Trump, Re Lear e Re Giorgio / La pazzia di re Donald

28 Marzo 2018

“Thurlow: Sua Maestà sembra tornato se stesso.

George III: Davvero? Sì, è vero. Sono sempre stato me stesso, anche quando ero malato. Solo che ora sembro me stesso. E questo è ciò che conta. Mi sono ricordato come devo sembrare.”

Alan Bennett, La Pazzia di Re Giorgio

 

Il sovrano pazzo è uno dei grandi tropi letterari di tutti i tempi. Da Re Lear a Re Giorgio, ha fornito a drammaturghi e commediografi un’impalcatura per esplorare le relazioni fra razionalità e potere, carisma, fedeltà, politica e famiglia. Lo schema classico prevede un leader che mette in crisi l’ordine costituito cominciando a comportarsi in maniera bizzarra. Il dramma (o la commedia) segue da una parte l’evolversi della follia del re, fornendo indizi sulla sua psiche e le cause del malessere; dall’altra le reazioni della corte, gli intrighi volti limitare i danni politici, o a sfruttarli per ambizione personale.

Gli ultimi mesi della presidenza di Trump sono stati fonte di delizia per gli amanti di questo genere. Tutti gli elementi sono venuti a galla e hanno tenuto banco sui media, tanto che per la prima volta dai tempi di Reagan il medical check presidenziale è finito sulle prime pagine dei giornali. Il medico di corte ha rassicurato i sudditi: il presidente è in gran forma, anche se mangia troppi hamburger e dovrebbe cercare di fare più moto.

 

La salute mentale dell’uomo più potente del mondo, e specialmente di un presidente eletto dal popolo, è tema alquanto delicato. Tanto per cominciare, chi decide che il presidente è pazzo? La costituzione degli Stati Uniti prevede la possibilità che il presidente venga sollevato dal suo incarico per ragioni di salute (nel venticinquesimo emendamento), ma tali prerogative non sono mai state utilizzate nella storia della Repubblica. In casi speciali sarebbe sufficiente una decisione unanime da parte di tutti i membri del Gabinetto, ma una linea troppo sottile separa questa decisione dal colpo di stato. Perfino negli ultimi anni della presidenza di Reagan (che soffriva di Alzheimer) si preferì costruire un cordone di sicurezza intorno al presidente piuttosto che destituirlo.

Che il presidente governi da solo, d’altra parte, è soltanto un mito. Ma uno dei problemi centrali della presidenza di Trump è proprio con chi governa il presidente. La candidatura e la vittoria di Trump sono stati subiti dall’establishment repubblicano, e l’ostilità reciproca ha impedito di coinvolgere i membri più esperti del partito nella formazione del governo. I primi mesi sono stati un tourbillon di ministri, capi di gabinetto e addetti stampa, prima assunti, poi licenziati, e spesso alla fine anche indagati. In questo momento le posizioni chiave sono presidiate da membri della famiglia, da pochi repubblicani lealisti, e da molti ex-generali dell’esercito.

 

L’uscita del libro di Michael Wolff, Fire and Fury, ha mostrato al mondo una Casa Bianca in preda al caos, dove la maggioranza dei collaboratori parla apertamente di Trump come di un cretino (‘idiot’ and ‘fool’ sono i termini più usati; gli amanti del genere apprezzeranno il ritorno del shakespeariano ‘foole’, intraducibile combinazione di ‘pazzo’ e ‘stupido’). Trump viene descritto come una scheggia impazzita, capace di prestare attenzione solo per pochi minuti, e con una tendenza preoccupante a ripetere ossessivamente le stesse frasi. Se la descrizione di Wolff fosse vera anche soltanto a metà, si potrebbe dire che la presidenza degli Stati Uniti è affidata in questo momento a una persona perlomeno disfunzionale – nel senso che potrebbe non essere in grado di svolgere adeguatamente le funzioni del suo ruolo istituzionale. 

 

Illustrazione di Danny Hellman.


Ma tutto questo non risponde ancora alla domanda cruciale: il presidente è pazzo? 

C’è chi non ha dubbi. Già nell’estate scorsa un gruppo di psichiatri capitanati dalla Professoressa Bandy Lee (della Yale Medical School) aveva avvicinato alcuni deputati per avvertirli dei sintomi di infermità mentale mostrati da Trump. A ottobre, in un pezzo uscito sull’Huffington Post, questi psichiatri hanno esortato il Congresso a creare una commissione di esperti per monitorare la salute psichica del presidente. E nel mezzo della crisi diplomatica con la Corea del Nord, sempre Bandy Lee ha sostenuto in diverse interviste che i poteri eccezionali del Presidente – il quale può ordinare un attacco nucleare senza consultare il Congresso – giustificano la creazione di procedure eccezionali per la verifica del suo stato di salute. (Il Generale John Hyten intanto ha affermato pubblicamente che disubbidirebbe a un ordine illegale di lanciare un attacco nucleare. Questo ci fa stare un po’ più tranquilli. O forse no…: perché ha sentito il dovere di dirlo?)

 

Le dichiarazioni di Bandy Lee e dei suoi colleghi riaprono un antico dibattito all’interno della professione medica, che riguarda sia la deontologia che il ruolo sociale degli psichiatri. Dato lo stigma che accompagna la malattia mentale, che diritto hanno gli psichiatri di valutare i comportamenti delle personalità pubbliche? Mentre Sigmund Freud non si faceva scrupoli ad analizzare i comportamenti di personaggi storici che non aveva mai avuto il piacere di incontrare, gli psichiatri americani hanno sentito il bisogno di regolamentarsi per mezzo della ‘Goldwater Rule’, un principio deontologico che proibisce la diagnosi in assenza di una visita condotta faccia a faccia con il paziente.

La Goldwater Rule non soltanto limita le attività ‘pubblicistiche’ degli psichiatri (nel caso ve lo foste chiesto: ebbene sì, Bandy Lee sta per pubblicare un libro su Trump) ma ci ricorda che il rapporto fra psichiatra e paziente comincia solitamente da una richiesta di aiuto. Il paziente cerca la diagnosi e la cura per risolvere un problema e per alleviare le proprie sofferenze. Ma anche se la richiesta arriva da una terza parte – da un famigliare, o da un tribunale – l’intervento del medico è volto ad affrontare un comportamento che provoca sofferenza nel paziente o in coloro che gli stanno intorno.

 

Tutto questo non è sorprendente: la stragrande maggioranza dei concetti che utilizziamo nella vita quotidiana e nella scienza medica per identificare gli stati mentali sono definiti in modo funzionale. La memoria è la funzione che ci permette di conservare episodi e informazioni apprese nel passato. La paura è l’emozione che ci permette di reagire a eventi pericolosi, per preservare la nostra incolumità fisica. Simmetricamente, le malattie mentali non sono altro che disfunzioni che impediscono di svolgere in modo efficace i compiti cognitivi e sociali necessari per condurre una vita normale e soddisfacente.

Ma che cos’è ‘normale’ o ‘soddisfacente’? Il funzionalismo mette in luce un aspetto importante e altamente problematico della psichiatria: il concetto stesso di malattia mentale (e quindi la diagnosi) è in parte normativo. La pazzia è solitamente associata al disagio personale, ma tale disagio è anche in parte un disagio sociale. Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (la ‘Bibbia’ della psichiatria) si legge per esempio che “una risposta prevedibile o culturalmente approvata a uno stress o a un lutto comune non è un disturbo mentale”. La pazzia è relativa al contesto sociale, alle norme e alle aspettative di chi ci circonda.

 

Che cosa c’entra tutto questo con Trump? C’entra, perché un presidente disfunzionale è un presidente che crea scompiglio. Sul lavoro, tanto per cominciare, che purtroppo è anche uno dei lavori più importanti del mondo. Ma sono stati gli elettori a dargli quel lavoro, e nel caso di Trump glielo hanno dato in parte proprio perché speravano che il presidente fosse disfunzionale. Mai come in questa occasione gli americani si sono rivoltati contro l’establishment, contro i politici di professione ma anche contro la classe dei professionisti (professori, avvocati, medici e scienziati) che a loro parere hanno tradito le aspettative della maggioranza degli cittadini.

 

La denuncia della psichiatra di Yale, in un contesto del genere, non fa che peggiorare le cose. Si può bollare facilmente come l’ennesimo tentativo, da parte di un membro dell’élite, di esercitare la propria (discutibile) autorità scientifica per sovvertire la volontà del popolo. Gli americani hanno eletto Trump perché non vogliono farsi comandare da gente come la Professoressa Lee. E in effetti molti elettori assistono compiaciuti alla tragicommedia che il re pazzo inscena ogni giorno alla Casa Bianca. 

Secondo una celebre interpretazione, Shakespeare nel Re Lear intendeva mettere in scena la contrapposizione fra due culture, due modi di fare politica che si stavano avvicendando nel Sedicesimo secolo. Da una parte, l’antica concezione medievale della sovranità, fondata sul rispetto dell’autorità, sulla benevolenza e sulla cooperazione. Dall’altra, la visione Machiavellica della politica, nella quale i valori morali servono solo a schermare l’ambizione e gli intrighi che costituiscono il fondamento del potere. Secondo questa lettura, la pazzia – intesa come trasgressione delle regole – diventa un tema politico nei momenti di grande trasformazione civile e sociale. Forse fra venti o trent’anni gli storici che rileggeranno la storia della follia di Trump giungeranno a simili conclusioni. Per il momento, Re Lear e Re Giorgio ci aiutano a seguire gli eventi con curiosità e con letterario distacco. (Se solo potessimo dimenticarci di quelle bombe atomiche…)

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