Danilo Montaldi / La letteratura della ligèra

30 Settembre 2020

Con il termine gergale leggera (dall’etimo controverso; anche ligèra, lingèra ecc.) si intendeva, fino a circa mezzo secolo fa, il circuito della vecchia malavita padana animato da pescatori di frodo, ricettatori, ex galeotti, macrò, contrabbandieri, ladri di polli, ambulanti e altri pittoreschi dropout attivi soprattutto tra Milano e il contado cremonese. Questo umile microcosmo canagliesco avrebbe trovato il proprio etnografo d’eccezione nel giovane Danilo Montaldi, «geniale figura di sociologo antiaccademico e va-nu-pieds, comunista eretico e attivista instancabile, irriducibile», che dalla metà degli anni ’50 avrebbe raccolto “sul campo”, dalla penna dei diretti interessati, le storie di vita di alcuni di questi antieroi della marginalità, poi introdotte e annotate nelle indimenticabili Autobiografie della leggera pubblicate una prima volta da Einaudi nel 1961.

Nel suo recente libretto, Narratori della leggera. Danilo Montaldi e la letteratura dei marginali (Carocci), da cui proviene la didascalia di poco sopra, Fabrizio Bondi ha inteso tracciare una vera e propria «biografia» del capolavoro del sociologo cremonese: dai motivi ispiratori del progetto (il rapporto tra letteratura e politica, nel solco di Vittorini e del suo “Politecnico”) alle circostanze compositive, dalla straordinaria qualità narrativa delle cinque memorie pubblicate alla loro fortuna presso alcuni esponenti della cultura letteraria del secondo Novecento.

 

 

La ricostruzione di Bondi, che si avvale anche di documenti inediti conservati presso l’Archivio di Stato di Cremona, si apre su un mancato appuntamento con Fortini, nel giugno del ’55 (in appendice la densa e un po’ risentita lettera di Montaldi, scritta pochi minuti dopo il “bidone”, e la risposta del poeta, da cui originerà un intenso confronto); prosegue con le successive esperienze di giornalismo culturale per poi, tra digressioni e intermezzi, approdare alla lunga introduzione apposta dall’autore alle sue pionieristiche Autobiografie: uno scritto che, in barba a ogni sociologismo, dialoga soprattutto con lo sguardo etnologico dell’ultimo Pavese e il surrealismo di Breton, e che nei presupposti sembra d’altra parte anticipare la microstoria di Carlo Ginzburg (ma Il formaggio e i vermi, vero incunabolo di metodo, uscirà soltanto nel 1976). Se quello della leggera padana, negli anni in cui Montaldi si aggira tra baracche e osterie sulle tracce dei suoi uomini «di boscho e di acqua», è infatti un mondo già tramontato, come tale omaggiato con nostalgia nelle famose “canzoni della mala”, ecco che i racconti dei suoi vecchi rappresentanti finiscono per testimoniare, fatalmente, di una più profonda dinamica socio-culturale, un senso di sradicamento e mut(il)azione che investe l’intera civiltà rurale del dopoguerra, sotto l’avanzare di una stridente modernizzazione.

 

I ribelli montaldiani condividono sì, nota Bondi, una sorta di “araldica” malandrina, perlopiù mutuata dai vecchi romanzi di cui si nutre il loro immaginario (su tutti, il personaggio di Rocambole creato da Ponson du Terrail), e però non c’è dubbio che per quanto riguarda la loro “opera”, quelle storie di cui Montaldi loda la «rozza e realistica autenticità», dove l’urgenza dell’affabulazione rompe qualunque argine logico-sintattico, sia la tradizione carsica del racconto orale la vera “fonte” da cui sgorga l’irresistibile fascino delle Autobiografie di Orlando P., Teuta e compagni – in questo senso, il riferimento al celeberrimo saggio di Benjamin sul Narratore, per quanto inevitabile, da un lato ne problematizza la dicotomia tra narratori stanziali e itineranti, introducendo il polo di un narratore “picaro”, sempre ai margini (e bene ci sarebbe stato, magari, un entracte genealogico sulla gloriosa e rattoppata stirpe cui i cantori della leggera appartengono, e che affonda le radici nell’universo furfantesco poi esplorato da Piero Camporesi nel suo Libro dei vagabondi); dall’altro è indicativo, tale riferimento, di come il pionieristico lavoro di Montaldi, subito frainteso da vari esponenti della sinistra più e meno ortodossa, si presti a dialogare con alcune tra le più alte esperienze letterario-filosofiche del secolo scorso (il pensiero, non meno istintivamente, corre anche a Foucault, a Deleuze e Guattari).

 

Agli equivoci che caratterizzano la ricezione delle Autobiografie sono appunto dedicati i capitoli finali del libro di Bondi, che sottolinea come il generale interesse critico per la letterarietà dei memoriali dei ligèra – una letterarietà quanto mai bassa e “primordiale” – vada d’intesa con i rifiuti e le incomprensioni sul piano tanto metodologico quanto ideologico, quasi un tentativo di esorcizzare la «perturbante verità sociopolitica» delle esistenze devianti scavate e portate alla luce da Montaldi.

Tra gli interpreti più simpatetici, non stupisce trovare due outsider per antonomasia delle nostre lettere come Pier Paolo Pasolini e Gianni Celati, scrittori tra loro distanti eppure accomunati dalla ricerca dell’Altro da sé come Altro che è in sé. Il primo, già antropologo di un edenico sottoproletariato capitolino, intervenendo a più riprese sulle Autobiografie scriverà a proposito di «una vera e propria rivoluzione stilistica», in cui il parlato non è banalmente “registrato” o meccanicamente riprodotto, bensì frutto di una ricerca personale «al servizio di quella evocazione della propria vita come fatto sia pure umilmente irripetibile, e magari ineffabile»: come «avventura del proprio passaggio sulla terra».

 

 

Il secondo sarà un entusiasta lettore delle Autobiografie della leggera fin dalla prima edizione Einaudi (come Bondi correttamente sospetta), impiegate come repertorio lessicale nella sua impresa di traduzione (in coppia con Lino Gabellone) dell’argot di Céline tra ’70 e ’71, quindi vagliate negli stessi mesi come esempio di autobiografismo autre per “Alì Babà”, il progetto di rivista in combutta con Calvino, Ginzburg e altri (dei cui materiali preparatori Barenghi e Belpoliti hanno curato la pubblicazione). 

La fascinazione per le voci della leggera, d’altro canto, rientra nel più vasto interesse del giovane Celati, precoce lettore di Lévi-Strauss e Foucault, per quello che il suo mentore Calvino battezzerà récit brut: temi scolastici sgrammaticati, memorie di folli, reietti ecc., intese come «quella parte di pensiero selvaggio che fa parte integrante delle nostre attitudini verso il reale e che la nostra cultura ha cercato di distanziare da sé, quando ne è venuta a conoscenza [...], che ha chiuso fuori dal museo perché non dava lustro alla Storia» (La ragione degradata, “Uomini e idee”, maggio/agosto 1966). Forme di scrittura subalterna basate su «una lingua di pure carenze», «capolavori di contestazione» (sono sempre parole dell’autore di Comiche) cui si ispirano lo «slogamento sintattico», i solecismi, il «continuum ritmico-respiratorio» dei primi romanzi di Celati – e qui a scrivere è Bondi, che alla sintassi delle Autobiografie e al loro eccezionale vocabolario dedica tuttavia non più che qualche cenno.

 

È (anche) alla luce di tale calderone espressivo che si spiega, insomma, il pastiche linguistico di un’opera come Le avventure di Guizzardi (1973), la cui narrazione guarda però, notoriamente, alla comicità slapstick e ai campioni della letteratura picaresca: dal Lazarillo de Tormes a Pinocchio a Twain a Beckett. Più convincente, allora, il paragrafo su Narratori delle pianure (1985), avvio del “secondo tempo” celatiano che, fin dal titolo, sembra dichiarare un affettuoso debito nei confronti del libro di Montaldi (del suo «spirito», più che della “lettera”): «L’idea di un paesaggio – e non a caso di un paesaggio padano –, e delle storie che vi sono per così dire riposte, che vi circolano facendo parte di un’unica geografia, psichica umana e naturale, non è infatti molto lontana da quello [delle Autobiografie]».

 

 

In Narratori della leggera di Fabrizio Bondi, che è anche un’agile introduzione alla sempre malnota figura di Montaldi (scomparso nel 1975 a soli quarantacinque anni), manca purtroppo un capitolo specificamente dedicato alla vicenda editoriale delle Autobiografie – assenza tanto più significativa per un intellettuale che, in veste di consulente o redattore, collaborò con le principali case editrici dell’epoca. Qualche anno fa, in un medaglione dedicato ai trascorsi einaudiani di Renato Panzieri, altro comunista eretico, Luca Baranelli ha ricordato che le prime copie a stampa del libro di Montaldi, accolto nel 1961 in “La nuova società” dello stesso Panzieri, avrebbero scatenato il panico in redazione a causa di certi dettagli “scabrosi” contenuti nella storia dell’ex prostituta Cicci, evidentemente lungi dall’urtare la sensibilità di autore e direttore di collana (a questa vicenda Bondi accenna vagamente): la tiratura sarebbe finita al macero, e il testo delle Autobiografie della leggera pubblicato dopo opportuna censura redazionale (una sorte simile, macero a parte, toccherà dieci anni dopo a Comiche di Celati).

 

Nonostante ciò, è forse al successo incontrato dall’opera presso scrittori e artisti degli anni ’60, sedotti dall’epos creaturale di Cicci e Orlando, che si dovrà la diversa veste pensata da Einaudi per la seconda edizione delle Autobiografie: dalla sfortunata “Nuova società”, chiusa nel 1962, della princeps (in copertina un’elegante grafica minimal di Bruno Munari), alla promozione negli “Struzzi”, la celebre collana economica della Casa, con il lussureggiante dettaglio di un quadro naïf a illustrare il titolo.

La recente edizione Bompiani del 2012, sulla cui copertina campeggia una sublime via Emilia in rovina di Luigi Ghirri, sembra in fondo ribadire la stabile annessione delle Autobiografie della leggera al filone zavattiniano della nostra cultura (al quale, in un certo senso e malgrado il loro autore, sembrano appartenere di diritto).

Difficile dire meglio, ancora, di Gianni Celati – naïf colto e malinconico, ultimo ligèra della letteratura italiana –, come si legge in L’angelo del racconto (1988), scritto di taglio benjaminiano che Bondi elegge a bussola del capitolo conclusivo (e forse dell’intero libro): «Il narratore della leggera usa la narrazione come ascolto del mondo, ascolto del mondo attraverso le parole che ne parlano».

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