La Bosnia sul lastrico alza la testa

19 Febbraio 2014

A Tuzla e Sarajevo, a Mostar e Bihać, a Banja Luka e Zenica il sommovimento continua, sugli edifici e sui cartelli stradali sono rimasti gli slogan delle manifestazioni dei giorni scorsi: Ladri, Dimissioni, Se continuate così ci sarà la rivoluzione, Vecchi ascoltate i giovani, A chi giovano le banche, i popoli, le chiese e i partiti, I vecchi ascoltino i giovani si sveglino, Ho il diritto di camminare per strada senza avere paura della violenza,

 

Non voglio andare via da qui, non voglio chiedere asilo all’estero, voglio che la mia gente viva meglio, I dimostranti non sono hooligan. I cittadini della Bosnia-Erzegovina senza nome, né nazionalità, né partito, mandano i politici tutti a farsi fottere in tre lingue, e ridiventano un popolo che chiede pane e dignità.

 

Palazzo della presidenza incendiato a Sarajevo, dove è andato in fumo un importante archivio storico, sedi dei partiti croati e musulmani distrutti un po’ dappertutto, sindacalisti picchiati, l’albergo Holiday (quando si chiamava Inn ospitava gli inviati stranieri che seguivano il conflitto) chiuso per lo sciopero dei dipendenti che non ricevono un marco bosniaco, la moneta agganciata all’euro, da mesi. Le manifestazioni pacifiche hanno avuto momenti violenti – non ho mai visto giovani così rabbiosi, scrivono commentatori e giornalisti che seguono da più decenni le vicende della regione. Ci sono state dimissioni, promesse di elezioni anticipate, ma non è detto che basti a chi, affamato e senza prospettive, chiede un governo tecnico, l’annullamento delle privatizzazioni e uguaglianza salariale.

 

Per la prima volta dagli Accordi di Dayton il marketing etnopolitico è stato messo in discussione. A Parigi, 14 dicembre 1995, Milošević, Tudjman e Izetbegović firmarono all’Eliseo un trattato di pace fortissimamente voluto dal vice segretario di stato americano Holbrooke. La Bosnia-Erzegovina è rimasta uno stato unitario, diviso però in due entità: la Federazione croato-musulmana (51% del territorio) e la Repubblica serba (49% del territorio). La Presidenza collegiale ricalca il modello della vecchia Jugoslavia del dopo Tito, vi siedono un serbo, un croato e un musulmano, che a turno si alternano nella carica di presidente.

 

Dopo quasi vent’anni, la “Bosnia bruxelloise” è in parte ancora sotto protettorato internazionale, l’immane fiume di aiuti non ha favorito un’economia indipendente, ma ha creato una cleptocrazia di 14 premier, 147 ministri, migliaia di impiegati amministrativi, autisti e segretarie il cui reddito è garantito da un articolo della costituzione.

 

E l’ultimo accordo con il Fmi non ha potuto risanare una situazione diffusa di povertà e miseria. La Bosnia ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile al mondo – 57,5% – e un tasso di natalità tra i più bassi al mondo. Gli effetti bellici hanno sconvolto la demografia – quasi centomila morti, due milioni di profughi, di cui solo uno è tornato. In Canada e in Australia, in Pakistan e in America: la diaspora bosniaca è dappertutto.

 

Il censimento del dopoguerra, appena terminato, rivela il calo della popolazione: dai 4 milioni e mezzo dell’ultimo censimento jugoslavo del 1991 ai 3.791.622 di oggi. La desertificazione riguarda soprattutto la campagna. Rata neće biti. La guerra non ci sarà (2008), il bellissimo documentario di Daniele Gaglianone, fa vedere valli e campi, frutteti e vigneti ridiventati boschi.

 

Le manifestazioni sono partite da Tuzla, cittadina industriale dove le fabbriche hanno funzionato anche durante la guerra, rimasta tollerante anche dopo la strage dei giovani del 25 maggio 1995 – i genitori hanno chiesto fossero seppelliti insieme e non secondo nazionalità. In questi giorni, a Tuzla, va in scena la democrazia dal basso, il plenum dei cittadini si riunisce ogni sera: studenti, professori, lavoratori del settore privato, quello che è rimasto del ceto medio, hanno due minuti ciascuno per fare una proposta. A Sarajevo, nella casa della gioventù, si tengono incontri simili; chi partecipa porta un nastro giallo “perché siamo tutti uguali”. Il giallo è il simbolo del sole, se riusciamo ad alzare la testa, sorgerà.

 

La protesta in Bosnia-Erzegovina fa ripartire la storia da dove il conflitto degli anni novanta del Novecento l’aveva fermata: alla disgregazione della Jugoslavia in chiave etnica. Ed è proprio questo che rende nervosi i politici di Belgrado e Zagabria, subito accorsi a rassicurare i tiranni locali, pronti ad agitare davanti alla società civile lo spauracchio di sempre: attenzione a manifestare perché il conflitto sociale potrebbe diventare nazionale…

 

Leitmotiv della storia jugoslava fin dalle origini, l’intreccio tra democrazia e questione nazionale aleggia sopra le manifestazioni di questi giorni.

 

Certo, tra chi protesta è forte la paura della violenza, l’ostilità nei confronti dei media dice quanto è profonda la sfiducia in ogni forma di sfera pubblica – il tam tam delle notizie sceglie facebook. E c’è chi già insinua che la rivolta sia pilotata da chi vorrebbe un unico stato a maggioranza musulmana e/o la secessione della Repubblica serba, dove le manifestazioni sono state più sporadiche e la propaganda ufficiale le liquida come antiserbe.

 

Chi protesta, e chi osserva la protesta, inciampa nella storia recente e remota a ogni passo. Le fabbriche-cattedrali svuotate richiamano l’archeologia industriale socialista trasformata durante la guerra in camerate di tortura, le miniere arrugginite di oggi evocano quelle divenute ieri discariche di cadaveri. Proprio in questi giorni Sarajevo ricorda i trent’anni delle Olimpiadi invernali – le gare di slalom, l’orgoglio di una moderna pista di bob si sono impresse nei ricordi di una generazione. Nel 1984 sul monte Trebević si sciava, da lì poi si è sparato sulla città, e la zona è diventata un enorme campo minato. Nei filmati sull’assedio le immagini delle Olimpiadi sono una ouverture in bianco e nero di quello che verrà.

 

Intanto è passato un secolo dall’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando che segna l’inizio della prima guerra mondiale. Poco prima di essere ucciso, entra nella biblioteca Biblioteca di Sarajevo – andata in fiamme il 25 agosto del 1992 dovrebbe riaprire proprio nel giugno di quest’anno. Gavrilo Princip sparò il 28 giugno, giorno di San Vito, una data che riesce a condensare la battaglia del Kosovo del 1389 e il discorso di Milošević al popolo serbo seicento anni dopo, la prima costituzione jugoslava del 1921 e la rottura tra Tito e Stalin del 1948.

 

Le vie di Sarajevo, ogni tanto qualche buca ricoperta di rosa che ricorda le granate, permettono di immaginare il mosaico della civiltà culturale bosniaca (Alice Parmeggiani Dri, Scritti sulla pietra. Voci e immagini dalla Bosnia ed Erzegovina fra medioevo ed età moderna, Forum 2005). Prima erano scritte doppie a caratteri latini e cirillici, oggi portano nomi islamizzati e sono intitolate ai combattenti. Anche se la chiesa cattolica, quella ortodossa e la sinagoga sono al loro posto, il richiamo alla preghiera del meuzzin fa un effetto un po’ surreale, come il gran numero di moschee, che anche nel tipo di architettura svelano il donatore arabo saudita.

 

Questa volta gli ebrei che non erano bersaglio hanno potuto salvare altri e andarsene per primi. La comunità ridottissima rivive nelle pagine di Isak Samokovlija, Samuel il facchino (a cura di Maria Rita Leto, Giuntina 2002). In città i morti sono stati 11.541 – una fila di sedie rosse, una per ciascuno, ha ricordato due anni fa il 6 aprile che nel 1945 aveva segnato la liberazione con l’arrivo dei partigiani e nel 1992 l’inizio dell’assedio. Il giorno prima per le strade di Sarajevo la folla urlava “Noi siamo indivisibili”.

 

Difficile un pronostico, molti i fattori, anche internazionali, che pesano sul futuro bosniaco. Una cosa però è certa, tra pochi mesi, ai mondiali di calcio in Brasile, la Bosnia, qualificata per la prima volta, tiferà unita.

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