Il gioco dell'arte di Agata / Alighiero Boetti, live

22 Dicembre 2016

Te ne accorgi subito, quando ti cambia l’idea di un artista. Il momento in cui ti si accende in testa. Magari perché ti ci imbatti nel momento esatto in cui – per una serie di coincidenze felici quanto non programmabili – puoi finalmente “vederlo”, quell’artista. A me è capitato qualche anno fa, per esempio, colla grande personale di Michelangelo Pistoletto, Da uno a molti. Come tutti conoscevo i Quadri specchianti, ne ammiravo l’agudeza intellettuale e l’eleganza magnificamente cool; Romy Golan mi aveva insegnato a riconoscervi il mondo cortese e crudele, così torinese, del primo Antonioni delle Amiche – omonimo altrettanto geniale. Ma quell’eleganza la trovavo pure frigida, se non proprio mortifera. Finché, quel giorno al MAXXI, mi si rivela il senso di gioco amicale, l’allusività sottile, l’umorismo imprevedibile che tanta parte, con tutta evidenza, erano del mondo di Pistoletto di quegli anni Sessanta. A un certo punto, da uno degli Specchi, mi trafigge una donna nuda e bellissima, di spalle, che si volta sorridente.

 

Mimma e Vettor Pisani, Maria e Michelangelo, «© Eredi Antonia Mulas.

 

Appartiene a Graziella Lonardi Buontempo, quel sorriso ineffabile; ma è l’Eterno Femminino – quintessenza dell’intelligenza e dell’ironia – a osservarmi, ben più a fondo di quanto abbia mai fatto una donna in carne e ossa. Chi l’avrebbe detto che potesse essere così erotica, quell’arte catalogata come “cerebrale”… Qualche tempo dopo, alla retrospettiva di Vettor Pisani al MADRE di Napoli, trovo una conferma nelle splendide fotografie realizzate da Elisabetta Catalano durante la lavorazione dell’opera più perturbante di Pisani, Lo Scorrevole, in cui una donna completamente nuda è legata da un collare-cappio a un cavo che scorre, appunto, in orizzontale. Mentre Pisani, tutto soddisfatto nel trench nero d’ordinanza, se ne sta accovacciato in un angolo come un coboldo satanico, Pistoletto si avvicina incerto al corpo luminoso della modella, solleva una mano, vorrebbe sfiorare la sua pelle… i suoi occhi, allagati di turbamento, sono il negativo perfetto – il contrappasso – di quello sguardo che lui aveva rubato a Graziella Lonardi. La donna che ha scelto l’amico e complice Pisani, per rimettere in scena la duchampiana Mariée mise a nu par ses célibataires che ossessiona entrambi, è sua moglie Maria.

 

Alighiero Boetti, I sei sensi e Aerei, 1974-1975.

 

La stessa vertigine da turning point mi è venuta leggendo Il gioco dell’arte. Con mio padre, Alighiero di Agata Boetti (Electa, pp. 288 a colori, € 24,90). O meglio, sprofondandoci dentro. Partito preso di Agata – la prima figlia di Anne Marie Sauzeau e di Alighiero Boetti –, è quello di raccontare l’opera paterna, smisurata e labirintica, non da un punto di vista analitico e intellettuale, come quasi tutti hanno fatto finora, bensì intimo e famigliare. Ma non si pensi a un cahier di ricordi meramente emotivi, allo stereotipo del “padre affettuoso dietro alla maschera dell’artista geniale”. Quello famigliare si rivela infatti, in queste coloratissime pagine, accesso tutt’altro che secondario al mondo di Boetti.

 

Giulio Paolini e Alighiero Boetti a contemporanea, parcheggio villa borghese, Roma, 1973-1974, ph Antonia Mulas (© Eredi Antonia Mulas).

 

E proprio quella del gioco, la sua dimensione privilegiata: si può immaginare sin dall’incontro con Anne Marie, in quella frigida e sensuale Torino anni Sessanta; ma che a partire dai tardi Settanta trova in Agata, appunto, la compagna privilegiata. Giochi accaniti, contraintes tanto più severe quanto più arbitrarie (fra i livres de chevet, gli Exercices de style di Queneau) – giochi serissimi, insomma, come possono esserlo solo quelli dei bambini intelligenti («Non mi leggeva libri per bambini. Non giocavamo a Monopoli»). Giochi enigmistici (come quelli risolti da Stefano Bartezzaghi in Scrittori giocatori, Einaudi 2010), ma anche iniziatici («le cose se non sono segrete si annacquano», recita una delle sue frasi-indovinello).

 

Come dice Jean-Christophe Amman, quella offerta da Agata è «una chiave di lettura allo stato grezzo»: capace di farci scoprire come, mai quanto in Boetti, «vita e arte siano intimamente legate. La vita è arte. L’arte è la vita». Quella del gioco infatti, ci mostra con naturalezza Agata, non era per Boetti una dimensione solo “intellettuale”: bensì quotidiana ed esistenziale. Non solo cosa mentale, la pittura, ma lessico famigliare: Agata bambina (come sua madre prima di lei) collabora al pensiero di suo padre; ci si specchia; lo sfida e lo rilancia. E lui s’inorgoglisce, quando la batte nel cimento: come farebbe un suo coetaneo.

 

Alighiero Boetti, Roma, ph Antonia Mulas (© Eredi Antonia Mulas).

 

Almeno per me, tutto questo rappresenta una rivoluzione copernicana: il rovesciamento diametrale dell’idea di un artista severamente concettuale, rigidamente catafratto in un cosmo autotelico, governato da simmetrie alfanumeriche che, sino ad oggi, mi avevano forcluso in un’ammirazione fredda e sussiegosa. Solo un altro testo conoscevo, su di lui, similmente personale: quello – scritto all’indomani della morte, nella primavera del ’94, di colui che in queste pagine si rivela essere stato il suo mentore – di un Marco Colapietro, a quell’altezza, non ancora Tommaso Pincio (ora in Scrissi d’arte, L’orma 2015). Il quale molto semplicemente, di lui, dice: «mi insegnò a guardare le cose in modo diverso o, per meglio dire, mi insegnò a vedere cose che fino ad allora erano sfuggite alla mia vista». È quanto fa, o dovrebbe fare, ogni vero artista. Ma è vero alla potenza, per così dire, riguardo a chi alla visione e ai suoi paradossi ha dedicato tanti lavori: al pari forse del solo Giulio Paolini, suo gemello rovesciato. Bellissima, nel libro, la foto di Antonia Mulas che ritrae le silhouettes dei due, al buio, di profilo uno di fronte all’altro. Così simile, per Agata, al doppio ritratto dei duchi di Montefeltro di Piero della Francesca che tanto affascinava Boetti: il quale era tanto ossessionato dal tema del doppio da firmarsi, da un certo momento in avanti (dal ’72, proprio, in cui nasce Agata), «Alighiero e Boetti». Questa identità di sintesi (nella quale l’aggiunta della congiunzione, tra l’altro, fa raggiungere il numero di sedici lettere, magicamente “quadrato”), scrive Colapietro e Pincio, «congiunge la parte intima del nome e quella sociale del cognome». 

 

Alighiero Boetti, genelli, 1968.

 

Ecco, il libro di Agata ci fa scoprire l’Alighiero intimo che non sta dietro al “concettuale” Boetti; non dietro ma insieme a lui – da lui inscindibile come lo Shaman nello Showman (e viceversa). Quando Boetti compone I sei sensi, nel ’74, sappiamo che ai cinque canonici aveva inteso aggiungere il pensare. Ma dunque per lui, appunto, il pensiero è qualcosa di sensuale. Quegli undici pannelli azzurri (l’undici è, fra tutti, il numero di Boetti) lasciano spazio a cinque sensi ulteriori, che in futuro potranno essere risvegliati da nuove scoperte, nuovi cimenti dell’armonia e dell’invenzione. Come gli altri del ciclo “cifrato” delle Biro, punteggiati da virgole, i primi sei ospitano punti bianchi. Racconta Agata che uno dei loro piaceri più grandi consisteva nello stendere sull’erba uno dei grandi tappeti che giungevano dall’Afghanistan, e passarci le ore a contemplare il mondo e parlarlo: «questi tappeti per terra ci sollevavano in aria e ci facevano viaggiare. Sdraiati, il nostro orizzonte sembrava immediatamente più vasto e immenso». È la prospettiva, davvero esilarante, della serie Aerei (1977-80): sagome bianche che si affollano sul vasto schermo dell’azzurro. Ma è anche l’«alphabet des astres» di cui parla Mallarmé nell’Action restrinte, per raffigurarlo due anni dopo in Un coup de dés n’abolira jamais le hasard (testo dall’impaginazione, nonché dal titolo, squisitamente “boettiani”: un passo su Mallarmé e il suo «merletto, nero su bianco, o bianco su nero, come nel cielo la notte, o nello spazio in cui sono tracciati i nostri sogni» è sottolineato da Boetti nella copia del più decisivo dei suoi livres, Corpo d’amore di Norman Brown).

 

Indica il cielo stellato alla sua bambina, Alighiero: «Tu vedi del disordine… mentre per un astronomo tutto ciò è molto chiaro». Nessuno quanto Boetti, tra gli artisti del suo tempo, aveva imparato a volare: lo diceva, con una delle felici coincidenze che lo deliziavano, il suo stesso nome. Che, come quello dell’Alighieri per antonomasia, cela in sé la sua natura più vera, quella dell’aliger virgiliano – o di «Amelio filosofo solitario» nell’Elogio degli uccelli di Leopardi. «Ali» era il suo nick ai tempi di Torino (a Boetti piaceva, gli faceva pensare appunto a un aereo). 

 

Annemarie Sauzeau, Alighiero, Matteo e Agata Boetti.

 

A questa felicità mentale, che per tante pagine respiriamo a pieni polmoni, fa da contraltare, verso la fine, un improvviso presagio di morte. Ma Boetti pareva l’unico a non preoccuparsene: come dolente racconta Pincio, un maestro sufi gli aveva sussurrato la data della sua morte, pronosticandogliela per l’11 luglio 2023. Intanto il ritmo di quell’inarrestabile dinamo mentale, però, continuava a crescere a un livello parossistico. Agata racconta dei suoi momenti di spossatezza: «gli massaggiavo spesso la testa… lui chiudeva gli occhi e io cercavo il tasto “pausa” fra i suoi capelli». L’ultima opera licenziata da Boetti è una scultura in bronzo a grandezza naturale che s’intitola Autoritratto (mi fuma il cervello). Così la descrive Pincio: «un calco del suo corpo in piedi. Una mano alzata impugnava l’estremità di un tubo di gomma dal quale fuoriusciva un getto d’acqua che, dopo avere descritto un arco, cadeva sulla testa di Alighiero, al cui interno era contenuto un meccanismo che scaldava il metallo quel tanto da far evaporare l’acqua non appena questa vi entrava in contatto». Il giorno del funerale, in quell’aprile crudele, il fumo dell’incenso evocava l’autoritratto premonitorio: «entrambi i fumi parlavano della stessa cosa, la sparizione di quell’afflato essenziale senza il quale un organismo vivente e pensante ripiomba allo stato di semplice materia». 

Ma ora, grazie a sua figlia, conosciamo la storia straordinaria degli anni, dei tanti anni in cui la materia di quel corpo d’amore era rimasta accesa dalla luce delle idee: dalla sostanza sottile del genio.

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita il 20 novembre su «Alias».

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