Speciale

Un sabato italiano

9 Agosto 2015

Era un sabato la prima volta che sono stata a Expo. Ho approfittato dell’ingresso serale, quello che costa 5 euro. 5 euro e: trenta minuti di metropolitana; una volata in un fiume umano anestetizzato dall’eccitazione; un’ora e venti di attesa tra l’arrivo in stazione Rho Fiera, l’acquisto del biglietto e l’entrata in Expo.

 

Finalmente sono dentro. Non prima di essere passata sotto lo sguardo del metal detector e di aver infilato la borsa nello scanner. Esattamente come in aeroporto. Improvvisamente ricordo che porto sempre con me un piccolo coltellino da borsa. Non si sa mai, potrei dover sbucciare una mela, tagliare del nastro adesivo, girare una vite. Sempre meglio averne uno. Ben nascosto s’intende. Tanto nascosto che gli apparati di sicurezza non lo vedono neanche e mi lasciano serenamente entrare.

 

Una volta dentro e stordita dal rumoroso sciame di persone, mi trovo davanti alla grottesca armata di statue che, come le Teste composte di Arcimboldo a cui si ispirano, sono corpi allegorici, non però delle stagioni ma dei simboli base della nostra tavola: il vino, il pane, la pasta. Questi giganti gargantueschi e pantagruelici sono comici, più che eroici, nelle loro pose sugli alti piedistalli e con i loro gonnellini assemblati con piatti, e polli al posto degli elmi; disposti a quadrato si impongono nella piazza d’ingresso altrimenti deserta e comunque sovradimensionata che accoglie le masse di visitatori. Guardiani di cosa? Guardiani del cibo; guerrieri per la tavola, schierati in difesa della nostra identità. Tanto per ribadire che l’Italia è sempre un Paese Very Bello fondato sul cibo. Altro che pizza, mandolino e…

 

I Guardiani del cibo di Dante Ferretti per Expo

 

Superata l’armata degli Arcimboldi firmati Ferretti, raggiungo i miei amici arrivati già la mattina. Loro, con bambina di due anni e mezzo al seguito ormai esausta, sono riusciti a vedere ben dieci padiglioni, mi dicono. E solo perché avevano il passeggino. Pare che aggirarsi con questo strumento di trasporto infantile dia un vantaggio significativo sugli altri, permettendo di accedere a corsie preferenziali evitando quindi le lunghe code nei singoli padiglioni. Così, mentre cerchiamo un posto dove mangiare, da Eataly s’intende, regione Liguria, perché ci piace andare sul sicuro, mi guardo intorno.

 

Improvvisamente mi rendo conto che Expo sembra un grande parco a tema. Un’Italia in miniatura. O forse anche una Disneyland (e Foody, la mascotte di Expo 2015, è disegnata proprio dalla Disney!) dove le case degli orrori, le montagne russe e le altre attrazioni lasciano il posto ai padiglioni nazionali. In un attimo si può viaggiare da Haiti al Kazakistan, dagli Emirati Arabi al Brasile, dall’Austria al Marocco (questi ultimi due degni di nota), dallo Stato Pontificio agli Stati Uniti d’America. Coprire con un colpo d’occhio le differenti architetture, i retaggi razionali e sovietici nei paesi post-socialisti o le volute radicali dei paesi nord europei.

 

Padiglioni a parte, dal primo momento in cui entri è difficile non lasciarti sopraffare dai continui stimoli al consumo di cibi, bevande e prodotti tipici di varie latitudini, ormai reperibili in qualsiasi città ma qui più cari perché arricchiti del fattore emozionale Expo. Tutto stordisce fino a provocarti uno stato di anestesia. Sembra di subire un meccanismo regressivo verso lo stadio infantile. Sorpresa, stupore e impulsi incontrollati. Sembra di trovarsi in una Zona temporaneamente autonoma, ma del tutto priva del suo portato di resistenza e rottura. Mi aggiro così tra istallazioni e dubbie esibizioni di uomini e donne esposti in piccole stanze mentre sono intenti a svolgere i lavori artigianali della tradizione del luogo, come se fossero in vetrina, sotto gli sguardi estasiati e rapiti del pubblico.

 

Ci sediamo e mi accorgo che davanti a me c’è la riproduzione (o forse è quella vera?) della Macchina di Santa Rosa. Curiosa coincidenza penso tra me e me: ho sempre evitato di vederne una finché sono stata a Viterbo e ora me la ritrovo a pochi passi. Sposto quindi il mio sguardo sul pubblico. Lo trovo decisamente più attraente di tutti gli allestimenti posticci. È principalmente italiano. Per lo più famiglie. Da tutta la penisola. Milanesi pochi. Forse qualche gruppo di giovani amici arrivato la sera per vedere lo spettacolo dell’Albero della vita e mangiare una pizza. Anche loro da Eataly. Tra tutti, il modello famiglia è quello che preferisco. Sono gruppi numerosi. Ritrovo delle generazioni: i nonni, le zie, le mamme, i mariti, i figli, i fidanzati e le fidanzate delle figlie e dei figli, più qualche bambino preso in prestito o troppo cresciuto per essere infilato a forza in quel passeggino riesumato dalla cantina. Utile anche (o forse soprattutto) per avere la precedenza in fila.

 

Penso: un pasticcio di luoghi comuni sull’Italia, sui suoi caratteri, già cinicamente ritratti dalla commedia italiana. Sembra di stare in un film di Alberto Sordi o di Totò. Mi domando se Expo non sia effettivamente riuscita a raccontare l’Italia, a metterla insieme in un solo posto e a tirarne fuori tutti i luoghi comuni che la definiscono, attraverso il suo pubblico oltre che nel suo Padiglione.

 

Proseguiamo il giro, dopo la cena (pasta con il pesto) ancora una volta trascinati dal flusso continuo. Ci ritroviamo sotto lo spettacolare Albero della vita. Sono curiosa di vedere di cosa si tratta. Di fatto è un’istallazione i cui costi (tra proiettori, scanner, luci e musiche) sono proporzionati alla sua bruttezza. Uno spettacolo con l’acqua, zampilli che si alzano a ritmo di musica (ricordate la scena finale di Ocean’s Eleven?) colorati da un goffo tentativo di videomapping. Oggi ragazzini con pochi spicci creano visioni molto più sofisticate, penso. Eppure un sonoro e dilagante “oooohhh!” insieme alla costellazione di cellulari che riprendono e fotografano lo spettacolo (ebbene l’ho fatto anch’io!) fanno da sfondo e sono l’indice di gradimento del pubblico.

 

 

Lo Spettacolo dell’Albero della vita è stato l’apice di questa gita e il suo momento conclusivo. Non sono neanche entrata nel Padiglione italiano. Avevo l’impressione di avere visto abbastanza. E nel ripetermi la domanda se forse non fosse proprio quella esibita nel pubblico la vera Italia raccontata per noi da Expo, mi rimbombava nella testa la voce di Marcello Mastroianni nella Grande abbuffata: “Bisogna mangiare!”, facendo eco a Tognazzi al sofferente Michel Piccoli: “Se non mangi, tu non puoi morire!”.

 

Esaltazione, stupore, anestesia, incosciente coazione al consumo. È questo il bilancio?, mi domando. Ma in fondo la sera e il buio sono scesi da un pezzo, siamo stanchi e pieni di nuove visioni ed emozioni da elaborare, e in massa, sempre dentro al flusso, ritorniamo tutti verso casa. In questo sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato, la notte è un dirigibile che ci porta via lontano...

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