Speciale

Dove nascondo l'oro

21 Aprile 2015

“Dove nascondo l’oro? Mi han detto di metterlo tra le pentole, ma per me i ladri sono furbi. Vieni a vedere dove voglio metterlo. Così che se mi dimentico o mi prende un male, tu sai. Intanto questo bel medaglione della nonna prendilo tu, lei avrebbe voluto così, glielo toccavi sempre da piccola. Ma tu lo porti l’oro? Ce l’hai una catena? Non ti posso dare la mia, è troppo grossa, e non ti starebbe bene, e poi queste sono cose che lascerò ai tuoi fratelli, tanto a te non interessano… alè, apri la porta della cantina, quella in fondo al corridoio, qui non c’è nemmeno il pavimento, chi vuoi che pensi che ci nascondo l’oro. Allora, dai, conta, di fianco al tino la terza damigiana, alè, mettiamo il primo mucchietto con gli anelli, e poi quello con gli orecchini più spostato dietro, e le catenine invece, nella mensola dei fiaschi. Ma è vero che bisognerebbe nascondere l’oro tra le pentole d’acciaio in cucina? Che lì non le trovano? No, le troverebbero subito! Invece qui, nella casa vecchia, con le porte che non si chiudono bene, le persiane rotte, il veleno dei topi nelle crepe, chi vuoi che sospetti? Allora… hai visto bene? Guarda bene veh! Che i mucchietti son da ricordare. Adesso sediamoci che ti devo dire come voglio essere vestita quando muoio, e la foto che dovete mettere, l’ho detto anche ai tuoi fratelli, son bravi, più di te, ma si dimenticano le cose. E il babbo non sa niente, poveretto, è sordo completo ormai, sta nel campo, mangia, dorme, e basta. Ha una salute di ferro, ma le orecchie non gli funzionano. E io con chi parlo? Anche se urlo non capisce, e dice che ho una voce scura che non gli entra, va a capire cosa diventiamo quando siamo vecchi. Te l’avevo detto che il babbo non vuole essere seppellito vero? Sì? Perché i tuoi fratelli se l’erano dimenticato. Cosa hai fatto con i soldi che ti ho dato per il compleanno, non avrai messo tutto dentro lì al teatro, non puoi prenderti una bella maglietta colorata per te? Ti piacerà pure. Ma sì, anche te sei sorda, come tutti i Montanari, sordi, fan quel che vogliono. Ah, ma si è patito sai, noi donne abbiam patito, sempre nei debiti, sempre a comprare terra, a lavorare come matti, con la zappa anche di notte, mai un giorno di pace… ma cosa c’avete addosso? Ridi, ridi pure, proprio una Montanari, non conta studiare, lo diceva la povera nonna, studia studia è peggio di prima, parla che non si capisce, che pensa quel che non deve pensare, vuol sempre andare in giro per il mondo, cosa c’è in giro per il mondo che non c’è qui, eh? Per televisione mi sono vista tutti i capodanni dal Giappone a New York, seduta sul mio divano, senza che nessuno mi disturbasse. Allora il vestito blu, quello con il bavero e la spilla con le granate, capito? Voglio quello quando muoio. Che devo essere bella. Ci sei poi andata a vedere la tomba nuova? È venuta bene, così chiara fa più luce, e l’han tirata così a lucido che non devo neanche dare la cera, voi comunque non la dareste.”

 

E questo discorso la mia mamma me l’ha fatto prima che partissi per la Birmania, che non immaginava certo quanto oro avrei trovato lì.

 

Luglio è stagione di piogge in Birmania. E i monsoni, dopo averli studiati a scuola, quasi fossero una favola misteriosa di natura orientale, là, ne abbiamo conosciuto la pericolosità: venti che accompagnano turbini di nubi e rovesciano al suolo acqua con un’ intensità fortissima. Siamo rimasti impantanati più volte nei villaggi miserevoli del sud, per raggiungere Mawlamine, e immobilizzati di notte ai piedi di alte montagne sacre, in bungalow con soffitti crepati, cascanti, sotto un cielo latteo per la ferocia delle piogge. Abbiamo temuto per noi stessi. Sapevamo dei tombini aperti per strada, pozzi in cui scomparire per sempre, allora la notte giravamo con le torce; sapevamo del cibo poco assimilabile, visitando sperduti villaggi al confine con la Thailandia, senza acqua e senza elettricità, allora abbiamo chiesto perdono al nostro fegato e implorato di resistere; sapevamo dei malati, dei vecchi curati dalle monache per l’impossibilità di permettersi l’ospedale per troppa miseria; la miseria serpeggiante, i fiumi minacciosi color ruggine, i cani abbandonati nei monasteri, unico luogo dove non potevano essere picchiati, i corvi che fanno l’aria pesante, le notti infastidite da nuvole di minuscole zanzare malariche, i militari in abiti civili moltiplicati come spie in ogni dove; sapevamo, quasi a memoria, il cupissimo e straziante romanzo di George Orwell, quello dei “giorni birmani”, che come una venetta martellante ci ha fatto da guida… ma non sapevamo della bellezza dell’oro, quello che si tocca, quello delle statue del Buddha “dallo sguardo basso”, quello delle rocce sacre in bilico sui monti, quello che si manifesta all’improvviso in Stupa meravigliosi ai margini delle foreste, quello delle colonne di tek intarsiate di diamanti, rubini, zaffiri, e le migliaia di foglie d’oro custodite entro minuscole veline per essere offerte e appiccicate alle statue di Buddha o nelle pietre, emblemi dell’Illuminato, per conservarne brillantezza e bellezza. Ma non sapevamo che i luoghi sacri: pagode, monasteri, isole, pietre, si possono calpestare solo a piedi scalzi, la nuda pelle che tocca, e a sua volta è toccata, dall’incandescenza del marmo, o dell’acqua scura che spesso tutto copre; una disciplina che può fare indurire il cuore se non si è compassionevoli osservanti theravada.

 

Perché proprio in Birmania? Qual era la radice di quella spinta così osteggiata dalla mamma, anche se sapeva benissimo che non sarebbe stata ascoltata, come tutte le altre volte, come tutte le sue raccomandazioni: andate piano, non parlate con nessuno, copritevi. Siamo andati in quella terra mozzafiato per respirare l’aria di ASSK. Così chiamavamo in codice Aung San Suu Kyi, sapevamo che non era prudente pronunciare il suo nome, là. La decisione di andare in Birmania è stata presa all’improvviso. D’impeto. Con Marco ci siamo imbarcati a metà luglio per Doha, diretti a Yangon; non potevamo non visitare quel paese prima di chiuderci in teatro per lavorare a Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi. Nel gennaio scorso, in volo verso New York, Marco, sfogliando una rivista, si imbatté nel volto severo e sorridente della signora coi fiori tra i capelli e dal nome possente, che significa “raccolto luminoso di strane vittorie”. La luce epifanica di quell’immagine ci portò a divorare ogni cosa su di lei nei mesi a seguire, la sua storia, i suoi scritti, i suoi discorsi, il suo martoriato paese. Avremmo voluto disporre di 1000 occhi per allungare il tempo che avevamo a disposizione, avremmo voluto possedere una bacchetta magica per fermarlo il tempo, in certi mercati popolari colmi di fiori recisi dai colori accesi, e dai profumi sconosciuti, avremmo voluto il dono della veggenza per ascoltare a fondo i suoni di quella lingua rotonda e impenetrabile, il ritmo delle mandrie di bufali neri nei campi di riso allagati, i canti dei ragazzi seminudi a spostare i lunghi tronchi di caucciù, i saluti delle donne fumatrici di sigaro in pellegrinaggio verso la Swedagon, gesti di supplica, di palpebre abbassate, di inimmaginabile delicatezza, immagini da favola, quasi da cartolina, se gli incontri non fossero stati ‘veri incontri’, persone imprigionate senza le sbarre, ma con sbarre e lucchetti e manette negli occhi, nelle movenze, nei silenzi.

 

E il primo incontro è stato con noi, coi nostri sogni notturni che restavano attaccati come gechi fastidiosi durante gli spostamenti diurni. Quel veder chiaro in se stessi, come se fossimo stati in un luogo di ritiro per riaddestrare l’orecchio al suono, e scopettare le nostre intolleranze, le nostre manie di gente abituata a liturgie di protezione. Un incontro prepotente come lo furono i primi viaggi in Senegal all’inizio degli anni Novanta insieme a Mandiaye N’Diaye, che scaravoltarono le nostre menti e ammorbarono i nostri corpi. Incontro paradossalmente mortale e generante come onde sbattute contro la roccia. E ogni volta, ogni incontro, o incanto, o viaggio, è preceduto da una preghiera in atto, che si concretizzerà in uno spettacolo, che negli anni sta assumendo l’architettura di una messa “scombinata”, una forma di patimento nel canto, una compassione direbbe Mandiaye, che è morto qualche mese prima della nostra andata in Birmania, e che ora incontriamo di notte a suggerirci vie azzurrine, o “una marcia verso un obiettivo irraggiungibile” come direbbero i “santi” di quella schiera che da millenni combattono con le armi della mitezza e del dialogo, disciplina durissima e rovello quotidiano di educazione all’Amore. Quelle persone, come Rosa Luxemburg che ebbe parole di dolcezza per i suoi carnefici, come Aung San Suu Kyi che non ha mai imparato a odiarli, i suoi carnefici.

 

 

 

Al tema della compassione è dedicata una delle giornate dei Parlamenti di aprile 2015, organizzati dal Teatro Albe, che si svolgono proprio in questi giorni (21, 22, 23 aprile) al Teatro Rasi di Ravenna.

 

Qui il programma completo degli incontri.

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