Lingue / Etel Adnan, una vita fuori posto

17 Marzo 2019

Out of place

 

L’incontro con la pittura di Etel Adnan è inaspettato. Raccogliendo materiale sul plurilinguismo mi capita tra le mani un breve memoriale che contiene molto più di quanto promette il titolo: To write in a foreign language (1984), adattato in francese nel 2014: Ecrire dans une langue étrangère.

Leggendolo mi viene in mente il titolo di un altro memoriale, scritto contro il tempo quando l’autore sapeva di avere i giorni contati: Out of place di Edward W. Said. Una vivida ricostruzione della catena di esili – Gerusalemme, Palestina, Libano, Egitto, Stati Uniti – che ha segnato la sua esistenza e in cui si legge, in filigrana, la geopolitica del Novecento. Americano, palestinese, cristiano: Said dispiega l’impressionante trans-culturalità con la quale ha fatto i conti tutta la vita, consapevole che colui che ha più identità e vive in luoghi diversi ha un bagaglio di esperienze più ricco ma, in fondo, non ha una patria né una casa che gli appartenga. 

È la ragione per cui, a forza di trasferirsi da una costa all’altra dell’Atlantico, Adnan ha accumulato e conservato poco e gettato molto. “Non mi sono mai sentita al cento per cento a casa mia. […] ho un’incapacità cronica a stabilirmi da qualche parte, al punto che a volte sono più a mio agio in un hotel. Noi altri del Mashriq apparteniamo a una cultura nomade anche se, paradossalmente, abbiamo anche le città più antiche del mondo”.

Così Said che, sin da piccolo, ha “la sensazione dominante di essere sempre fuori posto”. Non ricorda se ha imparato prima l’arabo o l’inglese, né quale delle due lingue gli appartenga più dell’altra: “le due mi hanno accompagnato lungo la mia esistenza, una risuona nell’altra, a volte in modo inaspettato, a volte in modo nostalgico, il più delle volte una corregge e commenta l’altra. Ciascuna può sembrare in assoluto la mia prima lingua, ma nessuna delle due lo è”. Come l’esiliato che fa dell’esilio la sua natura e del linguaggio la sua unica patria; a ricordarlo è Edmond Jabès che, con Said e Adnan, forma una costellazione elettiva di scrittori che, ovunque andassero, non hanno mai smesso di sentirsi fuori posto.

 

 

Una vita senza restanza

 

Non è possibile avvicinarsi alla pittura di Eten Adnan senza perlomeno sorvolare la sua biografia. Sollecitata da più fronti a scrivere un’autobiografia dei suoi primi anni, lei stessa ama attardarsi sulla storia della sua famiglia, sospesa tra Impero ottomano e occidente, tra una sponda e l’altra dell’Atlantico.

La lingua, si sa, è anzitutto un affare domestico, che si costituisce all’interno del nucleo familiare. La madre, nata a Smirne in una comunità greca, studia francese in una scuola cattolica e parla turco senza averlo mai studiato. Il padre, un arabo di Damasco educato alla scuola coranica, è un ufficiale ottomano che si forma a Istanbul quando la Turchia è alleata con la Germania, e impara assieme turco, tedesco e francese. Lui musulmano lei cristiana, tra di loro parlano turco che, all’interno della popolazione disomogenea dell’Impero ottomano, non è la lingua più diffusa. Pochissimi i dipinti in casa, come a Beirut: nei paesi arabi, precisa Adnan, è più comune trovare tappeti e ceramiche che dipinti a olio, che si conservano male a causa del clima. Pochi anche i libri in casa, tra cui spicca un dizionario turco-tedesco del padre, che l’artista compulsa come fosse un romanzo.

Etel Adnan nasce a Beirut, parla greco e turco fino a cinque anni e viene educata in francese: “Studiavamo sugli stessi libri dei bambini francesi in Europa, la capitale del mondo sembrava essere Parigi, e imparavamo i nomi di una miriade di cose di cui non avevamo mai sentito parlare prima e che non avevamo mai visto: i fiumi francesi, le montagne francesi, la storia delle genti ‘dagli occhi blu’ che avevano costruito un impero”. E ancora: “In qualche modo respiravamo un’aria in cui si aveva l’impressione che essere francese era superiore a tutto e siccome ovviamente francesi non eravamo, la cosa migliore da fare era perlomeno parlare francese”. 

Sottesa a questa educazione cattolica vi era una precisa gerarchia linguistica, dove il predominio del francese comportava l’odio della Germania e della lingua tedesca – o meglio della prima attraverso la seconda –, e soprattutto il discredito dell’arabo. Parlare arabo a scuola era considerato un peccato al punto che vigeva un sistema di delazione: alcuni allievi spiavano i loro compagni, per assicurarsi che in classe o durante la ricreazione si esprimessero esclusivamente nell’idioma francese. Chi era colto in fragrante a parlare arabo, era punito con una pietra in tasca. In terra araba, l’arabo era diventata una lingua fantasma. 

 

 

Non tutto è perduto: attraverso l’apprendimento dell’arabo nascerà la passione per l’arte. Guardando il padre riempire con cura delle carte amministrative con una penna stilografica, Adnan comincia a copiare l’alfabeto arabo. Il padre le dà il consiglio meno pedagogico e istruttivo del mondo: se copi la grammatica pagina per pagina, alla fine avrai imparato l’arabo. A forza di copiare una lingua incomprensibile Adnan, c’era da aspettarselo, non fa grandi progressi in arabo; in compenso, resta affascinata da quei segni di cui coglie il significante ma non il significato: “credo che amassi il fatto di scrivere delle cose che non capivo, pretendendo di apprendere una lingua senza sforzi, limitandomi a scriverla”. Fatto sta che quando, per pressioni politiche, le scuole francesi propongono due ore opzionali di arabo a settimana, lei sceglie il latino.

Il tempo passa e Beirut diventa una città poliglotta: per le strade si sente parlare inglese e francese. Cosa era successo? che era scoppiata la Seconda guerra mondiale e che, alla comunità residente composta di greci, italiani, curdi e armeni, si aggiungevano ora australiani, canadesi, neozelandesi, neri africani, polacchi. Cominciava il declino della francofonia, e non solo in Libano.

Appassionata di autori quali Charles Baudelaire, Gérard de Nerval, Arthur Rimbaud e Verlaine grazie al magistero dello scrittore Gabriel Bounoure, a vent’anni Adnan comincia a scrivere poesie in francese come Le Livre de la Mer. Prima poesia primo problema di traduzione perché, come sanno bene i poliglotti, le parole hanno risonanze diverse in lingue diverse, al punto che non si dicono né si pensano le stesse cose in una o nell’altra lingua. Ora, in arabo, al contrario del francese, il mare è maschile e il sole femminile. “Nel suo complesso la poesia sviluppa una metafora secondo la quale il mare è una donna e il sole un guerriero o perlomeno un principio maschile. Quindi la poesia non solo è intraducibile in arabo ma, propriamente, non è pensabile in arabo”.

 

Etel Adnan, Bern Tourism.


Dopo esser passata per Parigi, nel gennaio 1955 Adnan va a New York e poi in California per studiare filosofia – “Passare dalla Sorbona a Berkeley nel 1955 era come cambiare pianeta”. Impara l’inglese leggendo poesia, a partire da Ezra Pound, ma anche le cronache di sport americani quali il baseball e il football, sui quali si diverte a conversare con i suoi amici americani sfoggiando la sua padronanza dei termini più tecnici. Parallelamente, così lontana da casa, entra in contatto con la comunità araba e si rende conto della situazione politica in Medio-Oriente.

Scoprire una lingua, scoprire un mondo: “Guidare la macchina su un’autostrada americana era come scrivere una poesia col proprio corpo”. Resta in California per insegnare filosofia dell’arte in inglese ma continua a parlare e a pensare in francese, finché scrive di getto la sua prima poesia contro la guerra in Vietnam direttamente in inglese, ottenendo persino il plauso di Bobby Kennedy per il suo The Ballad of the Lonely Knight in Present-day America.

Ma la restanza non fa per Adnan, così nel 1972 torna a Beirut e, quasi senza accorgersene, anche alla lingua francese. Nel 1975 scoppia la guerra civile in Libano e due anni dopo si rifugia a Parigi, dove scriverà Apocalypse arabe (1980). Che si trovi in California o in Francia, la mente torna sempre al Libano. “Se le identità fossero solide, non ci sarebbe civiltà ma nient’altro che piccole culture locali. Cos’è una civiltà? Una serie di elementi provenienti da tutte le parti che diventano come degli arazzi, delle costruzioni”. Ritorna di nuovo in California e alla lingua inglese e così via, in un andirivieni che solo il raggiungimento dei novant’anni ha rallentato.

 

Dipingere in arabo

 

L’esistenza di Adnan è un periplo incessante in cui le lingue sono radicate a luoghi specifici, a comunità di parlanti ma anche ai grandi problemi sollevati dalla religione, dal senso di appartenenza, dalle contingenze storico-politiche. Il francese? per lei è quello dei poeti della resistenza che legge a scuola in Libano, quello delle proteste del ’68, ma anche quello colonialista ai tempi della guerra civile per l’indipendenza dell’Algeria.

Esiste una via d’uscita? Ecco che fa capolino la pittura. Le parole sono cariche di memoria storica e portatrici di gesti politici eclatanti, s’immischiano alla vita quotidiana, si appiccicano agli eventi politico-sociali e da questi sono inestricabili. Non è così per i colori, la cui giustapposizione è libera dalla logica della frase. “In fin dei conti, nel corso degli anni, mi sono resa conto che l’aspetto felice del mio carattere si è espresso nella pittura. Forse perché i colori non hanno un senso preciso o unico”. Davanti alle tragedie della storia, Adnan trova nella pittura un modo per esprimere la bellezza del mondo circostante.

La rivelazione della pittura si manifesta per caso, a 34 anni, negli Stati Uniti, mentre copia una poesia in arabo in un acquerello. Il momento è epifanico: Adnan decide che quella scrittura araba non si farà calligrafia ma, insistendo sul suo aspetto plastico, pittura: “non avevo più bisogno di scrivere in francese, avrei dipinto in arabo”. “L’arte astratta era l’equivalente dell’espressione poetica; non avevo bisogno di utilizzare le parole ma dei colori e delle linee”. Copiando una parola araba dietro l’altra senza comprenderne il significato, si ricongiunge alla sua infanzia, a quella personale della sua famiglia, a quella della poesia araba – gli iracheni Badr Shakir al-Sayyab e Saadi Youssef, il cantante egiziano Cheikh Imam, il marocchino Abdellatif Laâbi –, consapevole che, nella cultura islamica, pittura e poesia si danno spesso insieme.

 

 

Che usi i pastelli o i colori a olio, Adnan ama stendere i colori con una spatola senza mischiarli. A questi aplat è riconosciuta una forza intrinseca, una presenza che non ha bisogno di essere trasformata per rappresentare altro da sé. Il risultato è un paesaggio stilizzato come può esserlo un quadro di Klee, davanti al quale mi sento sempre a disagio a disquisire di astrazione o figurazione, e vorrei avere a disposizione un terzo termine che li include entrambi. Come la generazione di pittori americani degli anni sessanta, Adnan si sforza di trasferire il colore dal tubetto direttamente sulla tela, senza mediazioni, facendo attenzione a circoscrivere l’intervento della mano e della sua soggettività. Trova così, nella pratica pittorica, nel fare e non nella forma, un’euforia sorgiva che si trasmette intatta ai suoi spettatori. Forse perché, come ricorda, chi soffre si lamenta meno di chi vive agiatamente, e Adnan ha imparato a vivere tra le catastrofi storiche, che la coinvolgono anche quando è lontana dal loro epicentro.

Mentre è in California, ad esempio, continua a interessarsi al Medio-Oriente, un termine colonialista creato dai britannici per indicare una terra a metà strada sulla via delle spezie verso l’India. Adnan preferisce parlare di Mashriq, terra del levante o dei raggi di luce, che indica il mondo arabo orientale, l’Est del Mediterraneo fino al Golfo. Ma mentre è in California s’innamora anche del paesaggio circostante: a Sausalito, vicino San Francisco, scopre il Monte Tamalpaïs, che gli ispira molti dipinti e un libro, Journey to Mount Tamalpaïs (1986).

 

 

Che si chiami Sainte-Victorie o Fuji (penso ovviamente a Cézanne e Hokusai) o Tamalpais, la montagna diventa l’oggetto di un’ossessione visiva. Fissando lo sguardo su un oggetto che si trasforma assieme agli stati d’animo di chi la guarda, ogni volontà di rappresentazione entra in crisi. I disegni diventano sismografi del processo percettivo in corso. Un modo di accertarsi che il sé e il mondo esistano? Che vi sia una circolarità segreta tra i viventi? “Un giorno, davanti una telecamera in uno studio televisivo, mi hanno rivolto la seguente domanda: ‘Qual’è la persona più importante che ha mai incontrato?’, e ricordo di aver risposto: ‘Una montagna’. Tamalpaïs era ancora al centro del mio essere”. Ma non appena si tocca la sfera del linguaggio, la situazione si complica; persino davanti a questo paesaggio montano rarefatto infatti le parole continuano a stringere la loro morsa sulle cose: gli Indiani chiamano la montagna Tamal-pa (quella che è vicino al mare), gli Spagnoli Mal-Pais (paese malvagio), come se parlassero di due montagne diverse.

“Ho instaurato un rapporto molto forte con la presenza di una montagna. Credo tra l’altro che questo mi abbia aiutato a non sentirmi esiliata”.

 

La lingua che avrebbe dovuto essere materna

 

In quanto pittrice, Adnan ha conosciuto il successo internazionale solo nel 2010, grazie alla galleria Sfeir-Semler (Amburgo e Beirut) e, nel 2012, alla Documenta 13, oltre a critici come Obrist. 

Oggi è una giovane novantatreenne che ha una pratica regolare della scrittura e della pittura. Il turco l’ha dimenticato ma parla e scrive correntemente in greco, francese e inglese. In quanto all’arabo, a seconda delle interviste la versione è leggermente diversa, spia che si tratta di una ferita non rimarginata: non lo ha mai appreso; lo orecchia all’orale quando lo sente in strada; decifra la prosa ma non la poesia; non coglie il senso dello scritto eccetera. “Era come vedere attraverso un velo, guardare una scena straordinaria attraverso uno schermo, come se lo schermo non nascondeva le immagini ma si limitava ad attenuarle”. Di certo “l’arabo è rimasto per me un paradiso proibito. Sono insieme una straniera e una nativa della stessa terra, della stessa lingua che ‘avrebbe dovuto’ essere materna”. L’arabo – la lingua che avrebbe dovuto essere materna – diventa il centro cavo della sua identità multidimensionale e, per utilizzare una sua immagine, sferica. L’astrazione pittorica le ha dato, se non un linguaggio, una modalità d’espressione che, da un paese all’altro, non cambia colore come una bandiera.

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