Milano Filmmaker 2016 / L'Affaire Étaix

2 Dicembre 2016

Pierre Étaix è morto a Parigi lo scorso 14 ottobre, poco più di un mese prima del suo ottantottesimo compleanno (era nato a Roanne il 23 novembre 1928). È uscito di scena con discrezione, senza troppi clamori, com'era nel suo stile. Pochi giorni fa, la 36ma edizione del Festival Filmmaker di Milano gli ha reso un fulmineo (ma sentito) omaggio. Grazie alla caparbietà del curatore Giulio Sangiorgio, autentico rabdomante del cinema del passato, abbiamo potuto vedere su grande schermo Pays de Cocagne, l'ultimo lavoro cinematografico di Étaix, uscito nel 1971 e – a quanto pare – mai distribuito in Italia. È singolare che un festival dedicato prevalentemente al cinema di non-fiction abbia inserito in programma un tributo a un comico – per quanto alle prese, per la prima e unica volta nella sua carriera, con il documentario. Tuttavia, con Étaix le singolarità sono parecchie, come vedremo.

 

Non eravamo in molti, in sala, ma d'altra parte Étaix è sempre stato un artista per “felici pochi”. Anzi, era il primo a scherzarci su. «Chi è Pierre Étaix?» è la domanda che risuona nelle ultime sequenze di Pays de Cocagne. Fioccano i pareri: «Molto leggero, umano, tenero», «Ironico, sottile, leggero»; ad alcuni sembra un po' troppo infantile, per altri è un po' troppo raffinato; e c'è anche chi candidamente confessa di non sapere chi sia.

 

Pierre Étaix nel 2015. 

 

Fermiamoci allora un momento a spiegare chi fosse questo Pierre Étaix. Compito non facile. Da una parte, ci si trova di fronte l'epigono dichiarato di una tradizione ben precisa: quella che parte dalla clownerie, attraversa il teatro leggero e approda infine sul grande schermo sotto forma di slapstick comedy (quella che i francesi chiamano burlesque). Spirito eclettico, Étaix compie la trafila in entrambi i sensi. Negli anni Settanta, abbandonato il cinema, rivolgerà le sue attenzioni alla pista del circo, fondando insieme alla moglie Annie Fratellini, discendente della celebre famiglia di circensi, l'École Nationale du Cirque. Descritto così, Étaix ha tutta l'aria di essere un frutto maturato fuori stagione – o, come ha scritto Paolo Cherchi Usai, «un talento nato [...] forse nel posto giusto ma certamente nel momento sbagliato, come un albero che muore di siccità dopo aver promesso grandi fronde su un fertile terreno». A ben guardare, però, la situazione è meno scontata di quanto possa sembrare.

 

Dall'altra parte, infatti, abbiamo un artista perfettamente inserito nel proprio tempo. Come illustratore, Étaix collabora alla novellizzazione del film Le vancanze di Monsieur Hulot (1953) di Jacques Tati; subito dopo, è lo stesso regista a cooptarlo come assistente per il film Mon Oncle (1958). Purtroppo, il sodalizio con Tati, che Étaix riconoscerà sempre come proprio mentore, si interrompe bruscamente nel momento in cui egli decide di passare alla regia. Prima però, il Nostro fa in tempo a prestare la propria consulenza a Robert Bresson per i “giochi mimici” dei borseggiatori di Pickpocket (1959). Da questo momento in poi, per tutti gli anni Sessanta, l'unico partner creativo di Étaix sarà il grande Jean-Claude Carrière, che qualche anno più tardi diventerà lo sceneggiatore principe di Bunuel e di altri auteurs del cinema europeo. 1961-1971: in soli dieci anni, con tre cortometraggi (uno dei quali, Joyeux anniversaire, premiato con l'Oscar) e cinque lungometraggi all'attivo, Étaix partecipa al rinnovamento del linguaggio cinematografico portato avanti dalle nouvelles vagues di mezzo mondo. La sua posizione può apparire marginale, ma i colleghi registi non tardano ad accorgersi di lui: e se Federico Fellini lo convoca come “cultore della materia” ne I clowns (1970), Jerry Lewis, suo grande amico, lo vuole al proprio fianco nello sfortunato – e tutt'ora invisibile – The Day The Clown Cried (1972).

 

Étaix con Jerry Lewis sul set di “The Day The Clown Cried”. 

 

Ecco, “sfortuna” e “invisibilità” sono parole che ritornano spesso quando si parla di Étaix. L'invisibilità, purtroppo, è facilmente spiegabile: una lunga controversia legale con i distributori ha di fatto bloccato la riedizione dei suoi film sino al 2010, quando finalmente si è potuto rivederli, debitamente restaurati, in sala e su dvd. Quanto alla sua sfortuna, possiamo solo fare congetture. Perché, nonostante le sue indubbie qualità di regista e interprete, Étaix non ha mai raggiunto un'autentica popolarità né presso il grande pubblico né fra i cinefili? 

 

Qualcuno potrebbe dire che Étaix non possedeva l'autorevolezza necessaria per far ridere. Gli mancava, cioè, quella misteriosa qualità che, giusto per fare due esempi, permetteva a Keaton di imporsi agli spettatori perfino voltando le spalle alla macchina da presa e a Tati di farsi notare con un movimento appena abbozzato anche nell'inquadratura più affollata. È come se Étaix, con la sua fisicità esile ma nervosa, lo sguardo lievemente malinconico e il sorriso diastematico, risultasse una figura troppo “volatile” per imprimere la propria presenza sul fotogramma. Di contro all'evanescenza dell'Étaix-interprete, abbiamo la meticolosità “laboratoriale” con cui l'Étaix-regista mette a punto i propri meccanismi comici. Forse è proprio questo senso di costruzione perfettamente calibrata, ai limiti dell'affettazione, che trapela dai suoi film, unito alla dimensione metadiscorsiva delle sue opere, colme di omaggi affettuosi e di citazioni dai suoi maestri, il secondo motivo della mancata affermazione di Étaix fra gli spettatori. Troppo cervello e poco cuore? È lui stesso a raccontare come durante la scrittura di Mon Oncle, dopo aver trascorso diverse ore intorno all'elaborazione di una gag particolarmente difficile, Tati, in preda all'esasperazione, avesse esclamato: «Monsieur Étaix, lei pensa troppo!».

 

 

Infine, è curioso notare come neanche il fallimento di Pays de Cocagne gli sia valso, perlomeno in ambito cinefilo, le stimmate del visionario rovinato dal troppo estro. Eppure si tratta di un progetto non meno temerario del coevo Playtime di Tati – un caso da manuale di sconfitta poi rovesciatasi in gloria postuma. Entrambi i film sembrano perseguire lo stesso progetto (utopico?) di una democratizzazione del comico: «La comicità esiste già fuori di noi», spiegava lo stesso Tati, «il problema è saperla cogliere. Credo che osservando il mondo che ci sta intorno si possano trovare centinaia di personaggi comici. Le occasioni sono infinite». Étaix la pensa allo stesso modo, e, al momento dell'uscita, Pays de Cocagne viene presentato appunto come il primo film comico senza personaggi, né regista, né sceneggiatura. Tuttavia, laddove Tati raggiunge il proprio obiettivo ricostruendo ex novo una metropoli più vera del vero, Étaix lavora sulla realtà nuda e cruda dei francesi in villeggiatura; allo spettacolare 70mm del suo maestro oppone un più modesto 16mm; e alla ricerca formale di Playtime, che si rifà all'autarchia primitiva delle vedute Lumière, risponde con un linguaggio ricalcato sui filmini vacanzieri, i documentari educativi e più in generale sui modi in cui la cultura piccolo-borghese si autorappresenta. 

 

Lo sguardo telescopico di Tati cerca di abbracciare il mondo intero, quello microscopico di Étaix, la Francia profonda. Nel prologo didattico/didascalico del film, il regista, semisommerso dai quarantamila metri di pellicola impressionata, risponde alle domande di un giornalista. «Pays de Cocagne: Paese immaginario?». «Affatto», risponde Étaix. «Sulla Francia e i francesi». Nato come progetto su commissione (una rete televisiva aveva ingaggiato il regista per seguire l'Europe 1 Radio Tour, una specie di Cantagiro francese), il film costò a Étaix oltre tre mesi di riprese e altri sette di montaggio. Il risultato, più che rifarsi a Tati, sembra anticipare Ciprì e Maresco, se non altro per la radicalità di uno sguardo che non arretra di fronte alle sgradevolezze del mondo, anzi, sembra quasi cercarle. E qui di sgradevolezza ce n'è parecchia: cantanti stonati, dettagli anatomici in bella vista (pance, piedi, chiappe, dita nel naso), bambini in lacrime ridicolmente vestiti, giochi disgustosi da villaggio vacanze. Il tutto accompagnato dal “basso continuo” delle voci delle persone interpellate da Étaix sugli argomenti più disparati – i condizionamenti della pubblicità, la violenza, l'impegno politico, la sessualità, l'emancipazione della donna, persino lo sbarco sulla Luna (siamo alla fine degli anni Sessanta). La “pancia” del Paese, diremmo oggi, che prende la parola e dà la stura alle chiacchiere.

 

 

«Le vacanze di Monsieur Hulot si trasformano nel Weekend di Godard», ha scritto il critico David Cairns, mentre Cherchi Usai lo definisce «un disperato gesto di terrorismo audiovisivo, una bomba scagliata con il cinema e contro il cinema» e parla di «galleria lombrosiana di squallori, brutture e altre piccole aberrazioni della civiltà moderna», di «torva visione del mondo», che può sorprendere da parte di un artista come Étaix. D'altronde, non bisognerebbe dimenticare che il comico possiede sempre una componente sadica e persino violenta: espressioni come “morire dal ridere” o “ridere a crepapelle” non suggeriscono niente? A un certo punto del film, una delle persone intervistate cita una frase attribuita a George Bernard Shaw: «L'umorismo è la buona educazione della disperazione». In Pays de Cocagne, evidentemente, Étaix è troppo disperato per permettersi anche le buone maniere.

 

In molti si sono domandati quale sia lo sfondo ideologico del film. Misantropia? Qualunquismo? Moralismo posticcio? Non credo di esagerare se definisco Pays de Cocagne un film flaubertiano – del Flaubert di Bouvard e Pécuchet, ovviamente. Un “gran sciocchezzaio”, il dizionario dei luoghi comuni aggiornato alla Francia dell'era Pompidou (la cui immagine a brandelli, sotto forma di poster elettorale, compare nel film fra i manifesti pubblicitari dei più svariati prodotti). In questo film estremo e senza pudori, Étaix ci lascia contemplare come in pochi altri casi la bêtise e il suo fascino repellente, davanti al quale persino l'intelligenza è ridotta al silenzio. Non è un caso, quindi, che Pays de Cocagne non si concluda con la parola “Fine”, ma con il dialogo fra Étaix e uno dei suoi intervistati: «Allora è tutto?», domanda il regista. «Sì, è tutto».

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