Antonio Leotti. Il mestiere più antico del mondo

6 Marzo 2012

Il mestiere più antico del mondo (Antonio Leotti, Il mestiere più antico del mondo, Fandango, 2011), contrariamente a quanto si è soliti pensare, è l’agricoltura. E, a differenza di quell’altro mestiere, vive un inarrestabile decadimento, nel disinteresse quasi generale.

Nemmeno il primato cronologico sembra garantirgli nuovo fascino e parole come maggese, guazza, sdigiuno, al pronunciarle lasciano sul palato quel gusto di polvere e nostalgia proprio dei linguaggi-relitto, che dissotterrano immagini sepolte dal tempo.

 

Il protagonista Antonio è nato nella Roma borghese da una famiglia di latifondisti; la campagna della memoria, che si affaccia nelle prime pagine del libro, è il luogo mitico delle vacanze toscane, dei contadini come cowboys e del primo brivido di piacere consapevole mangiando pane e prosciutto nero dalle mani dure e venose di un John Wayne con la gorgia.

Ma l’agro è anche il teatro del dramma di un amore non corrisposto: la Roma bene dello squallore metropolitano non lo conquista; la campagna è una madre che ripudia e disconosce, a cui Antonio tende le sue mani di padroncino “buone a far niente”.

 

Così tutta la prima parte del romanzo è dedicata alla ricostruzione della scissione tra due patrie antitetiche a cui l’appartenenza è negata e il memoriale autobiografico rivive l’angoscia di un’abissale separazione per preparare il terreno alla riconquista.

Antonio sta riordinando un ufficio dismesso nella tenuta agricola di famiglia, quando avverte con immediata chiarezza una verità che era rimasta latente. È un’epifania fuligginosa che prelude al progressivo e consapevole riavvicinamento alla terra e al lavoro nei campi.

 

Il romanzo si piega allora alla cronaca dell’apprendistato agrario: l’ammestramento della terra da parte dell’uomo e dell’uomo da parte della natura. Il “voi” riferito alla comunità agricola si trasforma in “noi” nello spazio di poche righe, e la prima persona plurale sancisce un’autoinvestitura che cade improvvisa sulla materia della narrazione. Il camuffato lirismo delle memorie giovanili si fa puntuale descrizione e analisi della realtà contadina, delle risorse e dei limiti, della tradizione e del futuro; all’io prorompente della voce narrante fanno da controcanto personaggi sbiaditi, che gravitano senza peso nelle descrizioni del protagonista.

 

Con impegno e attenzione si definiscono il contesto della crisi del settore primario, l’abbandono delle campagne da parte degli agricoltori, e degli agricoltori da parte della società, le politiche agrarie inefficienti e talvolta pericolose (dal seat-aside al bio). La vicenda personale è pretesto per la denuncia sociale, dà voce allo straziato lamento di una realtà dimenticata se non oppressa. Il romanzo resta in bilico tra il diario e il pamphlet, un ibrido che talora sacrifica il racconto alla polemica e non di rado si spinge sul crinale scivoloso della retorica o del rassegnato sarcasmo.

 

Così accade sul finale: lo stoicismo proverbiale dei contadini pare vano di fronte all’inevitabile e già prossima sconfitta; il cielo che incombe sulle geometrie colorate dei campi è pesante e apocalittico e una rabbiosa rassegnazione sembra vincere tristemente sulla pazienza rivoluzionaria.

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