Il copyright del male, il copyright dei morti

20 Novembre 2015

Cosa sta accadendo intorno a noi? Qualcosa che nella sua radicalità estrae dal comune sentire le onde più profonde dell’ovvietà. Un’ovvietà che fa fatica ad applicarsi a tragedie, a terribili avvenimenti, ma che una volta trovato lo spiraglio è inarrestabile. Lo si vede nei commenti su quella fogna che è ormai diventata Facebook, lo si vede però anche nei discorsi, negli scambi di battute. È l’Occidente che viene fuori, mai come adesso, anche nelle più remote periferie dell’Impero. E che riafferma con forza di “sapere”. Quando centinaia di migliaia di messaggi in occasione dei fatti terribili di Parigi si concentrano sulle “colpe dell’Occidente”, quando ci si indigna che si notino i morti parigini ma non quelli di Beirut, tutto questo manifesta l’idea che la gestione del male mondiale è e deve essere ancora nostra. Ogni terrorista e ogni organizzazione terrorista è “chiaramente” pilotata dall’Occidente, ogni fatto luttuoso in Europa o negli Stati Uniti fa parte di una “strategia della tensione” di cui i terroristi sarebbero solo strumenti inconsapevoli. È la retorica del complotto, che è sempre vincente, perché non è mai dimostrabile e la sua indimostrabilità dimostra che c’è qualcosa di vero. Così fu per l’undici Settembre, così è in questi giorni. Chiaro che tutto è stato orchestrato da noi, dall’America, dall’Europa. Senza volere nulla togliere all’efferatezza dei governi americani ed europei, occorre però notare che questo atteggiamento è palesemente razzista: come se altre culture, altre popolazioni non avessero la capacità di fare il male e non solo di farlo, ma anche di teorizzarlo. L’idea che “gli arabi” non siano capaci di organizzare l’undici Settembre o i massacri a Parigi fa pensare a un monopolio del male tutto nostro. Gli altri sono dei deficienti manovrabili. C’è in questo atteggiamento lo stesso tipo di ragionamento che gli europei degli anni ‘40 facevano sul nazismo. In fin dei conti era efferato, erano i “cattivi” ma a questa cattiveria non veniva chiesto che tipo di ideologia aveva alle spalle. Oggi non domandarsi che tipo di ideologia sta dietro a Daesh o ad Al Qaeda significa cadere nella stessa trappola. Non si tratta di un Corano letto male e ad uso e consumo di strumentalizzatori, no, è una vera concreta possibilità di leggerlo anche in quel modo. Chi cita le frasi innocentiste del Corano cita un libro che è pieno di tutto e del suo contrario, come lo sono la Bibbia e in genere i libri sacri. Ma l’Islam è anche condanna dell’infedele, sua proscrizione dalla società. Per l’Islam, come per tutte le religioni monoteiste, l’infedele è oggettivamente un nemico ed è un nemico colpevole. Fino a quando non si converte o non sparisce. Le religioni monoteiste hanno sempre prodotto delle ideologie di conquista del mondo, delle ideologie militari. Finalmente abbiamo in Italia la traduzione di Sayyid Qutb, il fondatore egiziano dei “Fratelli musulmani” (Davide Tacchini, Radicalismo islamico, con il diario del soggiorno americano di Sayyid Qutb, ObarraO ed.) e nella stessa collana un libro chiave per capire cosa sta accadendo oggi nell’Islam, Apocalisse nell’Islam, di Jean Pierre Filiou. Entrambi i testi raccontano la radicalizzazione sistematica dell’Islam negli ultimi cento anni e come quello a cui oggi assistiamo sia coerente con la formazione del Wahabismo e del Salafismo nella penisola araba.

 

Il libro sull’Apocalisse racconta qualcosa di cui da noi si tace, la guerra continua tra fazioni islamiche per prendersi la Mecca, le stragi che vi avvengono continuamente a seguito di gruppi armati che occupano lo spazio sacro della Qaaba. Quello a cui stiamo assistendo non è un terrorismo isolato, ma le conseguenze di una ideologia e di una costruzione identitaria ben precisa. In un mondo islamico in cui dirsi musulmano non basta: oggi ci sono cento maniere diverse di esserlo, ognuna contrapposta alle altre. Oggi chi dalla parte dell’Islam si dichiara “fuori”, come sta accadendo, “Not in my name”, chi sostiene che “l’Islam non è questo”, “non può essere questo”, fa il gioco dell’ideologia del Daesh. Come se i cristiani si dichiarassero non responsabili delle crociate e della devastazione delle popolazioni indigene dell’America Latina. La differenza è che il cristianesimo oggi è stato “ridimensionato” da una cosa che si chiama “rivoluzione francese” e nulla di simile è avvenuto nell’Islam. L’Ebraismo ha avuto Spinoza, il Cristianesimo ha subito una critica radicale all’esterno e all’interno, l’Islam non ha nulla di tutto ciò. Fondamentalmente non c’è alcuna autorità religiosa o intellettuale che oggi nell’Islam sia davvero capace di condannare Daesh, di condannarlo nell’ideologia e nella lettura del Corano. Si può fare una fatwa agli infedeli come Salman Rushdie (a proposito, avete visto il messaggio di Cat Stevens, diventato musulmano che si rammarica dei morti di Parigi, lui che aveva sostenuto che era giusto accoppare Rushdie?) non si può fare una fatwa al Daesh. Non lo fa la “scuola ufficiale del Cairo” e non lo fanno buona parte degli Imam nel mondo. Ma anche se lo facessero avrebbero ben poca importanza, perché l’Islam non ha una ortodossia, nonostante che si ripeta continuamente che il Corano non è interpretabile. L’unica cosa che conta è “l’ortoprassi”, cioè il potere maggiore o minore di una parte o di una setta. Quella a cui stiamo assistendo è la guerra mondiale, definitiva tra Sciiti e Sunniti, ma anche tra Salafiti, Fratelli Musulmani, Wahabiti, Alawiti e le mille correnti Sufi. Oggi nessuno ha il coraggio di dire che dietro Erdogan ci stanno una buona parte delle “tekke” Sufi che vedono molto male qualunque tipo di secolarizzazione della Turchia.

 

Il vero problema dell’Islam oggi è il fatto che la secolarizzazione che sta comunque avanzando in quel mondo e che finirà per vincere (su questo non c’è dubbio, la violenza islamica porta al rifiuto dell’Islam da parte di chi crede che esso sia un messaggio universale) non ha una visibilità sufficiente. Un film bellissimo di un regista iracheno, Abbas Fahdel, Homeland, Iraq Anno Zero, racconta dall’interno quello che sta accadendo in Iraq. Fahdel è un regista nato a Bagdad che vive oggi a Parigi, ma la sua famiglia, una bella, vivace famiglia di classe media di Baghdad ha sempre vissuto in città. Fahdel racconta cosa significa vivere la caduta dell’atroce dittatore Saddam, l’arrivo degli americani, la distruzione della città e della società da parte della stupidità americana e della crudeltà delle bande armate contrapposte, cosa significa essere stretti tra vendette sciite e sunnite e cosa significa vedere uccisi i propri cari. Oggi è proprio il suo film a raccontare che la gente in Iraq non ne può più di americani, sunniti, sciiti, curdi e compagnia bella e vuole solo una società secolarizzata e libera dai fantasmi delle religioni e delle appartenenze.

 

Oggi è questo tipo di società che può dare una speranza al mondo islamico, ma sarebbe urgente che dal suo interno venissero voci di autocritica radicale, di critica delle ideologie, di negazione di valore alle correnti wahabite e salafite – invece abbiamo la bandiera francese sul grattacielo di Dubai, cioè uno dei luoghi in cui queste ideologie vengono sostenute. La cosa tragica è proprio l’assenza di intelligenza, di riflessione, di autorialità, di intellettualità in questo mondo che oggi non può soltanto “tirarsi fuori”. Quando dico alle mie amiche indonesiane o malesi o tunisine che andare in giro velate è un segno di “separazione” dal resto dell’umanità e quindi proprio il segno di un non universalismo dell’Islam, oltre ad essere un segno di sottomissione al tipico maschio islamico, mi guardano molto perplesse. Io so molto bene però che più va avanti la radicalizzazione dell’Islam e meno esse si identificheranno con i suoi attributi esteriori. Il punto è che nel frattempo dovremo assistere alla guerra mondiale – che non è quella dichiarata da Hollande – ma quella all’interno dell’Islam che farà ancora centinaia di migliaia di vittime al suo interno e al suo esterno.

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