Il grosso cane

2 Settembre 2013

Tratta Udine -Venezia,  ore 15.07 (andata)

Il grosso cane


 
Salgo a Udine. Il treno sudato arriva da Trieste. Ha i vagoni modello “finestrini che non si aprono” e naturalmente l’aria condizionata non funziona. Perfetto. Secondo i canoni di un pomeriggio d’agosto su un convoglio locale, il tutto è quasi rassicurante penso.
Trovo posto in una prima declassata da un biglietto sbiadito che ne confonde il numero,  un biglietto declassato anch’esso, poverino.

 

Se respiro regolarmente e mi muovo poco, ho qualche possibilità di sopravvivenza. Discreto scambio di occhiate con i vicini di posto. Un sorriso, un’alzata di sopracciglia. Confortanti segni d’intesa.
Mi metto a leggere cullata dal rumore del treno. Alla seconda pagina sento una forte sbuffata.
Riconosco il genere: cane di grossa taglia. Cerco di capire dove si trova e subito lo vedo, nascosto sotto un sedile. Dista da me due posti oltre il corridoio. Ne spunta solo il muso, in mezzo alle zampe anteriori. Il resto del corpo è in ombra, nascosto dalle gambe della sua padrona. Gli sorrido. Lui sembra rispondere, perché solleva il muso annusando l’aria nella mia direzione. È un bel Labrador, chiaro. Credo adotti la mia stessa tattica di respirazione, ma si vede bene che soffre il caldo, le perline che scendono dalla lingua non mentono. Riprende la posizione. Il muso perfettamente aderente al pavimento. Seguo le lunghe gambe della sua padrona in un paio di stretti pantaloni chiari, incrociate sul grembo due mani dalle dita sottili. Sopra una camicetta bianca di taglio perfetto, un bel volto nascosto da occhiali scuri. Ragazza fine, penso, genere Grace Kelly. Sembra non soffrire il caldo. Se non fosse per il respiro visibile, sembrerebbe una statua di cera. Noto che ha un auricolare, forse un bluetooth, non ha le cuffiette. Peccato, la musica avrebbe potuto giustificare l’immobilità della sua postura. Riprendo a leggere, ma dopo qualche pagina sono nuovamente distratta dal cane, che ora respira con sonoro affanno. Lo guardo attentamente. Anche se non si agita, sembra non stare bene.

 

Quanto alla ragazza, non si è mossa di un millimetro. Non capisco come possa essere così indifferente alla fatica del suo animale. Io non ho cani. Ma ho sempre segretamente desiderato averne uno. Forse per questo rischio di essere piuttosto severa con alcuni padroni. Strano però, questa mi sembrava intelligente. O meglio, il suo aspetto mi piaceva e avrei voluto corrispondesse a un soggetto sensibile e intelligente. Invece, penso, deve essere un’egoista. Deve aver preso il cane quando era un bel cucciolo “di moda”, come quello della réclame della carta igienica. Poi si è stufata. Ma non può liberarsene,  chiaro. Non può sopportare l’imbarazzante interrogatorio di amici e parenti, che le chiedono dove è finito il suo cane. Combatto con me stessa. Vorrei fregarmene e continuare a leggere, mentre il mio istinto vorrebbe andare da lei a chiederle se si è accorta che il suo cane ha caldo. Anzi, si spingerebbe oltre. Prenderebbe il cane e lo porterebbe in bagno, per bagnargli la testa e il muso, come ho sempre visto fare ai buoni padroni. Ma la paura di assomigliare a quelle orribili donne impiccione che ho incontrato in treno mi tiene vigliaccamente incollata al mio sedile.

 

Il cane mi guarda fisso, sempre con il muso sul pavimento della carrozza. Forse è più fresco, penso. Per verificare lo tocco con il dorso della mano. Mi pare ancora più caldo dei sedili.
Almeno avessi con me una bottiglietta d’acqua. Il cane deglutisce continuando a guardarmi. Fossi una fanatica, direi che legge nel pensiero. Al contrario della sua padrona, che continua a ignorarmi e ignorarlo, sempre immobile e perfetta nella sua camicetta impeccabile, sorda a qualsiasi richiamo.

 

Ma... dico io… se voleva un bell’accessorio, perché non si è presa una borsa di Louis Vuitton? Costa uguale, ha quasi la stessa taglia e non soffre la sete. È una stronza! Assecondo il sospetto che mi infastidisce, ma i miei pensieri vengono bruscamente interrotti dalla altrettanto brusca frenata del treno. Stazione di Pordenone. Non è stata annunciata, tutto il vagone è in agitazione. Una signora, dal peso stimabile sugli ottantacinque chili credo, prende di mira il mio alluce per recuperare il bagaglio,  che oltretutto rischia di atterrare direttamente sulla mia testa. Il corridoio è pieno di gente che si spinge e vuole scendere per prima. Perdo di vista “il mio cane”.
Quando il treno ha scaricato tutti i passeggeri e ricomincia lentamente a muoversi mi alzo per guardare verso il marciapiede. Lo vedo lì, con la sua padrona e due ragazzi altrettanto giovani e belli.
Solo in quel momento noto sulla pettorina del cane quella piccola, discreta croce rossa.

 

Tratta Venezia - Udine, ore 9.30 (ritorno, il giorno dopo) 

Conversazioni



Nella notte ha rinfrescato, anche il treno sembra fresco, quasi pulito. La stanchezza intreccia le righe dell’articolo che sto leggendo, ma non voglio dormire, ho paura di non scendere alla stazione giusta e desidero portare a casa il mio sonno intatto.

 

A Sacile sale una donna “leopardata”. Capelli stressati dall’indecisione sulla tinta da adottare, tacco dodici e labbra troppo sporgenti per essere naturali. È accompagnata da un bassotto a pelo ruvido, razza che non le si addice. Sarebbe la padrona perfetta di un chihuahua, un pechinese, o al massimo un carlino, ma il bassotto proprio no. Quelli a pelo ruvido poi mi sono particolarmente simpatici. Appena superano i sei mesi assumono l’aria di un vecchiaccio scontroso. Sembra che giudichino tutti gli umani con severità, anche se ti guardano dal basso all’alto e non viceversa.

 

La strana coppia prende posto di fronte a me, solo poche file più in là. Posso osservare bene la scena. Lei non sta zitta un momento. Ovviamente si rivolge al cane - Vedi ammoreeeee, ti dicevo che trovavo un bel posticcino per il mio tesoorooo, hai visto?! Ora vieni in braccio alla tua mammina, sù, sù, vedrai che bel viaggettino...-  Il linguaggio mieloso urta i nervi, ma allo stesso tempo fa sorridere. Riporta alla memoria le Conversazioni di quel genio di Saul Steinberg (1914-1999, Conversazioni: serie di vignette raffiguranti coppie di personaggi che dialogano attraverso segni grafici sostitutivi delle parole. Esempio: una bambina parla con un adulto, dalla sua bocca escono disegni infantili, ma il suo discorso viene cancellato da una linea dura, grossa e perentoria, che esce dalla bocca dell’adulto. Illustrazione dell’incapacità dei grandi di ascoltare e capire i piccoli). Se Steinberg fosse qui a ritrarre la scena che vedo, dalla bocca del cane uscirebbe uno zig-zag fitto-fitto, simbolo di un silenzioso brontolio sommesso, e da quella della “leopardata” uscirebbero colonne e colonnine a tortile sovrastate da ricchi riccioli, con traboccanti ceste di fiori di plastica e paccottiglia varia sulla sommità e dolcissime cascatelle di melassa colante, che inondano il sottostante impotente bassotto a pelo ruvido.

 

Povera bestia, fa pena. Si vede benissimo che vorrebbe schiacciare un pisolino, ma gli acuti intermittenti e i continui sbaciucchiamenti della sua padrona rendono il sonno un sogno irrealizzabile. Estraggo un notes per fissare la scena, che altrimenti dimenticherei. Cerco di creare un contatto con l’animale. Provo a richiamare la sua attenzione tamburellando i piedi. Sorrido. Alzo il collo. Un sopracciglio. Non succede nulla. Mi ignora, è immusonito e stufo. Mi stufo pure io. Abbandono l’impresa impossibile e provo a tracciare solo l’idea sul foglio, per divertirmi un po’.

 

Ma mi fermo improvvisamente. Sento una vampata e uno squarcio alla bocca dello stomaco.
È arrivato il cane del giorno prima nei miei pensieri. Quel grosso Labrador chiaro.
Il cane che mi guardava ha risvegliato un ricordo, che mi fa abbassare gli occhi sulla pagina bianca e sulla mia piccola vergogna. 
 

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