Locarno. V.B. telefono casa

14 Giugno 2015

Sono nato e cresciuto a Locarno, ma dalla fine del liceo ci torno solo di tanto in tanto; da sei anni, poi, vivo a Londra. Locarno entra spesso nelle mie poe­sie, ma per quanto precisi e reali possano essere i ri­ferimenti, hanno valenza di tono o di tonalità. Qual­cosa di calmo e cristallino, disarmato, illeso. Senza rientrare nella sfera della nostalgia, ha a che fare con le origini, con il tempo passato, a cui non si può tor­nare ma che continua a abitare il presente, con un luogo in cui si ritorna nel tempo. In due parole, un luogo dell’anima.

 

Trovarmi a scrivere di Locarno in termini de­scrittivi fa uno strano effetto. Forse perché per la pri­ma volta in un testo devo scindere il luogo dall’ani­ma. E allora inizio a scrivere del luogo senz’anima che è Locarno.

 

C’è chi dice che il nome venga dal celtico, «Loc ar on», luogo sul lago – e il nome del lago, a sua volta, rimanda alla parola: Verbano. Quindi partiamo da lì. Facendo i preparativi, ho ritrovato gli appunti per una poesia e, giusto per smentire quanto ho appe­na scritto, inizio così; è sulla fine dei laghi in generale:

           

            Dopo le deviazioni delle rive

            le direzioni delle correnti

            l’alternarsi dei raggi per

            nuvole o montagne arriva

            il punto in cui il lago finisce

            sempre mozzo un moncherino

            una vasca non lavata le piante

            stagnanti, eppure vede tutta

            la sinuosità e l’ampiezza

            davanti a sé, eppure

            sembra sempre retrostante e vana

            e il fiume se c’è scorre al contrario.

 

O sull’inizio di questo lago in particolare. A cui va aggiunta una riserva naturale chiamata Bolle di Ma­gadino, alla foce del fiume Ticino, «una delle aree di traffico e sosta di volatili più frequentate durante i passaggi migratori» (ah sì? Fino alla prossima inizia­tiva popolare!); e un avvallamento nella collina sopra­stante, un microclima in cui crescono in modo ugual­mente spontaneo e rigoglioso varietà di piante semi-tropicali e di ville finto-tropicale.

 

 

C’è una stradina rossastra che avanza lungo il lago, c’è un punto preciso in cui si riuniscono i cigni e costeggiano la riva in gruppo, si può nuotare con loro facendo un po’ di attenzione. Se invece si procede a piedi, si passa davanti a un piccolo castello, la Ca’ di Ferro, caserma costruita nel 1560 dal colonnello ura­no Peter A Pro per i suoi mercenari e ora residenza di vacanza di proprietà privata.

 

Siamo a Minusio, uno dei vari comuni che compongono l’agglomerato, fisico ma non amministrativo (meglio moltiplicare le cancellerie che ve­dersi aumentare l’aliquota d’imposta), di Locarno. Appena sopra il lago c’è il bel quartiere di Rivapiana, San Quirico, vicoli e vecchie abitazioni dei pescatori. Appena sopra, qualcosa che assomiglia a un incubo di Mario Bros (un po’ tetro, un po’ tetris). Un molti­plicarsi di cubi abitativi che senza facciata sembra­no dare sul retro da ogni lato, le finestrelle devono essere ispirate alle inferriate della Ca’ di Ferro, il re­sto è puro estro del programma autocad che deve averli disegnati senza l’aiuto di un umano.

 

Uno di questi scatoloni di imballaggio di per­sone è spuntato dove c’era un’erboristeria, quella del parroco Künzle. Siamo nella strada di casa mia, sono passato infinite volte davanti all’erboristeria quando c’era e adesso, quando ci passo, giuro, sento l’odore acre, un tempo sgradevole e ora preoccupante (per­ché lo so che non c’è), degli infusi di erbe medicinali. Più o meno lì di fronte, un’altra costruzione che ha i giorni contati, ma il cui monito involontario rimar­rà con me: Aschwanden sa! – sa è l’equivalente sviz­zero di spa, ma non sapendolo mi chiedevo chi fosse questo Aschwanden che sapeva, come mi chiedevo chi fosse il signor Zimmer che possedeva così tante camere da tutte le parti, Camere Zimmer, Camere Zimmer, Camere Zimmer…

 

Se ora, per un motivo o per l’altro, si alzano gli occhi al cielo, a nord-est si vede la vetta più perfetta della regione, il Pizzo Vogorno, che sovrasta il lago omonimo e la grande diga anni sessanta da cui si è lanciato James Bond, anche lui non ha usato il tele­fono amico piazzato lì, timido tentativo di prevenire i frequenti suicidi. È un lago artificiale che blocca il corso della Verzasca, fiume che dà il nome a que­sta valle dura, erta e pietrosa, ha levigato le sue rocce in forme sinuose e insidiose, ha un’acqua trasparente tra il verde e il turchese, se si aprono gli occhi sott’ac­qua li punge il gelo quanto la bellezza. Quando il lago Vogorno è basso, anche dal pizzo si intravedo­no i ruderi di Benitt, frazione sommersa di Mergo­scia, da cui viene la mia famiglia paterna. Lì la mia trisnonna ha partorito da sola il suo primogenito, durante le doglie è uscita a raccogliere alcune erbe e le ha fatte bollire in un pentolino per non morire di fame. Questo era il rapporto con la natura lì, non tanto tempo fa. Altri testimoni, le cascine costruite su spuntoni impervi, perché prossimi a qualche me­tro di erba in cui far pascolare le capre. Un rapporto che neanche la traversata di un oceano intaccava re­almente: nelle lettere dei molti emigrati in Australia e in America le preoccupazioni per la salute delle be­stie non sono inferiori a quelle per i familiari, perché la dipendenza è fragile e totale.

 

 

E Locarno? Be’ è lì sotto: dal Vogorno si intra­vede il delta del fiume Maggia, dove si trova la “zona nuova” della città. Invece, appena oltre, si vedono perfettamente il Pizzo Leone e la Corona dei Pinci, una cresta lunga e stretta, ideale per serene gite pano­ramiche perché situata alla distanza giusta per gode­re del paesaggio senza soffrire del suo danno. Ma non vogliamo rimanere nel diniego, quindi scendiamo dalla Corona verso il Monte Verità. Come il concetto che gli dà il nome (mentre in genere le vette sono no­minate in onore di una birra), da un lato è manifesto e dall’altro ci vorrebbero troppe parole per spiegarlo. Alcune: Jung, Bauhaus, balabiótt, Ball, Le mammelle della verità, Remarque, celti, Hesse. Continuiamo la discesa, ad Ascona c’è Casa Serodine, tre tele di Gio­vanni Serodine nella chiesa dei santi Pietro e Paolo, e il lago, con un’ampiezza e una luce diverse da prima.

 

Non abbiamo tanta voglia di riattraversare le carinerie turistiche del borgo, allora per andare a Locarno prendiamo una barchetta a motore. Se fosse a remi, ci dirigeremmo piuttosto verso le isole, ver­so Brissago e, dopo aver osservato sorpresi le ville si­gnorili sul lungolago, rifaremmo al contrario il per­corso di Hemingway in Addio alle armi fino a Stresa. Invece il motore ci porta a Locarno e ascoltiamo la delazione silenziosa, disillusa della vegetazione: solo dopo il golf, lungo l’estremità del delta inabitato, fini­scono le palme i roseti e le buganvillee, e troviamo il groviglio originario di salici piangenti e non che cre­scono e scendono nell’acqua. Passiamo il Parco della Pace con le sculture di Arp, il Bosco Isolino, in qual­che modo attracchiamo al Debarcadero e, a seconda della nostra fortuna, attraversiamo una distesa di: bancarelle che vendono robe di hellokitty, sabbia per il beach-volley da strada, sfavillare delle carrozzerie di qualche esposizione di mezzi di locomozione (auto nuove auto d’epoca auto da rally – che il rally lo fan­no in piazza – moto harleydavidson fuoribordo ecc.), anorak con o senza turista dentro.

È indubbio che sia in atto un deterioramento generale, dovuto a politiche miopi e in preda a qual­che strano panico. Ma forse non sta tutto lì, forse c’è qualcosa di intrinseco, immanente. Penso per esem­pio a Joyce, che nel 1917 (!) ha trascorso tre mesi a Locarno, e ha commentato: pensavo di poter vivere ovunque, nel mondo, purché potessi scrivere; dopo qualche settimana qui mi sono reso conto che non è vero. Gli hanno anche rubato il gatto – ma scrivere ha scritto, ha terminato la Telemachia, e pare che si sia pure innamorato, anche se non di un’indigena. Un altro esempio, trovato in una guida inglese del Set­tecento, descriveva Locarno come un postaccio in­fame, raggiunto attraversando una palude infestata, abitato da gente inospitale e violenta. (L’unico posto peggiore, aggiungeva, è la Valle Verzasca, dove per un più o per un meno i bruti sfoderano il faucett e minac­ciano di uccidervi).

 

 

Ma forse lo snaturamento sta proprio nel cerone spalmato sopra l’asprezza e la relativa vio­lenza congenite... Il cerone del benessere e le sue propaggini speculative. Perché il suo meglio Locarno lo dà nella contestazione. Niente di che, ma comun­que indice di qualche cosa. Nel ’68 gli studenti hanno occupato la sala del festival del film. Fino a qualche anno fa, in tempi già meno politici, spuntavano pun­tualmente locali illegali, su un cofano di una macchi­na o in scantinati appartamenti catapecchie.

Ora il festival del film, pur rimanendo il mo­mento più elettrizzante della vita locarnese, ha qual­cosa di edulcorato, e di ipertrofico e costipato al con­tempo, tanto nella programmazione quanto in quel che gli sta attorno. Nel 2014 sono stati chiusi la can­tina Canetti e il centro culturale la rada, posti in cui la gente del luogo creava le sue consuetudini, perpe­tuava le sue velleità, inventava il nuovo tormentone o tic condiviso, si accettava e definiva vicendevolmente. In compenso, dall’alto cala qualche Grande Evento deciso a tavolino. Ogni tanto la popolazione salva un bell’edificio, forse anche il Grand Hotel. Nella Piaz­za Grande, se badate al piccolo, tra la moltitudine di ciottoli locali incapperete in sassi immigrati, che un signore si è fatto portare da lontano e ha posato di notte, di nascosto, dove i sassi mancavano. Gesto che mi fa pensare a una poesia di Zbigniew Herbert, il ciotto­lo (qui nella traduzione di Pietro Marchesani):

 

            il suo ardore e la sua freddezza

            sono giusti e pieni di dignità

 

            provo un grande rimorso

            quando lo tengo nel palmo

            e un falso calore ne pervade

            il nobile corpo

 

            i ciottoli non si lasciano addomesticare

            fino alla fine ci guarderanno

            con occhio calmo e molto chiaro

 

E ecco che nel ciottolo di questa poesia, posato in questo contesto, ritrovo Locarno, sicuramente per­vasa da un falso calore, forse mai addomesticata fino in fondo. Il ciottolo, che è roccia della rupe, lavorata dalla corrente dei fiumi, levigata dal rollio del lago. Ha qualcosa di calmo, di molto chiaro – di calmo e cristallino, disarmato, illeso... (E il santuario di Lo­carno si chiama Madonna del Sasso).

 

O sto fissando il sasso con la massima attenzio­ne per non vedere il resto? Che coincidenza, che me lo chiediate. Mi viene in mente Francis Ponge: «Cosa fa un uomo sull’orlo del precipizio, preso da vertigi­ne? Istintivamente, fissa quel che gli sta più vicino [...] Fissiamo il sasso con la massima attenzione per non vedere il resto. Ma può succedere che il sasso si spa­lanchi a sua volta, e a sua volta diventi il precipizio».

 

Si può scindere il luogo dall’anima, ma non l’a­nima dal luogo.

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