Elogio della densità

15 Maggio 2014

Dovevo pensare molto ai miei studenti di Etica della comunicazione, dopo aver terminato la lettura del libro di Giovanni Bottiroli, La ragione flessibile (Bollati Boringhieri, Torino 2013). Una delle difficoltà del confronto con l’etica – con l’etica come questione, prima ancora che come insegnamento – attiene certo al doppio movimento a cui il pensiero filosofico ci costringe. Lo descrive bene il libro: il pensiero “si avvicina alla realtà e ne rende conto mentre se ne allontana – e non si tratta di un’apparenza: se ne allontana in quanto la filosofia autentica non accetta di piegarsi mimeticamente verso l’effettualità. Non cerca verifiche immediate in regolarità empiricamente diffuse”. C’è in questo movimento qualcosa che indubbiamente contrasta con la spinta crescente alla semplificazione, e non solo in ambito scolastico o universitario. A questa spinta finiscono per conformarsi, del resto, non solo i desideri degli studenti, ma anche le stesse griglie di valutazione della didattica che dovrebbero stabilire la qualità di un insegnamento (sul tema è appena uscito Derrière les grilles. Sortons du tout-évaluation, a cura di Barbara Cassin, Mille Et Une Nuits, Paris 2014).


Quel doppio movimento a cui ci invita o, a seconda dei casi, ci costringe il pensiero filosofico è dunque, alla lettera, un movimento di separazione. Separazione da cosa? In primo luogo da quello che una luminosa espressione di Oscar Wilde definiva “il nostro mostruoso culto dei fatti”. Rispetto all’esempio del corso di Etica si potrebbe aggiungere: oggi, più che una presunta indifferenza, nulla offre in realtà maggior resistenza all’etica di un’aderenza ai fatti spacciata per criterio di vita: basterebbe attenersi ai fatti – e dunque a quei saperi che sono in grado di assemblarli in una sintesi allettante – e tutto sarebbe sistemato. In questo convincimento non solo il fatto è supposto essere identico a se stesso. Esso risponde inoltre a un desiderio di semplificazione, a sua volta inseparabile da una profonda voglia di armonia: di una realtà armonica, pacificata con se stessa, di cui non è mai necessario occuparsi. La semplificazione trova nella delega la sua espressione formale – in una delega che vale rispetto a ogni forma di impegno vincolante. È forse per questo che il culto dei fatti finisce per creare quella tiepida famigliarità che è data dal senso comune a cui appigliarsi.

 

Rispetto a questa dittatura dei fatti, di fronte alla miseria dell’effettualità ridotta a discorso del Medesimo, la critica di Bottiroli si nutre, tra l’altro, dell’intreccio tra filosofia e letteratura. La (cosiddetta) “filosofia” che ha impunemente creduto di poter emergere separandosi dalla ricchezza simbolica della letteratura è di articolarsi altrimenti che nei modi stentorei e irrigiditi di un linguaggio separativo: si tratta di un pensiero che, recidendo ogni legame con l’instabilità costitutiva della realtà, si affida ai fatti, cioè a quanto di questa realtà è dichiarato essere permanente. Una “filosofia” di questo tipo tende inevitabilmente a culminare in una cancellazione di quel conflitto in cui essa propriamente consiste. Nella forma che è risultata prevalente nella nostra cultura vengono così fatti valere unicamente quegli enunciati linguistici che si lasciano riportare a una logica della separazione.

 

Così davanti alla frase di Shakespeare I am not what I am, l’imbarazzo dinnanzi allo scandalo della contraddizione logica verrà tamponato considerando l’affermazione una mera espressione emotiva, concessa tutt’al più al poeta (le celebri licenze), ma non certo al filosofo (costui molto più serio). Oppure essa verrà totalmente fraintesa e tradotta con un generico e indolore “io non sono ciò che sembro”.


In questo irrigidimento dei canoni che pare offrire semplificazione alla complessità e che oggi passa spesso come capacità di far valere chiarezze, incuranti degli stereotipi che ne risultano, si assiste a una produzione di opere “prive di densità”: “Dicono quello che dicono – nelle opere mediocri il senso si dà come coincidenza”. Tutto, però, purché si preservi il pensiero (“la filosofia”) dal contatto con lo stile. Congiunzione inammissibile, quella tra stile e pensiero, essa conduce all’ideologia dello “zerostilismo” che fa come se il pensiero dovesse rinunciare allo stile, e per giunta ci riuscisse. Che uno stile, qualsiasi esso sia, compenetri sempre il pensiero significa che la densità resiste all’interno della scrittura, in barba alla riduzione a cui viene forzata. Denso è un testo proprio perché nella sua scrittura si compie “la non-coincidenza del senso”.


Ma la forza di un pensiero modale sta soprattutto nella capacità di collegare la cancellazione dello stile – come marca di una certa filosofia, che mai come oggi si fa valere come “la filosofia” – insieme alle implicazioni che questo gesto d’imposizione di una logica separativa ha avuto e sempre ha sui modi in cui articoliamo le nostre vite, il nostro modo di essere soggetti, parlanti, umani ovvero il nostro modo di essere identità flessibili, densità ovvero “disponibilità a più di un’articolazione, a più di un’interpretazione”.


Così la difficoltà stessa del soggetto di dirsi “io” – questione che i linguisti hanno affrontato sotto le insegne dello shifter – ha a che fare con il fatto che la singolarità di ciascuno è smarrita se si intende questo “io” non come l’atto linguistico di dirsi, ma con un pensiero di sé in cui l’“io” realisticamente inteso si coniuga nei termini dell’identità e della coincidenza con se stesso: “Il soggetto si scopre, o può scoprirsi – decisiva è la possibilità – come portatore di un non. Io posso non coincidere con me stesso: è sufficiente sperimentare questa possibilità perché la mia percezione ontologica cambi”.


La questione è allora se “essere se stessi” non significhi per il soggetto essere capaci di un’articolazione infinita, com’è infinito il desiderio che la permette e che ci spinge nella sua direzione. Del resto, questo desiderio di “essere se stessi” implica la necessità di comprendere quali siano le proprie possibilità essenziali, che non sono mai dati di fatto, mai cose tra le cose, ma una dimensione accessibile solo all’attività del pensiero, solo all’interpretazione come elaborazione della nostra singolare “densità”. Da qui l’importanza della letteratura: i suoi personaggi – quelli che abbiamo amato, quelli che sono rimasti indimenticabili, quelli con cui abbiamo tenuto duro sino all’ultima pagina e oltre – sono appunto questo, sono “interpretazioni delle possibilità” di quanto noi stessi siamo.

 

È per questo motivo che dentro la polisemia di questa densità da articolare vengono meno tutte le garanzie di cui vorremmo circondarci: il nostro progetto esistenziale sarà buono o no? quel determinato salto sarà giusto compierlo, e a cosa mi condurrà? L’etica non si dà che arrischiandosi in uno spazio in cui la certezza dei fatti è deposta. Qui ciò che conta è l’invenzione in cui un soggetto si scopre aperto, infinitamente più ricco di quanto ogni coincidenza gli permetterebbe mai d’essere.

 

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