L’Italia di Cartier-Bresson e degli altri

26 Novembre 2015

Il rapporto che lega la fotografia di paesaggio e il nostro Paese penetra le proprie radici abbastanza in profondità da sollevare l’interrogativo sulla ragione di tanta confidenza, anche dando per assunte la produzione che ispirò il lavoro di Ghirri e quella che da esso continua a essere ispirata. Italia Inside Out è iniziata, nella primavera scorsa, come un’eccellente operazione che esplorava proprio quel cosmo, costellato dalle fotografie di Guido Guidi, Olivo Barbieri, Mimmo Jodice, Gabriele Basilico e numerosi altri grandi italiani. Stesso teatro, Palazzo della Ragione Fotografia di Milano, e stessa curatrice, Giovanna Calvenzi, per la mostra che si colloca nel solco della precedente e lo porta oltre i confini nazionali, ma attraverso un’agile acrobazia: quello che sta oltre confine – o, per meglio dire, chi ci sta – lo supera verso l’interno.

 

Henri Cartier-Bresson e gli altri. I grandi fotografi e l’Italia, inaugurata lo scorso 10 novembre e aperta fino al prossimo 7 febbraio, raccoglie oltre 200 immagini e le dispone lungo un percorso che la curatrice definisce «un Grand Tour in sette tappe»; sette temi che il visitatore attraversa fisicamente lungo il sapiente allestimento. Si esordisce naturalmente con il Maestro che non solo fa da capostipite al capitolo L’Italia, la fotografia “umanista” e altro ma presta il nome all’intera mostra.

 

 

I suoi numerosi viaggi nel territorio italiano lo raccontano da un punto di vista minore eppure non inferiore, piuttosto colmo di fascino e fascinazione; queste fotografie dicono soprattutto la loro stessa capacità di farsi punto di vista, per sempre, e così di portarlo a noi. Analogo risultato da analoga fascinazione per quell’Italia, che non si trova nelle piazze più famose delle città più grandi, lo offrono gli scatti di una giovanissima Cuchi White e, pure, con un sapore completamente diverso, più delicato, più soave.

 

 

Cominciamo a percepire uno tra i sensi più acuti che questa mostra produce: non è possibile, tantomeno da un punto di vista fotografico, pensare l’Italia estrudendola dal suo tessuto magmatico più indistinguibile e più autentico, quello che è riduttivo, per quanto efficace, definire “minore”. Le supposte eccezionalità del nostro Paese, siano esse temporali – come le individua Robert Capa al seguito delle truppe alleate nel 1943 – oppure spaziali – la Roma degli anni ’50 catturata dall’occhio vibrante di William Klein – non possono che poggiare le ragioni essenziali che trattengono gli sguardi su di esse sulla granitica solidità, sulla semplicità tutt’altro che banale della quotidianità e della provincia.

 

 

La dimensione in cui ci troviamo immersi supera, allora, l’originale intenzione delle opere, fosse il reportage à la Sebastião Salgado, l’incanto metafisico di George Tatge o romantico di Claude Nori (La poesia del bianco e nero), la contemplazione di cultura e arte di cui è grande esempio la Venezia di Alexey Titarenko (Dove l’interpretazione diventa un atto d’amore) o, di nuovo, l’attenzione per la storia dei luoghi che Strand dedicò a Luzzara (La nobile tradizione documentaria); la dimensione di questa mostra – dicevamo – le supera tutte in direzione di una sintesi che si guarda bene dall’abbandonare di esse anche solo un dettaglio. Allora adorazione, romanticismo, arte e documento si vestiranno delle stesse associazioni che l’occasione (leggi: la scelta) ha voluto si accostassero a esse, le circondassero dalle pareti vicine, facessero l’una dell’altra un’espressione nuova. Ne derivano accostamenti che lasciano emergere in modo trionfale la potenza della fotografia di far delirare il tempo, gli stili, le tecnologie, collassarli uni sugli altri, cristallizzarli lì, in un piccolo oggetto denso di senso. Vedremo allora a pochi centimetri di distanza la Reggio Emilia anonima di Sarah Moon e Irene Kung nella Milano di ieri e di oggi, due incompatibilità che si scoprono convergenti nell’appuntamento con il sogno.

 

 

Una volta di più ci colpisce con forza silenziante, quasi furente, una qualità eminente della fotografia, la sua dote di riavvolgere il tempo, i tempi, tutti su di sé, facendosi tempo altro, altrimenti, altrove. Questa mostra, infatti, smonta e rimonta il filo del tempo cronologico, apparentemente saltando indietro avanti e ancora indietro ma, in realtà, seguendo ben altra logica, più vicina al sublime e meno allo studio, meno aderente alla storiografia che all’intensità, quella anacronistica per cui forme e matrici figurative si sommergono in determinati momenti e luoghi per tornare a galla chissà dove e chissà quando. In questo senso, quello delle storie, più che in quello della Storia, è importante badare alle date lontane tra loro delle fotografie che i temi hanno voluto vicine. A proposito di temi, è svoltando sugli ultimi tre che la sensazione appena descritta si vivacizza nitidamente.

 

 

Affondare e riemergere è allo stesso modo quanto succede all’altra Venezia, quella di Art Kane in Waters of Venice, partendo dalla semplice ma mai abbastanza ripetuta assunzione che non esiste la fotografia vera, che ognuna nasce già modificata, montata, come del resto avviene per ciascuna visione, che può essere tutto meno che rispondente a una norma. A questo Sguardo inquieto risponde Lo sguardo positivo, quello di Harry Gruyaert tra i cartelli stradali dei Dintorni di Brescia, o quello di Steve McCurry, che ci ripiomba nella secolare meraviglia rubata alle acque senza timori per i destini veneziani ma, piuttosto, conquistati dalla sua impossibilità, dalla tenace sopravvivenza di uomini e luogo e del loro insieme, dalla stessa decadenza.

 

 

Chiude il cerchio il tema Autoritratto, lo conclude e ci informa che c’era, un cerchio, fin dall’inizio, fin da Henri Cartier-Bresson e da quel suo scattare se stesso che, una volta di più, sembra raccogliere i lembi del tempo e portarli l’uno sull’altro, piegandolo e poi dispiegandolo. Un’operazione temporale che, inevitabilmente, non può che diventare, lungo tutta l’esposizione, anche spaziale, territoriale: l’Italia accartocciata come un foglio e poi, seguendone le imponderabili pieghe, svolta come un nastro, ma dalle innumerevoli direzioni. Una nuova mappa, un Grand Tour sì, ma infinito e interminabile, sempre ripetuto e sempre differente.

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