Aude Pacchioni: la Resistenza civile

22 Ottobre 2013

Aude Pacchioni nasce nel 1926 a Soliera, in provincia di Modena. Nonostante la giovane età, partecipa alla Resistenza con il nome di battaglia Mimma. Nel secondo dopoguerra si occupa della questione femminile da un punto di vista sia sindacale sia sociale. Negli anni ’50 è Presidente Provinciale dell’Unione Donne Italiane. È invece dal 1960 che assume l’incarico di Assessore ai Servizi Sociali e Sanità del Comune di Modena, divenendo una delle principali artefici della costruzione del famoso modello emiliano di welfare. In quegli anni concentra l’attenzione su tematiche quali gli asili, le scuole, le colonie estive, l’assistenza agli anziani e la sanità. Oggi è Presidente Provinciale dell’Anpi Modena.

 


 

 

Provengo da una famiglia di persone molto determinate che avevano fatto una precisa scelta antifascista.

Eravamo coltivatori diretti e vivevamo a Soliera in via Lama ai confini con il Quartirolo di Carpi. Una famiglia piccolina, poco terreno. Mia madre, mio padre, una sorella, un fratello e i nonni materni. Mio padre antifascista e mia madre molto cattolica e osservante, ma determinata sul piano sociale e civile. Ho sempre respirato un clima di solidarietà, di attenzione, di impegno, di non lasciare mai correre le cose. Mi ha dato molto. Una famiglia perbene, riconosciuta da tutti.

 

Aude Pacchioni. Ph. di Mirto Baliani

 

Dall’otto settembre 1943 iniziammo ad ospitare quelli che scappavano dal campo di concentramento di Fossoli, i feriti, i soldati sbandati… Mio padre era collegato con il mondo della Resistenza. Durante quel periodo io già svolgevo un’attività in una fabbrica di Modena, che allora poter lavorare era una cosa importante e si poteva andare anche se non si avevano i ventuno anni. Ero da Rizzi a lavorare e quando ci fu il primo bombardamento della città, mio padre e mia madre mi dissero: “Tu a Modena non ci vai più”.

 

Fu allora che il Cln mi chiese di andare a lavorare in Comune a Soliera. Durante la guerra, le famiglie dei militari ricevevano un sussidio, lo chiamavano “sussidio dei militari”. Ad ogni militare era riconosciuta una certa cifra, non ricordo più quanto fosse. Per avere questo la famiglia doveva esibire una lettera, una busta almeno, che dimostrava che il figlio o il marito o il fratello erano in guerra. È che quei figli, quei mariti, quei fratelli, molti non erano più militari perché erano andati nei partigiani, quindi c’era il problema del come riuscire a non fare venire meno quel sussidio, non tanto perché si perdevano i soldi, ma perché si capiva che non erano più al fronte. Quindi poteva iniziare una persecuzione della famiglia. In Comune a Soliera, allora, io dovevo occuparmi proprio di questo. Le famiglie mi portavano una busta, che era sempre la stessa, con tutti i timbri di questo mondo che viaggiava per le diverse case tutto il tempo… “va bene, va bene”, io firmavo, sottoscrivevo e via che se ne andavano con il sussidio!

 

Aude Pacchioni. Ph di Mirto Baliani

 

Quando si parla del periodo della Resistenza, molti si soffermano sulla sola parte militare. È stato detto molto sulle brigate, sui gruppi armati, sulle gravi cose avvenute, su come è stato vissuto il periodo delle stragi, però secondo me si è trascurata quella parte importante che è la resistenza civile, quella che è venuta fuori già con la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 che speravamo tutti che fosse la conclusione di quel periodo. Quelle grandi manifestazioni di giubilo che ci sono state in Italia hanno meravigliato molti perché tutti quanti davano per scontato, viste le parate, che il fascismo avesse davvero conquistato fino in fondo anche le coscienze delle persone.

 

Il fascismo aveva solo impaurito e costretto attraverso i mille canali: la stampa, la radio (quelli che ce l’avevano), la scuola (senza libertà di insegnamento), la miseria, la guerra. La Resistenza, soprattutto in pianura ma anche in montagna, ha potuto essere quella che è stata perché c’è stata la resistenza civile: le famiglie che ospitano, che rivestono i soldati, che bruciano gli abiti militari, che danno ospitalità a chi è ferito, a chi scappa. C’è stata anche, da parte delle donne in particolare, una presa di coscienza: si poteva cambiare qualcosa. Ne parliamo sempre troppo poco. Non è vero che fossero poi così tonte, come qualcuno pensava e qualche parte pensa ancora. Le aziende contadine e quelle degli artigiani hanno potuto continuare perché c’erano le donne che le hanno fatte andare avanti, altrimenti restavano solo gli anziani e i bambini. Quel periodo ha dimostrato che le donne potevano valere, che avevano qualcosa da dire. Si resero conto che sapevano fare andare avanti le famiglie e le aziende. E lo hanno voluto fare anche dopo. Ecco poi l’esplosione, il voto e tutto quello che ne è conseguito. Questo è il dato. Ed è frutto anche di quel momento di resistenza civile. Cosa che, fino a poco tempo prima, non se ne parlava assolutamente. Ho davanti ai miei occhi le grandi manifestazioni per chiedere l’assemblea costituente: la più gran parte erano donne! Nelle nostre zone, soprattutto in bicicletta, a piedi o sui carri.

 

Subito dopo la Liberazione mi occupai a tempo pieno delle donne: feci un periodo con le contadine, le mezzadre, le mondine, le donne dei coltivatori diretti. Fu bellissimo! Con la Federmezzadri facemmo una battaglia per l’elettricità nelle campagne. Avevamo stabilito anche la Carta dei Diritti delle donne mezzadre. I patti contadini erano terribilmente antifemminili perché quando dividevano i prodotti della famiglia a un uomo andava una bocca e alla donna mezza bocca. Quell’esperienza fu indimenticabile. Ricordo le assemblee oceaniche di mondine dove si accapigliavano perché tutte volevano andare e bisognava fare le graduatorie sulla base delle reali necessità. Quaranta giorni, pagate male e con un sacchetto di riso quando venivano a casa. E si accapigliavano per questo.

 

Non ci spieghiamo mai abbastanza le ragioni per le quali il nostro paese, sul piano culturale, i passi fondamentali che ha fatto, oltre alla conquista dei diritti di libertà e di rappresentanza politica, li ha fatti attraverso le leggi che hanno cambiato la cultura del paese: il nuovo diritto di famiglia, la legge sul divorzio, la legge che ammette la possibilità per le donne di fare un figlio o no (non mi piace parlare di aborto)… Hanno inserito dei modi nuovi di pensare, anche da parte delle donne. E quindi io dico sempre che questo è frutto di quel periodo, di quel tipo di Resistenza sia armata che civile. Io credo che di questo dovremmo essere molto grati a quel movimento resistenziale proprio perché ha dato il via a tutto quello che è stato dopo.

 

Rifletto anche nei confronti delle donne delle giovani generazioni: essere emancipate non vuol dire solo poter vestire come ti pare, il che mi sembra una cosa molto utile e molto importante, ma significa far valere l’intelligenza che hai, farti rispettare, essere alla pari con tutti gli altri. Non dico uomini e donne, no! Alla pari degli altri esseri umani! Abbiamo ancora parecchia strada da fare, abbiamo fatto fatica allora, durante la guerra. Prova ne sia che quando sono stati costituiti i Gruppi di Difesa della Donna la dizione iniziale era “Gruppi di Difesa della Donna e Assistenza ai Partigiani”. Dopo ci si è ribellate! Tira via quella parte! Noi non siamo qui per fare assistenza! La parità non vuol dire uguaglianza. Uguaglianza di diritti, uguaglianza nei confronti della società e di rispetto della società, ma sono due cose diverse un uomo e una donna, sono due entità in una società che deve organizzarsi in modo tale da rispettare tutti e due alla stessa stregua. Questo è il principio fondamentale. Io non sono uguale a un maschio: non lo sono non solo strutturalmente, non lo siamo mentalmente, non lo siamo come capacità di sentire, di vivere le cose.

 

Ph. di Ottorino Ferrari

 

Non è stato facile dopo la Liberazione fare l’assessore ai Servizi Sociali del Comune di Modena. Ancora meno facile è stato quando sono diventata presidente degli Istituti Ospedalieri in un ambiente universitario. Immaginate? Una donna, primo; che veniva dal consiglio comunale, secondo; terzo, che era di sinistra, manco a dirlo era comunista. Allora si parlava di come la società doveva essere organizzata, di come non si poteva pensare che l’educazione doveva partire solo a sei anni, ma bisognava partire a tre anni. E prima dovevano esserci degli impegni. A Soliera realizzammo un asilo per i bambini delle donne che andavano alla monda del riso in Piemonte.

 

Chi li teneva i bambini di giorno che i padri lavoravano? Fu così che ripulimmo e sistemammo una sala dell’aia (che era una sala dove si mettevano al riparo i prodotti d’estate da essiccare) così da dare vita a un asilo per i bambini. Era a Secchia. A casa Salvarani. C’era una signora anziana che faceva la cuoca, una certa Assunta, e una donna che badava ai bambini, che non era un’insegnante, ma era una mamma che non andava a lavorare e che si era prestata a fare quella cosa. Era un embrione. Più tardi sono diventati i nidi. Il primo nido a Modena (in questo sono stata un po’ la madrina) era della primavera 1969, il primo nido in via Bonaccini.

 

Si trattava di istituzioni culturali vere e proprie, inventate proprio per dare un contributo alle donne che lavoravano e soprattutto all’educazione dei bambini. Negli anni costruimmo una rete di scuole di infanzia e di asili nido, come quello a Modena in via Gramsci in una zona operaia e molto popolare della città. Prendemmo due appartamenti al terzo piano in un condominio, avevano due terrazzi che cercammo di utilizzare coprendoli nel modo dovuto. Non riuscivamo a trovare nemmeno i mobili adatti. Chi era il negoziante che aveva dieci, quindici culle da darci? Oppure le giostrine? Oppure le altre cose che servivano?

 

Al mare. Ph. Ottorino Ferrari

 

Nel dopoguerra organizzavamo anche i soggiorni estivi dei bambini. Anche lì con una mentalità diversa. Oltre alle colonie che avevamo come Comune di Modena, prendemmo in affitto una trentina di piccoli appartamenti nella zona di Gatteo a Mare, vicino alla colonia, per mandarci le mamme con i bambini piccoli, così noi avevamo più posti per quelli che avevano da sei a dodici. Badavano loro le infermiere e le assistenti sociali e sanitarie. Era un approccio diverso all’infanzia: non solo da un punto di vista assistenziale, ma anche culturale e di avanzamento civile. Ricordo un giorno che andammo a trovare una di queste famiglie, ancora la cosa mi rimane lì, c’era un padre che mi disse: “Signora, sono venuto qui a trovare mio figlio. Lo sa che è la prima volta che vedo il mare?”. Eravamo negli anni Sessanta.

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