Speciale

Il Rospatoio

9 Settembre 2012

Mi aveva detto un amico – avevamo, sì e no, quindici anni – che sul Rospatoio in un lontano Giro d’Italia Bartali aveva preso una cotta grossa così ed era andato in crisi. L’amico ogni tanto sparava qualche balla, ma a me piaceva credere che fosse vero, anche se qualcosa mi diceva che non lo era. Il Rospatoio: una salita di tre chilometri all’incirca, quasi dritti, con appena due o tre semicurve e una pendenza dell’otto per cento. Tra la vegetazione la sagoma aguzza, come quella di un dente cariato, della Rocca di Crevole, semidistrutta dagli Spagnoli in una lontana guerra cinquecentesca. Siamo in Toscana, anzi, in uno dei suoi cuori, a Murlo, venti chilometri a sud di Siena, famoso perché i suoi abitanti hanno lo stesso Dna degli Etruschi. Anni dopo, studiando la storia minore dei borghi senesi, avrei scoperto che questa collina divideva in due il comune anche politicamente: da una parte tutti comunisti, dall’altra tutti democristiani.

 

La mia bici da corsa era un’Aquila fabbricata a Montevarchi; due moltipliche e cinque rocchetti che non sapevo spingere neanche troppo bene: faticavo, infatti, anche sulle salitelle che costeggiano le mura di Siena. Anche il mio abbigliamento era quello che era, pantaloncini normali senza imbottitura (!) e fruit bianca. Il mio ciclismo era televisivo e letterario, teorico e non pratico, imbevuto più di Brera e di Barthes che di sudore e di fatica.

 

Il Rospatoio andava fatto. Nella mia scala di valori era divenuto un piccolo Stelvio sotto casa. Il  nome poi! Rospi, rospatoio, un nome selvatico, aspro, remoto di quella Toscana collinosa e boscosa dalla quale provenivano i miei nonni, un po’ diversa da quella ordinata e perfetta della Valdorcia. Una ricognizione con il mio Dingo tre vu mi spaventò e a un tempo mi esaltò. Una mattina dell’estate ’85 mi svegliai bene e mi dissi: questo è il giorno. Partii di buon mattino: i primi chilometri, in pigra discesa lungo la Cassia, li feci a tutta pensando che se poi fossi scoppiato, almeno un tratto l’avevo percorso ben veloce. Uscito dalla Cassia il percorso si ingobbiva; tre piccole colline cipressate furono sufficienti a sfiancarmi; il temibile Rospatoio, fauci aperte, attendeva paziente l’incauto viandante. La salita inizia con un posticino delimitato da due curve. Fatti sei-settecento metri ero già finito. Gambe vuote, borraccia vuota, più niente da mangiare. Arrivai, chissà quanto ci misi, in cima, pintando a tratti la bici, divenuta, come aveva scritto Gianni Brera in Coppi e il diavolo, un orrendo strumento di tortura.

 

Dalla cima, si fa per dire (510 slm) un percorso ondulato riporta a Siena. Arrivai che l’una era vicina e mia madre stava preparando il pranzo. Stramazzai nella vasca e vi rimasi un’eternità. La sera, nella mia Contrada, raccontavo la mia impresa epica con accenti da esploratore antartico: oltre 50 km; e la terribile salita bene o male valicata, ma gli amici mi guardavano perplessi, incapaci di comprendere il mio entusiasmo. Evidentemente, miravano ad altri obiettivi.

 

Dopo quella faticaccia, per anni mi tenni lontano dal moloch che mi aveva sconfitto.
Lo domai solo nel ’93, dopo un altro naufragio, con una bici più seria, una Bianchi. Quella volta, con un paio di amici, lo salii a buon passo (per come può essere buono il passo in salita di un energumeno di oltre 90 chili e 190 centimetri). Poi imparai anche ad andare in bici e feci il giro dei quattro passi dolomitici. Trionfante, appena tornato a Siena, decisi di saldare i conti col mio vecchio nemico: l’avrei scalato con il 52, mi riproposi. Cristo, se avevo salito Pordoi Campolongo Gardena e Sella il Rospatoio dovevo demolirlo. Ma anche stavolta il vecchio nemico si fece sentire. Il 52 lo tolsi  di mezzo dopo qualche centinaio di metri; e pure il 19 dietro. Lo salii, ovviamente, ma con un misero rapportino di cui mi vergognai con me stesso nella discesa susseguente. Dentro di noi, pensai, ci sono percorsi che per un motivo ignoto ci sono ostici. E tali rimangono per sempre.

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