Impossibile non prenderla sul serio / 70 anni di Marina Abramovic

30 Novembre 2016

È impossibile non prendere sul serio Marina Abramovic. Non a caso una frase di Bruce Nauman, “L'arte è una questione di vita e di morte” torna spesso nei discorsi di questa icona culturale, madre e pioniera della Performance Art. La serietà del suo approccio artistico, il rigore e l'estrema disciplina sono infatti gli elementi che a prima vista risaltano dalla sua lunga vita di artista. Benché negli ultimi anni Marina sia diventata una sorta di personaggio mediatico anche per le sue collaborazioni con Riccardo Tisci, Givenchy e Lady Gaga, la sua fama si è sempre fondata sull'impegno estremo espresso in ogni sua opera come approccio di resistenza al dolore. 

 

Basterebbe solo l'esempio di Rhythm 0 a confermare quanto Marina per prima prenda sul serio la propria arte. A Napoli nel 1975 si consegna letteralmente alle mani del pubblico come oggetto inerte in una stanza, lasciando a disposizione su un tavolo 70 oggetti di ogni tipo, tra cui anche lamette e una pistola carica, che potranno essere usati su di lei per sette ore secondo il libero desiderio degli spettatori. Sono dunque quest'ultimi a realizzare una performance che è un vero e proprio studio sulla natura umana: dopo qualche ora, le persone nella stanza iniziano a usare veramente l'artista come un oggetto, toccandola intimamente, ferendola, tagliandole i vestiti. Marina accetta tutto senza muoversi, piange soltanto in silenzio, anche quando le succhiano il sangue dal collo. Diventa improvvisamente chiaro che l'artista si sta realmente prendendo la responsabilità di subire davvero su di sé qualsiasi atto, per quanto orribile e doloroso possa essere. In quella stanza rischia la morte e lo stupro, ma qualunque cosa accada non farà niente. Tocca al pubblico decidere cosa fare di lei. Con la naturale, crescente bestialità umana emerge parallelamente, come un vero esperimento sociologico, anche un atavico istinto di protezione: un gruppo di spettatori si incarica di proteggerla dagli assalti e quando un uomo le punta la pistola alla testa e sfiora il grilletto scoppia una rissa per fermarlo. Non appena la performance cessa e l'artista, in lacrime, si muove verso il pubblico, questo, che la riscopre umana dopo sette ore in cui l'ha usata come un oggetto, scappa via. 

 

Rhythm 0.

 

Nell'autobiografia Attraversare i Muri, (a cura di James Kaplan, Bompiani, trad. it. di Alberto Pezzotta) in uscita ora in concomitanza con la celebrazione dei 70 anni dell'artista nata a Belgrado, Marina attribuisce alla madre le origini di questa ferrea disciplina militare che le imponeva, da bambina, di resistere alle continue punizioni in un ambiente familiare assai teso. Eppure a prima vista, la sua famiglia aveva tutti i motivi per essere felice. I suoi genitori, ex partigiani comunisti, si erano incontrati durante la Seconda Guerra Mondiale salvandosi addirittura la vita a vicenda. Scrive James Westcott in Quando Marina Abramovic morirà, (Johan & Levi Editore, trad. it. di Irene Inserra e Marcella Mancini) che la loro storia “sembra la trama di un film sui partigiani”: il padre, Vojo, aveva raccolto Danica durante un'avanzata tedesca mentre giaceva tra i feriti ammalata di tifo; sei mesi dopo la donna lo avrebbe salvato donandogli il sangue dopo una ferita piuttosto grave. Scoppia il grande amore, i due si sposano e dopo la fine della guerra acquistano un'ottima posizione sociale. Vojo è considerato un eroe di guerra e lavora per Tito, mentre la madre è la direttrice del Museo di Arte e Rivoluzione di Belgrado, ma i due oramai si odiano e la bambina assiste a ripetuti litigi. Solo la nonna costituisce un rifugio di affetto, attraversato da superstizioni e riti di divinazione. Dalla lettura dei fondi del caffè, dai sogni, dalle figure luminose che Marina vede nel ripostiglio dove viene rinchiusa quando è in punizione, la futura performer sviluppa la graduale consapevolezza dell'esistenza di un mondo presente e invisibile nella realtà a cui lei desidera accedere. Già nell'adolescenza la goffa ragazzina vestita male, che cammina su scarpe ortopediche con due pezzi di metallo sotto le suole per scongiurarne il consumo, ha deciso che da grande sarà un'artista. La sua prima lezione d'arte è indimenticabile:

 

“A quattordici anni chiesi a mio padre l’attrezzatura per dipingere a olio. Lui mi comprò tutto l’occorrente, e mi fissò una lezione con un suo vecchio amico partigiano, un artista che si chiamava Filipovic´. (…) Filipovic´ tagliò un pezzo di tela e lo posò sul pavimento. Aprì un barattolo di colla e lo rovesciò sulla tela; aggiunse un po’ di sabbia e di pigmenti di vari colori – giallo, rosso e nero. Poi ci versò sopra mezzo litro di benzina, accese un fiammifero e fece esplodere tutto. “Questo è un tramonto,” disse. E se ne andò.

Ne fui molto impressionata. Aspettai che la tela carbonizzata si raffreddasse, presi dei chiodini e la appesi con cautela alla parete. Poi partii per le vacanze con la mia famiglia. Al mio ritorno era rimasto solo un mucchietto di cenere e di sabbia sul pavimento. Il tramonto non esisteva più.“

 

Marina impara l'arte come processo, un'azione necessariamente dipendente dalla presenza umana. Dopo essere entrata all'Accademia di Belle Arti di Belgrado e aver provato la pittura, si avvicina prima alla creazione di oggetti, per poi finalmente approdare alla performance con Rhythm 10 (1973), dove si colpisce ritmicamente con un coltello negli spazi fra le dita della sua mano spalancata cercando di non ferirsi. Da allora tutto il suo lavoro sarà basato sulla presenza: quella dell'artista e quella del pubblico, il cui ruolo con gli anni assumerà sempre più importanza. Se moltissime opere di Abramovic si declinano secondo una resistenza che è reazione alla realtà e quindi presenza attiva nello spazio, anche il pubblico nel suo esserci contribuisce e costruisce la performance stessa. La storia della sua arte è anche la storia del suo pubblico. Ci sono gli spettatori che corrono a salvarla dopo lo svenimento a causa della mancanza di ossigeno in Rhythm 5 (1974), dove sta sdraiata entro una stella di fuoco, o dal congelamento mentre giace su una croce di blocchi di ghiaccio durante Lips of Thomas (1975); ci sono quelli che imbarazzati attraversano i corpi di Marina e del suo compagno Ulay nello stretto l'ingresso in (1977) alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna. Il pubblico deve necessariamente reagire alla presenza esplicita dell'artista divenendo esso stesso una presenza attiva nell'opera.

 

Imponderabilia. 

 

Molte altre opere di Marina nascono da una presenza materiale per poi costituirsi come metafora dell'umano. L'artista parte da se stessa: è sulla sua vita, i suoi amori e la sua patria che incentra i soggetti delle proprie performance. Le idee alla base delle sue performance sono molto intelligenti perché sempre semplicissime, quasi elementari, similitudini essenziali e ridotte delle realtà. Con Balkan Baroque, l'opera che le varrà il Leone d'Oro alla Biennale di Venezia del 1997, mette in scena l'orrore della guerra in Iugoslavia nel modo più scarno, con un gran mucchio di ossa animali sanguinolenti che Marina pulisce fino all'osso, come cadaveri e ricordi – personali e collettivi – da purificare cantando vecchie canzoni popolari slave. Non è difficile intuire un sottotesto psicoanalitico in tutta la sua esperienza artistica: la patria originaria di Marina, costituita dalla Iugoslavia e dalla famiglia, è un posto diviso, tormentato da conflitti violenti, e l'artista reagisce a questa rottura ricercando nella performance la comunione nella creazione di un terzo io energetico prodotto dalla presenza di artista e pubblico. Da un fenomeno materiale e concreto, quale lo stare attivamente in uno specifico spazio tempo, si giunge a una consapevolezza mentale del tutto intangibile e incorporea ma divisa con gli altri. Condivisione diviene pertanto la seconda parola chiave per capire l'arte di questa performer. La sua presenza nella performance ha sempre un valore di disponibilità, di apertura al pubblico ed è assoluta: poiché Marina dà tutto – di volta in volta il suo tempo, la sua presenza, il suo dolore, la sua resistenza, la sua storia, perfino la sua vita – bisogna reagire, se non allo stesso modo accettando la sfida, almeno riconoscendole l'integrità degli intenti. 

 

Il decennale rapporto di amore e collaborazione con Ulay, con cui instaura un rapporto estremamente fusionale, produce una serie di azioni in cui la coppia d'artista esplora i limiti e le possibilità della relazioni interpersonali. Ulay e Marina si scontrano coi corpi, si vengono incontro sulla Grande Muraglia Cinese, respirano l'uno l'ossigeno dell'altro, si schiaffeggiano, si fissano in silenzio per ore. L'artista definisce il loro lavoro come “simmetria tra il principio maschile e femminile” che genera “una terza esistenza portatrice di energia vitale”, ma la ricerca di questa energia si mantiene anche dopo la fine della relazione amorosa, e con The Artist is Present (2010), il più celebre fra i suoi ultimi lavori, il pubblico si concretizza definitivamente come diretto collaboratore di Marina. Qui sono presenti, amplificati al massimo, tutti gli elementi ricorrenti del suo lavoro: la presenza dell'artista, seduta a una sedia davanti a un tavolo per tre mesi otto ore al giorno; l'immobilità totale; soprattutto il rapporto con gli spettatori, seduti sulla sedia di fronte, a cui stavolta Marina offre completamente il proprio sguardo per tutto il tempo che desiderano. La sua presenza è insieme disponibilità, dedizione, resistenza alla fatica dell'immobilità e dialogo di occhi ed energie nascoste. Tutto ciò sempre per un lungo periodo di tempo. Non è un caso che tutte le performance di Marina siano lunghissime prove di forza: è sul tempo, che lei definisce prezioso perché al giorno d'oggi “sempre più corto” che si dipana la presenza sempre attiva dell'artista, nell'azione ritmica, nell'immobilità forzata, nel dialogo muto col pubblico.

 

Arrivata ora a 70 anni, Marina ha sviluppato questo rapporto col pubblico a tal punto da insegnare ad esso stesso con l'Abramovic Method, a stare nello spazio: una concezione dell'arte piuttosto generosa, quale forma di condivisione nella quale l'artista passa dal creare la performance insieme al pubblico allo spingerlo a divenire esso stesso una sorta di performer. Sono esercizi elementari come le sue opere, ma utili a raggiungere quello stato di consapevole presenza che sembra così difficile mantenere nella società odierna. Richiedono concentrazione, dedizione e disponibilità; in altre parole, comportano fatica e resistenza, soprattutto per chi oramai è abituato a frantumare la propria presenza nel mondo in miriadi di pensieri e distr-azioni. Forse se il lavoro di Marina Abramovic affascina ancora, è proprio per questa concezione dell'arte come un lavoro serissimo che esige una totale responsabilità e impegno: lei lo ha concretizzato in una presenza fisica così estrema e consapevole da meritare rispetto e attenzione, perché essere davvero presenti nel mondo è un tale atto di resistenza contro il dolore, la debolezza, la noia e il desiderio di oblio che al giorno d'oggi assume tratti a dir poco rivoluzionari.

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