Festival Vie / La verbosa apocalisse di Rambert e il virus

6 Marzo 2020

“Tutti nervosi!” dice con rassegnata ironia il dottor Dorn nel primo atto del Gabbiano di Cechov. E quest'aria di novecentesca nevrastenia investe fin dalle prime note – Marie-Sophie Ferdane le trae da un violino – la scena di Architecture di Pascal Rambert che, sei mesi dopo il suo debutto avignonese, è approdato con il suo poderoso vascello da crociera sul palco dell'Arena del Sole di Bologna per il festival Vie: è appena trattenuta nelle espressioni inquiete e nei corpi immobili che in una specie di quadrilatero militare, formato in uno spazio disseminato di tavoli, sedie e chaise-longues in stile Biedermeier, ascoltano con finta deferenza lo sfogo di un padre offeso dal silenzio di un figlio luciferino che lo ha insultato e ora lo osserva di sbieco – ha un aspetto da uccello malevolo Stanislas Nordey – lontano da lui, ma anche da sorelle, fratelli, cognati, e una matrigna troppo giovane; nessuno che osi contrastare il vecchio, numinoso Architetto, dal quale tutti in un modo o nell'altro dipendono. La smisurata ambizione teatrale di Rambert, autore e regista, tetanizza gli attori, imbroglia le carte dell'anacronismo e della profezia – le profezie d'altronde sono sempre rivolte al passato – si disperde nel linguaggio, talvolta nella balbuzie o nell'onomatopea, ma poi si rialza e si raggruma in discorso nelle brusche ritorsioni dei monologhi che nel pubblico cercano ancora, frontalmente, la società e, nella fattispecie, questa società europea riportata a forza sulle rive di un'analogia ormai di scuola con i primi trent'anni di un ventesimo secolo insepolto, vecchio, ruggente e disperato come il Padre interpretato da Jacques Weber. 

 

 

Nel biancore cechoviano dei costumi, nella disposizione di un'interminabile Ultima cena di famiglia che si compone e si scompone al centro della scena – ricordando molto il grande tavolo che occupava il palco di una versione di A colpi d'ascia firmata da Christian Lupa – nella nave dei folli in rotta per un tradizionale viaggio sul Danubio, da nord a sud, risorgono più fantasmi di quanti lo sguardo dello spettatore riesca a trattenerne. Uno su tutti, lo scontro tra il padre Jacques, fecondo e predatore, e il figlio Stan, solitario e omosessuale, i due elefanti che si fronteggiano come fermalibri sulla libreria di famiglia, dice Rambert: uno scontro che ha per tema la decorazione (nei due sensi del termine: come riconoscimento ufficiale e come pratica estetica), nel quale si ritrovano riuniti, senza essere citati, la sfiducia linguistica di Wittgenstein, la polemica funzionalista di Adolf Loos, forse gli scritti sul Kitsch di Herman Broch, così come nella musica di Denis (Pascal Rénéric) anch'essa brutalmente stigmatizzata dal padre (“fa cose confuse che nessuno capisce la sua musica logora quelli che se la devono sorbire”) si intravede un trasparente, nel suo filisteismo, riferimento alla Seconda scuola di Vienna, nel pamphlettismo di Laurent (Laurent Poitréneaux) un'eco del giornalismo individualistico di Kraus, e nella durezza clinica destinata a rovinare in pazzia di Emmanuelle (un'Emmanuelle Béart più scontrosa che mai), il riverbero di quell'altra invenzione del Finis Austriae che è la psicoanalisi. 

In questa Architettura non ci sono che crepe e incrinature, a cominciare dalla prima, la più drammaticamente evidente, a un tempo affettiva e culturale, quella patriarcale. Finalmente il Titanic danubiano, partito verso il “vento glaciale di Trieste” nel luglio del 1911, si infrangerà contro l'Iceberg carico di cadaveri e di mutilati della prima guerra mondiale, alla terza ora di spettacolo e senza che l'onda anomala della prosa di Rambert – non so se debba essere detto a suo onore o a suo discapito – si sia mai veramente spezzata su quel silenzio più volte evocato nella pièce (e quasi sempre, persino nell'Angelo vendicatore di Stan, che più di ogni cosa desidera parlare al padre, evocato come spettro che il Teatro, oratoria suprema, è chiamato a scongiurare). Il catastrofico Coro di Architecture è come il Caligola di Albert Camus che anche trafitto a morte dai pugnali dei congiurati continua comunque a parlare. 

 

 

Nell'affresco di Rambert, dove ciascun personaggio porta il nome dell'attore che lo interpreta, la parabola va dal dramma al gioco, dal ruolo al suo denudamento performativo, culminando nel momento finale in cui gli attori recidono personalmente i fili delle proprie marionette. Ma a questo percorso volontaristico risponde una recitazione esacerbata che più volte entra in rotta di collisione con i saggi precetti formulati dall'autore stesso nella sua Arte del teatro (dove si suggeriva all'ironico alter ego del cane, se proprio doveva abbaiare, di “abbaiare basso”). 

Nel frattempo il discorso di Architecture si è continuamente riversato sull'attualità con una formidabile invettiva che ha il torto (teatrale) di essere un po' troppo esplicita per imprimersi in un ascolto più carnale di quello suscitato dalla sua esemplare retorica da pamphlet: Laurent che cede voluttuosamente alle sirene di un populismo inveterato, urlando di essere “dalla parte del popolo contro la stampa contro il governo e le sue menzogne contro l'élite che dice il Bene contro l'intellighentsia”, o gli accenti pre-fascisti di un elogio della violenza e del sangue (“c'è una certa gioia nel tentare la morte” potrebbe esser stato strappato da una pagina di Robert Brasillach) lanciato da Arthur, il “musicista-militare” interpretato da Arthur Nauzyciel, sono altrettante tappe di un'escalation che nella prevalenza della scrittura gioca insieme la sua nobiltà e la sua impotenza. 

 

 

Anche senza virgole, nel diluvio di una verbosità che vorrebbe abbracciare tutto, e più di tutto la cupa luce del passato che si ripete nel presente, è sempre Rambert che parla attraverso i suoi attori – ed è sempre l'intelletto che, per l'ennesima volta, organizza la scena della propria sconfitta. A mancargli è la verità, o semplicemente lo scandalo, di quel corpo umiliato (di un altro padre, vedi il caso) che, poco più di un'ora dopo, viene celebrato sul palco modenese dello stesso Festival dalla scabra e toccante interpretazione di Francesco Alberici nella versione di Chi ha ucciso mio padre di Edouard Louis diretta da Deflorian-Tagliarini. I due momenti, per altro, sarebbero uniti dal filo esile di Stanislas Nordey, attore caro a Rambert che è stato anche il primo a portare sulla scena in Francia il monologo di Louis. In realtà, fermi sul nastro di Moebius di un dilemma europeo, ideologicamente ed espressivamente divisi, non si parlano perché si danno reciprocamente le spalle: fisso nel cuore ferito di quella rivolta che Pierandrea Amato ha definito di destituzione, il racconto di Louis, incantato nella sua visione apocalittica il poema di Rambert. 

Ma domenica 24 febbraio, mentre l'ombra della sera avanzava, gli spettatori dell'Arena del Sole di Bologna salutavano gli attori di Architecture con un applauso scrosciante nel quale già si sentiva la triste pressione dello stato d'assedio appena decretato dalle autorità: tra tutte le paure che alimentano il virus populista-sovranista, quella che si materializza nel vero, invisibile, morbo che azzera ogni circolazione e rende sospetto ogni incontro è la peggiore, perché è la più ricattatoria e la più arcaica. Più che quelle di Kraus o di Bourdieu, forse è meglio riaprire le pagine di Camus e di Artaud. Il presente ha sempre un abissale attimo di scarto anche sulla rappresentazione più puntuale.

 

Architecture, visto 23 febbraio all’Arena del Sole di Bologna,

testo, ideazione, installazione di Pascal Rambert

con Emmanuelle Béart, Audrey Bonnet, Anne Brochet, Marie-Sophie Ferdane, Arthur Nauzyciel, Stanislas Nordey, Pascal Réneric, Laurent Poitreneaux, Jacques Weber e Cesarée Genet Bonnet in alternanza con Rose Poitrenaux

La traduzione italiana di Chiara Elefante è pubblicata nella collana Lineaextra di Luca Sossella

La rivolta di Pierandrea Amato è pubblicato da Cronopio.

 

Le fotografie sono di Jean-Louis Fernandez.

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