ora che si faccia qualcosa”, mi dice un amico. Non solo la middle class turca, che ha effettivamente dato il via all'occupazione del parco: in piazza la mobilitazione ha visto unite milioni di persone di ogni estrazione sociale, dalla gente comune alla borghesia laica, dai partiti d'opposizione ai musulmani moderati, fino ai tifosi delle varie squadre di calcio.

 

Tutti motivati dallo stesso sentimento di protesta verso un governo che sembra teso a islamizzare il Paese e a privatizzare gli spazi cittadini distruggendo luoghi di alto livello culturale e simbolico: non solo il Gezi park ma, tanto per citarne un altro, Tarlabasi: il quartiere a prevalenza kurda che sta per essere raso al suolo.

 

 

Nell'ottica di Erdogan i manifestanti non sono altro che “idioti” (Capulsu) che stanno cercando di congestionare lo sviluppo e la crescita economica della Turchia. 
L'umorismo di un popolo così eterogeneo si evince dalle creatività delle scritte che riempiono i muri del centro, come dai cartelli dei venditori di angurie, scesi in Taksim quando la situazione si è tranquillizzata, che recitano “Tayyp 1 TL”, ovvero Tayyp 1 lira turca. La parola Cocomero in turco è usata anche nell'accezione di stupido.
La situazione generale in piazza è decisamente più tranquilla. Nessuno scontro neanche la scorsa notte, ma tende, gente accampata ovunque, musica e inni, foto ricordo dai pullman rovesciati e distrutti, come se tutto fosse avvenuto mesi fa. Lo stesso scenario da circa 5 giorni, quando già si respirava un'aria di apparente vittoria, e qualcuno fumava sigarette sdraiato nel parco, lacrimando per i tear gas che giungevano appena oltre l'hotel Divan.

 

 

Ciò che ho visto, letto, sentito da amici in questi undici giorni, non è solo violenza, ma una grande solidarietà e una reale intenzione di farcela, di abbattere un potere dal basso. La naturale rabbia scatenata dai primi lanci di gas e dalle violenze fisiche e psicologiche subite dai cittadini è stata ingoiata come un boccone amaro, in favore di un uso intelligente delle proprie risorse.
Mercoledì scorso alle 7 del mattino sto passando da Taksim per prendere la metro. E' allora che vedo la prima camionetta gettare acqua su una decina – al massimo – di ragazzi che corrono per mettersi in salvo. La scena è alquanto brutale, nel silenzio di una città ancora semi-addormentata. Sono a conoscenza del sit in pacifico nel parco della sera prima, ma ancora non so che alle 5 della stessa mattinata le Forze dell'Ordine hanno cominciato ad attaccare con brutalità i circa 200 manifestanti, provocando feriti.
Quando rientro dal lavoro, alla fermata di Taksim giovani e gente di mezza età invitano a non salire in piazza: molti di loro hanno gli occhi gonfi e il volto rosso per i gas lacrimogeni. Decido quindi di prendere di nuovo la metro ma quando esco alla fermata successiva vedo che la folla è presente in gran massa anche lì.
Le 200 persone sono diventate migliaia, accorse anche da altre città, in nave e sui pullman. In un solo giorno.
La strada dove abito è intasata di gente, corro in casa solo per chiudere le finestre e noto che il portone è lasciato aperto per accogliere chiunque ne abbia bisogno. Devo scendere subito, perché i gas hanno pervaso tutto l'appartamento e l'aria è irrespirabile. Quella sera resto nel mio quartiere, a due passi dall'Ospedale tedesco, dove ancora non hanno eretto barricate. Un'ondata di gas mi travolge mentre cammino verso la piazza con gli altri manifestanti. Di fianco a me un ragazzo vomita, ho la netta sensazione di morire asfissiata e non ci vedo.
Eppure nessuno entra in panico: si retrocede di qualche passo senza correre. Una ragazza strappa a metà il suo foulard e me ne dà una parte per coprire naso e bocca.
Gli scontri procedono tutta notte. Tramite un amico conosco un gruppo di persone e il giorno successivo faccio base da una ragazza, postando senza sosta tutte le informazioni che mi sembrano utili sia per la gente che vive qui sia per l'Italia.

 

 

Quello è il giorno di Besiktas, degli Orange gas e della polizia che riceve il permesso di sparare, oltre che dai TOMA, anche dai fucili a gas. Notizie inquietanti arrivano da amici e conoscenti, in un costante e un po' caotico scambio di informazioni: si tratta di vere e proprie direttive su come muoversi, dov'è più rischioso andare, cosa sta succedendo nei vari quartieri.
La gente che non ha la possibilità di uscire in strada si affaccia alle finestre a battere su pentole e stoviglie, una protesta non meno efficace, ormai diventata un rituale collettivo alle 9 di ogni sera.
I gas arrivano anche nell'appartamento, decido di uscire e, nel frattempo, ricevo messaggi da amici su alcuni civili armati che stanno salendo da Tophane a Cihangir – Tophane è un quartiere a prevalenza musulmano-conservatrice. Non ho avuto conferma della veridicità dell'informazione, ma la riporto perché è uno dei tanti esempi di notizie che circolano in queste ore, creando ulteriore tensione.
I giorni successivi, gli scontri si concentrano ad Ankara, anche se ricevo ancora notizie di giovani arrestati e brutalmente picchiati, e fb è una miniera di informazioni più o meno utili a capire che aria tira.

 

Ho visto negli ultimi giorni qualche tensione tra sostenitori di diversi partiti, che, allentata la tensione, hanno preso a lanciarsi bottiglie piene d'acqua a due passi dalle danze del Gezi. Una ragazza è stata colpita in testa ed è cascata a terra, l'ho subito persa di vista nel fuggi fuggi generale. Poi, incredibilmente, gli animi si sono placati. Restiamo uniti, ha detto qualcuno, e tutto è tornato alla normalità.

 

Ad oggi non so cosa succederà. Molti i reporter arrivati dall'estero, compresi alcuni centri sociali di Milano come Macao e Zam, che cercano di testimoniare in prima persona quanto accade.
Da parte mia, credo che questo sia un buon momento per osservare.
Adesso la battaglia non è più da fare sulle strade, bisogna proseguire in una direzione diversa, l'evoluzione di queste folle giornate non può che essere un'azione collettiva, che in parte si è già innescata: parlo di scioperi e boicottaggio in primis.
E' un passo arduo ma fattibile. Non è più tempo di Orange gas e di violenza ce n'è stata fin troppa.
Il popolo turco in questa fase deve compiere una scelta strategica, altrimenti tutto questo sangue versato rischia di rivelarsi inutile e la protesta può evaporare come gas.

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