Arte e fulmini e saette!

21 Dicembre 2017

Probabilmente i fulmini più famosi per chi si occupa di arte contemporanea sono quelli di The Lightning Field (1977) di Walter De Maria, l’immensa opera di land art realizzata sfruttando le particolari caratteristiche meteorologiche di un altopiano nel New Messico, in cui l’artista ha installato centinaia di pali acuminati che attiravano appunto i fulmini. Le fotografie che ne sono derivate sono davvero spettacolari.

 

Mater.


In visita alla mostra di Ahmed Mater alla Galleria Continua di San Gimignano cerco di raccogliere quelli che mi vengono in mente. Un altro è quello sulla copertina dell’ultimo numero de “La Révolution Surréaliste” (n. 12, dicembre 1929), organo ufficiale del movimento. Fu un numero alquanto speciale, sia perché consapevolmente conclusivo di un percorso, sia perché per l’occasione ospitava il Secondo Manifesto del Surrealismo con la svolta sintetizzata nella clamorosa frase: “Chiedo l’occultamento profondo, effettivo del Surrealismo” e la foto dei surrealisti ad occhi chiudi intorno al nudo di donna dipinto da Magritte. La foto del fulmine faceva da illustrazione alla domanda “Che tipo di speranza riponete nell’amore?”, scritta ai suoi lati. Dell’amore come nuova molla del movimento e dell’uomo era infatti questione in quella svolta. Che il fulmine desse figura all’amore, come si dice nella frase “colpo di fulmine”, e insieme all’occultamento non era cosa scontata.

 

Sinigaglia, Dominic Arkansas.


Poi mi sono ricordato di un acquarello di Paul Klee intitolato Fulmine fisiognomico (1927), commentato da Victor Stoichita nel suo importante libro sull’ombra (Breve storia dell’ombra). Klee vi raffigura un volto attraversato da una linea a zigzag, un fulmine nero per l’occasione, che ne disegna internamente il profilo. Scrive Stoichita: “La forza dell’immagine di Klee consiste nel fatto che formalizza o cristallizza, in modo estremamente concentrato, tutta una procedura di simbolizzazione di una crepa in seno alla rappresentazione del volto umano”. Questa idea di cristallizzazione, come vedremo, tornerà in Ahmed Mater.

 

Tralasciando una ricerca diligente e storica sull’iconografia del fulmine, l’altro automatico ricordo è caduto sui famosi fulmini che cadono ripetutamente su un personaggio del film Il curioso caso di Benjamin Button, le scene del quale film l’artista David Fincher ha isolato e rimontato facendola diventare una propria opera (stesso titolo, 2008). Ricordo che mi aveva molto colpito (ops!) quando la vidi in una mostra al Palais de Tokyo, durante la prima direzione del quale, a dire la verità, per l’interessamento importante che si aveva per le questioni scientifiche intrecciate a quelle estetiche, si vedevano abbastanza spesso fulmini. I più scenografici sono stati certamente quelli di quel pazzo di Peter Terren, un australiano che si diverte a lanciare scariche elettriche multiformi su oggetti e persone, quasi fossero dei puri addobbi decorativi. Qui energia per comporre, per giocare, là fulmine come destino-fato, caso-coincidenza, nel senso anche di illuminazione.

 

Mater.


Ebbene la copertina dell’opuscolo della mostra di Ahmed Mater presenta appunto una bella immagine rossastra di un fulmine che cade in un piatto paesaggio desertico. Si tratta qui di un fulmine altrettanto se non ancora più speciale di quelli appena ricordati: pare infatti che in determinate circostanze sia climatiche che, in particolare, di composizione della sabbia del deserto, la caduta di fulmini fonda la sabbia in un rametto di silicio che prende la forma contorta del fulmine stesso. Il centro della mostra, nella grande sala che era la platea dell’ex cinema che è la Galleria Continua, è un’installazione di bidoni di sabbia da cui spuntano tali forme, come rami di alberi impossibili, o fossili inquietanti. Fulmini creatori di silicio dunque, l’elemento comune alla vita organica e alla tecnologia avanzata, che ha cambiato le vicissitudini di nazioni e popoli, le geopolitiche, come si usa dire, del pianeta. Uno degli elementi che oggi si studiano nella visione globale delle cose umane che viene messa all’insegna del cosiddetto “antropocene” e che da qualche tempo struttura le ricerche anche di molti artisti e studiosi (vedi per esempio Hearther Davis e Etienne Turpin [a cura di], Art in the Anthropocene: Encounters Aming Aesthetics, Politics, Environments and Epistemologies, Open Humanities Press, London 2015, o, con attenzione particolare data proprio al ruolo delle sostanze, Jussi Parikka, A Slow, Contemporary Violence: Damaged Environments of Technological Culture, Sternberg Press, Berlin 2016).

 

Sinigaglia, Microwave city, 2014.


Il tema centrale dell’esposizione di Mater è infatti il rapporto geopolitico tra risorse naturali, religione, economia, società, potere. Il territorio in causa è principalmente quello saudita, che è quello originario dell’artista, ma non solo. Il modello di struttura di questo rapporto è individuato nel mitocondrio, che dà il titolo all’esposizione: Mithocondria: Powerhouses. I mitocondri, organuli presenti in tutte le celle animali, vengono descritti come “centrali energetiche biologiche, invisibili se non appositamente colorati, che rappresentano il luogo e l’unità di elaborazione: forniscono, convertono e conservano l’energia all’interno del sistema chiuso di ogni cellula”. Allo stesso modo per Mater funzionano le “powerhouses”, le centrali di energia e di potere invisibili che governano il XXI secolo. E il fulmine è dunque la carica energetica scatenante la formazione del “mitocondrio” – e insieme probabilmente e soprattutto la metafora dello scatenamento di quell’altro mitocondrio alternativo che si propone di essere l’arte.

 

Mater.


La mostra di Mater è complessa, strutturata in tre capitoli, con materiali che vanno da quelli più documentari, da fotografie – impressionanti quelle della costruzione della nuova Mecca – a video, a quelli più liberamente artistici – forse per la verità un po’ più forzati, per quanto (o forse proprio perché volutamente) d’effetto: una calamita cubica al centro di limatura che vi si dispone come i fedeli e la stessa struttura della città intorno alla Ka’ba; una rielaborazione grafica in cui la forma di un distributore di benzina si trasforma nella lastra ai raggi X di un uomo che si punta la pistola alla testa… Ma l’insieme è di grande interesse e funziona su più piani, come appunto mira a fare. “Religione > petrolio > denaro > potere > fede > controllo > nuove città > economia redditiera > città economiche” è la formula che guida l’esposizione, la quale dall’Arabia Saudita si amplia per rimandi ad altri luoghi similari, come i campi petroliferi del Dakota del Nord, su cui sono incentrati dei video molto efficaci, dall’impostazione documentaria ma tagliati come delle opere autonome concluse in sé stesse.

 

 

 

 Naturalmente l’argomento è ampio e complesso, così attuale e ricco di spunti che lascia spazio a molteplici analisi e commenti, ma io vorrei approfittarne per sottoporre un altro pensiero che non ho potuto trattenere durante la visita. Lo so che non dovrei scrivere di mostre che ho curato io stesso, ma spero si intenda qui la ragione per cui faccio un’eccezione. Il fatto è dunque che a San Gimignano c’ero per inaugurare una mostra di Alberto Sinigaglia intitolata Microwave City, ai Musei Civici, e il paragone era per me inevitabile. La “città a microonde” è una Las Vegas rivisitata dall’artista a partire da diversi nuclei tematici intrecciati. Quello centrale è niente meno che la bomba atomica, un super-fulmine, se così posso dire. Non tutti sanno in effetti che negli anni Cinquanta a Las Vegas si era creata una sorta di turismo parallelo di persone che vi andavano per assistere ai test nucleari che venivano effettuati nel deserto vicino. La parte più fascinosa dell’esposizione è allora composta delle fotografie di funghi atomici a cui l’artista ha cancellato il fusto trasformandoli in fascinose pittoresche nuvolette dai magnifici colori sospese nel cielo.

 

 

Le “microonde” sono prima di tutto queste della ricerca militare, la stessa da cui deriva anche la tecnologia dei nostri forni a microonde, per dirne una. Intorno a questo nucleo ruotano gli altri, sia quelli direttamente collegati, in particolare un ciclo di oggetti da collezione, tutti allusivi rimandanti alla bomba atomica, ai suoi materiali, ai suoi effetti, ai luoghi; sia altri più indiretti, che si rifanno ad altri caratteri della Las Vegas odierna. Tra questi i più evidenti sono la pornografia e la pubblicità, dentro di esse il rapporto immagine-parola e i rimandi alla forma della città e altro ancora. Qui emerge anche l’aspetto metalinguistico dell’operazione, nel senso della riflessione sul medium: da un lato la città si fa più “immaginaria”, elaborata come un mondo parallelo – così le panoramiche del complesso urbano sono stampate in positivo per dare alle immagini un aspetto tra l’onirico e il fantastico, come “cotte a microonde”, dice l’artista –, dall’altro le scritte estrapolate e rifotografate finiscono con il riferirsi al medium fotografico. La più esplicita è la scritta “Actual photo” al centro di un dettaglio di immagine sgranata: viene da uno dei quei biglietti che vengono distribuiti ad ogni angolo di strada che evidenzia il paradosso della nuova pornografia basato sull’idea che la fotografia è tanto più “actual”, reale, quanto più sfocata e imprecisa, perché questo è segno di presa diretta, còlta al volo, ad insaputa del fotografato.

Ora, non voglio dilungarmi molto, anche la complessità del lavoro di Sinigaglia mi pare sufficientemente dimostrata. Lo spunto del confronto tra le due mostre è in realtà per lanciare una domanda semplice e che il lettore avrà sicuramente già indovinato: perché l’interesse internazionale premia così sproporzionatamente la formula Mater rispetto a quella Sinigaglia?

 

De Maria.


Perché è più diretta e didascalica, meno ermetica e sospesa? Ma non è anche meno “estetica”? O conta appunto l’opposizione all’estetica come chiave antimodernista eccetera? E la “poetica”? Le domande in realtà si moltiplicano. Spero sia perché si tocca un punto nevralgico appunto del dibattito estetico – fulmini e saette, non rivendicazioni di alcun tipo. Questa la scusante per quel che riguarda il mio strappo alla regola. E un ultimo spunto di riflessione: quella di Sinigaglia è una modalità più tipicamente italiana, a differenza di quella di Mater più “international”?

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