The Spectre Is Still Roaming Around

24 Marzo 2014

“Articolare storicamente il passato non significa riconoscerlo 'come realmente è stato'. Significa impadronirsi della (sua) memoria, così come appare in un momento di pericolo […] Il pericolo minaccia sia il deposito della tradizione, sia chi la riceve. Per entrambi è uno solo e lo stesso: diventare lo strumento della classe dominante. […] L'unico scrittore della storia, capace di riaccendere la speranza nel passato, è colui che è convinto che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se egli è vittorioso. E questo nemico non ha mai smesso di vincere”
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, 1940


La più diffusa logica culturale post-comunista celebra la caduta della cortina di ferro come “la vittoria finale della democrazia moderna sui suoi nemici totalitari”. Il processo politico di transizione iniziato dopo il 1989 nei paesi dell'Europa post-socialista, interpretato come la conservativa resistenza all'Ovest liberal-democratico contro un inequivocabile modello di modernità, è stato, da una sola parte, la nostra, osservato come l'allineamento dall'alto verso il basso della governamentalità dell'Est. Cioè dentro l'ordine dell'Ovest, secondo Boris Buden, come una “riconquista culturale, la ri-occidentalizzazione dell'Europa Orientale”. “Ma c'è mai stato un manifesto politico che sia stato più chiaramente falsificato dalla successiva realtà storica?” si domanda Žižek nel suo testo significativamente intitolato: The Spectre Is Still Roaming Around.

 

 

La fine del comunismo non può che significare il suo ritorno allo stadio invisibile dello spettro: Derrida attinge alla metafora evocata da Marx di uno spettro che attraversa tutta la storia universale e lo paragona allo spirito del padre di Amleto descritto da Shakespeare. Così recita Enter the Ghost. Exit the Ghost, il neon di Armado Lulaj che apre il percorso espositivo della mostra Il Piedistallo Vuoto presso il Museo Archeologico di Bologna: non tanto il revenant del marxismo quanto il problema della sua eredità che si condensano subito in un'apparizione fenomenica, quella della rivoluzione come possibilità ideale, sospesa per un tempo a venire. Il fantasma, sottolinea il curatore Marco Scotini, è qualcosa di atteso, che appartiene a un futuro al di là presente, o a un passato che ritorna. Il tempo dello spettro è molteplice e in quest'ampia rassegna dedicata alla scena artistica dell'Est, seppur attraverso le incomplete narrative che la transizione post-socialista ci ha consegnato alla storia, iniziamo a prendere seriamente in considerazione la possibilità della sua ri-apparizione.

 

A partire dalla riflessione di Tarkovskij del 1972 sul potere e i limiti impenetrabili della coscienza: il protagonista Chris Kelvin, in missione nella piattaforma orbitante intorno al pianeta Solaris, nel silenzio dell'universo infinito, non riesce a liberarsi dal fantasma di sua moglie, morta dieci anni prima. E lei riappare in carne ed ossa (ma il suo corpo è composto di neutrini) e questa proiezione diventa il vero amore: perché l'oceano che circonda Solaris materializza i desideri più profondi e lascia affiorare i ricordi. Come appunti impressi nella nostra memoria. A distanza di 35 anni dal film il protagonista lituano ritorna come astronauta in Revisiting Solaris di Deimantas Narkevicius per recitare l'ultimo capitolo del romanzo di Stanislaw Lem che il regista russo non aveva mai girato.

 

 

E il paradigma del fantasma ha preso posto nel piedistallo. Ma cos'è un piedistallo, se non una struttura ostensiva che valorizza i rapporti di potere? Le classi dominanti, sosteneva già Lenin, hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari perseguitandoli implacabilmente in vita, trasformandoli in icone inoffensive, dopo la morte, così l'effige del leader è stata rimossa, dopo che la dirigenza sovietica intraprese la strada del capitalismo, come progetto puramente politico di rimodellamento sociale e non come naturale sviluppo economico, con la successiva integrazione nelle strutture finanziarie, politiche e militari dell'Europa neoliberale. Vyacheslav Akhunov, da una posizione periferica a Tashkent, dove per anni è stato il solo artista concettuale attivo, già nel 1975 realizzava la serie di disegni con 38 piedistalli vuoti, di tutte le forme e tipologie, a cui allude il titolo dell'esposizione: ma ironicamente Lenin è sparito, è andato al congresso, a comprare la vodka, etc. che rende controversa la questione sul ruolo dei dissidenti sotto il socialismo reale. Tra disegni, collage e taccuini, con cui si svincolava dall'allineamento alla censura dell'ideologia ufficiale, Akhunov assume la tipica iconografia della propaganda sovietica spingendola aldilà dei suoi limiti, oltre il dominio del revisionismo nostalgico-ideologico e i suoi apparati. Ritornano gli spettri del comunismo: è il passato in cui non è più possibile vivere, ma anche il passato da cui è impossibile sfuggire.

 

Anche Silence, Please 1999/2004 di Roman Ondak proietta la macchina espositiva indietro nel tempo, facendo indossare agli inservienti dello Stedelijk Museum di Amsterdam le uniformi da guardiasala del periodo in cui sono nati, intorno agli anni ’40. Ma il custode è evaporato, non c'è più. E il suo sguardo, in questa soglia, tiene sotto controllo le opere, sorveglia il museo. Di fronte, due simulacri riproducono le cover delle mostre, curate da Dorothy Miller, nell'ambito dell'International Program of Circulating Exhibitions, istituito dal MoMA negli anni 50. L'operazione di MoAA, artista anonimo di Belgrado, si focalizza sul ruolo politico assunto da queste mostre non solo come veicoli di manipolazione e promozione diplomatica durante la Guerra Fredda (basti pesare che in quegli anni la pittura astratta era stata esportata in Europa dall'agenzia governativa United States Information Service e lo stesso George Kennan riteneva che l'arte moderna americana potesse essere usata come espressione della creatività e libertà dell'occidente). Gli strumenti dell'esposizione e i suoi parametri istituzionali, nel disegno storiografico di Alfred Barr, erano già modelli per una meta-narrativa che aveva imposto una visione univoca della storia dell'arte.

 

 

Come è stata scritta dunque la storia dell'Est Europa? All'ingresso del museo, Scotini con lo stesso regime di invisibilità e visibilità che attraversa tutta la mostra, magistralmente costruita con le opere acquisite dalle grandi collezioni italiane e la presenza delle ricerche non allineate degli anni Settanta insieme a quelle degli artisti emersi dopo l'89 che hanno contribuito alla loro riscoperta, segnala subito un duplice registro di falsificazione. La storiografia non è mai un'attività neutrale e oggettiva (Igor Zabel, 1999) e la divisione in blocchi durante la Guerra Fredda è stato un cliché usato con l'obbiettivo di una strumentalizzazione ideologica, quando il processo della sua storicizzazione doveva essere compiuto, ma forse qualcosa può ancora essere fatto per decostruire le egemoniche narrative dell'Est, a partire dai modi in cui oggi sono determinate le relazioni economiche della produzione artistica. Ancora Buden scrive, nel testo in catalogo, che ciò che chiamano "Est" è un museo della storia a cura dell'Ovest.

 

 

E contro questo assunto emerge una costellazione di istanze parallele (il relativo isolamento di queste storie parallele è stato rilevato da IRWIN in East Art Map) che hanno trovato posto nella soggettivazione di tante storie auto-istituzionalizzate, anche da processi di colonizzazione interna, attraverso cui si snoda il percorso espositivo nella successione di alcuni nuclei tematici, sostenuti da anni di indagine in queste aree geopolitiche: il Teatro dei gesti, mette in scena una corporeità biopolitica, di matrice performativa, sospesa tra la precarietà esistenziale e le strutture di potere nella rappresentazione di una gestualità che ha perso ogni riferimento, nel momento in cui, sotto il regime, anche la soggettività era qualcosa di assegnato: le performance elusive, invisibili e liminali di Kovanda, gli anti-happening di Koller, il doppio di Grigorescu, la metafora normativa del soldato (Zmijevski, Narkevicius), le comparse angeliche di Grubic. E ciò fino alla sezione l'Archeologia delle cose, che non riporta alla luce le rovine ma ancora la questione degli spettri, con le grandi istallazioni oggettuali di Kabakov, Maljkovic, Kusmirowski, all'archivio di immagini della Feriancova che si sottrae, con lo stesso meccanismo di sparizione/apparizione, inaccessibile agli altri, all'ombra della bandiera di Cantor che lentamente si consuma fino a scomparire.

 

Questo implica come molte teorie e aree di ricerca, nominate col prefisso 'post' hanno perso il loro potenziale critico e diagnostico (Ilya Budraitskis, Alexey Penzin, The Catastrophes of 'Real Capitalism', 2013), oggi riletto da più parti in relazione alla supremazia tracciata dallo scenario capitalista attuale, ma con parametri differenti, cogliendo la questione dello spettro come potenzialità, disposizione al cambiamento. Il paradigma del fantasma rovescia questi strumenti di analisi e i modelli imperialisti e gerarchici dell'ovest, in un'ellissi discorsiva e temporale discontinua che, nel forte rapporto di prossimità con le opere in mostra, Scotini sembra suggerirci: perché l'agire sul tempo può ancora far emergere le contro-storie escluse e marginali, le fonti trascurate, e la storia può essere riscritta continuamente.
 

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