Musi gialli / L’origine di un pregiudizio

9 Gennaio 2020

Musi gialli è il titolo di un libro dello scrittore e giornalista Fabio Giovannini uscito nel 2011 per Stampa Alternativa: musi gialli, chinks o gooks, venivano chiamati gli abitanti dell’Asia in molti film di guerra hollywoodiani. Il più pericoloso muso giallo dell’immaginario occidentale è stato però Fu Manchu, diabolico mandarino che ordisce trame per rovesciare i rapporti mondiali, personaggio dei romanzi dello scrittore britannico Sax Rohmer. Il primo della saga apparve nel 1912 ed ebbe immediatamente un enorme successo in Europa e negli Stati Uniti, fu trasmesso alla radio e riproposto decine di volte nel cinema e nei fumetti. Giovannini ricostruisce questa storia e, in generale, la storia del pregiudizio contro “i gialli” prendendo in esame testi, racconti, romanzi, film e fumetti. Nonostante la sua presa di posizione, talvolta eccessivamente radicale, secondo la quale qualsiasi critica verso l’Oriente appare preconcetta, il volume ci fa pensare, scoprendo in noi la velata convinzione che davvero cinesi, giapponesi e coreani siano gialli o, perlomeno, tendenti al giallo.

 

The Mysterious Dr. Fu Manchu è un film del 1929 diretto da Rowland V. Lee.


Sono davvero gialli gli abitanti dell’estremo Oriente? E quando sono diventati gialli? Nei racconti dei viaggiatori, da Marco Polo fino al Seicento, e nelle testimonianze dei missionari, gli abitanti dell’Asia sono descritti in genere come bianchi; in seguito compaiono descrizioni vaghe e variegate, talora contraddittorie. Nel paradigma bianco-nero-giallo-rosso della classificazione razziale che si afferma tra fine Settecento e inizio Ottocento, il giallo ha una collocazione ancora incerta: nella prima edizione del Systema naturae, pubblicata nel 1735, il termine usato da Linneo per definire il colore della razza asiatica è fuscus, termine latino che noi traduciamo con fosco, oscuro, scuro, bruno, addirittura con nero. Nella terza edizione, che compare nel 1740 con traduzione tedesca, fuscus è reso in tedesco con gelblich, giallognolo, giallastro, e nella decima edizione, del 1758-59, fuscus è sostituito da luridus, che non è esattamente equivalente al nostro lurido; significa giallastro, livido, pallido, squallido, mentre solo gli occhi sono rimasti fusci. Lo ha notato Walter Demel nel libro dal titolo Come i cinesi divennero gialli, Alle origini delle teorie razziali (Vita e Pensiero, Milano 1997), ma la tesi viene approfondita da Michael Keevak, il quale sostiene che la scelta di luridus non si basa semplicemente sulla ricerca di un termine che fosse intermedio tra bianco e nero, ma contiene suggestioni mediche che richiamano l’itterizia e analogie botaniche con un intero ordine di piante che Linneo chiama Luridae, caratterizzate come sospette e velenose (Becoming Yellow. A Short History of Racial Thinking (Princeton University Press, Princeton-Oxford 2011). 

 

Luridus ha però vita breve e le successive edizioni, la dodicesima e la tredicesima – quest’ultima curata dal biologo tedesco Gmelin – propongono nuovi criteri, nuove divisioni e nuovi termini. Anche Buffon, il grande rivale di Linneo che preferisce divisioni meno rigide e si ferma a un approccio più empirico, sembra a tratti condividere il paradigma bianco-nero-giallo-rosso. Anche Kant, che pure afferma di non essere addentro in questo tipo di ricerche, abbozza una teoria delle razze e indica il giallo-oliva come il colore degli indiani.

 

Il ruolo decisivo nella creazione dell’uomo giallo è da attribuire però a Blumenbach che, insoddisfatto della coincidenza di razze e continenti, nella terza edizione, del 1795, del De generis humani varietate nativa, individua cinque razze sulla base dell’analisi della forma del cranio, mentre il colore passa in secondo piano, senza essere soppresso. Le varietà vengono elencate in ordine gerarchico, in base al concetto di deviazione della forza generatrice (nisus formativus, Bildungstrieb), di «degenerazione». La prima è la razza caucasica, la razza bianca, in cui il colore è assente, che non è quindi macchiata da pigmenti, razza "originaria" (il termine caucasico compare qui per la prima volta), che comprende i popoli europei e asiatici conosciuti in Occidente nel mondo antico; da questa razza sarebbero derivate le altre per effetto di pressioni ambientali e abitudini alimentari. Seguono quindi la mongolica o razza gialla, l’etiopica o razza negra, l’americana o razza rossa e la malese o razza olivastra. 

 

Nonostante il razzismo di Blumenbach fosse circoscritto e qualche volta contraddetto (cfr. Luigi Marino, I maestri della Germania. Göttingen 1770-1820, Einaudi, Torino 1975), la sua fama di scienziato contribuì alla diffusione del paradigma razziale. La novità consistette nell’attribuire il colore giallo alla razza mongolica: in questo modo cinesi e giapponesi, sottovarietà (Unterarten) di questa razza, erano finalmente diventati gialli, un verdetto che si affermò per tutto l’Ottocento e oltre (Keevak, ivi, pp. 64-65). Va precisato che i termini latini usati da Blumenbach sono gilvus e buxeus, aggettivi piuttosto rari nel latino classico, ma probabilmente in uso nel Settecento in ambito scientifico. Gilvus significa giallo come il miele, ma indica anche il color isabella dei cavalli, buxeus è il colore giallastro del legno del bosso: 

 

gilvus s. buxeus, medius quasi inter tritici granorum, et malorum cydoniorum coctorum, aut corticis exsucci et aridi malorum citriorum colorem, Mongolicis gentibus familiaris.

 

[giallo o colore del bosso, a metà tra il colore del grano e quello delle mele cotogne cotte o il colore delle scorze secche e aride dei limoni, familiari ai popoli mongolici.]

 

Con un improvviso salto temporale propongo la lettura di un fumetto: Negri gialli e altre creature immaginarie di Yvan Alagbé, del 2012, pubblicato quest’anno in traduzione italiana dalla casa editrice Canicola di Bologna (già citato qui da Pietro Scarnera tra le novità di Lucca Comics). Alagbé è figlio di madre francese e padre beninese; in un’intervista spiega il significato del titolo: «Un negro giallo è qualcuno che ha il mio colore della pelle; quando vivevo in Benin in un quartiere dove c'era un mix di etnie, ero considerato bianco (white). Quando racconto questa storia in Francia le persone si divertono perché per loro sono nero».  

Si tratta di un completo rovesciamento del pregiudizio: invero nell’intervista l’autore dice che in Benin era considerato bianco, non dice giallo, ma il titolo del racconto è inequivocabile: Negri gialli, e gialla e nera è la copertina del volume che racchiude una storia di migranti, di razzismo e di solitudine, di amore e d’inganno, disegnata con tratti forti e contrastanti, in bianco e nero. 

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