Una conversazione / Monica Bonvicini: Lover's Material

1 Febbraio 2021

Fino al 21 febbraio 2021 la mostra personale di Monica Bonvicini, LOVER’S MATERIAL, a cura di Christina Végh, è ospitata alla Kunsthalle Bielefeld, in Germania. 

Nata a Venezia nel 1965, Bonvicini ha studiato Arte a Berlino e alla Cal Arts di Valencia, in California, per poi iniziare a esporre a livello internazionale a metà degli anni Novanta arrivando oggi ad essere tra gli artisti italiani più importanti e conosciuti in Italia e all’estero. 

Questo testo nasce da alcune conversazioni con l’artista (trascritte in corsivo), che ringrazio, volte a portare in luce gli aspetti peculiari sia dell’esposizione in corso a Bielefeld sia, in generale, della sua ricerca. 

 

Come per numerose opere di Monica Bonvicini, anche per la mostra a Bielefeld è necessario partire dal luogo espositivo per comprendere il suo concept: 

La Kunsthalle Bielefeld è l’unico museo costruito da Philip Johnson in Europa. È un’architettura dallo stile statunitense e quindi molto diverso da quello degli edifici costruiti in Germania dal Dopoguerra. È un’architettura bella ed elegante, ma anche difficile sia perché sembra concepita per la pittura e per la scultura classiche, sia perché, secondo il progetto originario, avrebbe dovuto essere di 40x40 m, ma per mancanza di budget è stata ridotta a 30x30 m e questa riduzione è ben percepibile. Oltre alla grande hall, ci sono cinque sale le cui pareti sono state realizzate con pietre rigate a mano che sembrano voler ‘frame’ tutto lo spazio destinato all’arte

Il rapporto di ‘dipendenza’ dell’arte dall’architettura che la incornicia, rinvia alla tipologia di rapporto espressa dal titolo della mostra che è tratto dalla biografia di Philip Johnson, scritta da Franz Schulze: in quel volume il compagno di Johnson, Jon Stroup, viene definito “comodamente passivo”, sottendendo una relazione oggettivante tra i due. 

molti anni fa lessi la biografia di Johnson di F.Schulze dove viene raccontata la sua esperienza con l’arte, il suo lavoro come curatore al MOMA e il suo essere dichiaratamente gay. Come figura pubblica e come architetto molto versatile Johnson mi ha sempre interessato, prevalentemente per la sua grande influenza su numerosi e importanti architetti successivi ma anche per il modo di pensare, concettualizzare e fare mostre di architettura”.

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Sebbene la riflessione sul ruolo dell’architettura e i condizionamenti culturali relativi a essa siano da sempre temi fondamentali del lavoro di Bonvicini, nella mostra alla Kunsthalle Bielefeld l’artista fa riferimento all’architetto Johnson per concentrarsi sul concetto di relazione oggettivante, traslandolo dal rapporto privato tra due individui ad altri possibili rapporti di dipendenza, ad esempio, economici, sociali, politici. Si chiede altresì come può essere definita la relazione dell’artista stesso con lo spazio espositivo, con le sue opere d’arte, con i suoi visitatori. Per farlo, lavora direttamente sul luogo architettonico, mettendolo in discussione: 

Ho deciso di lavorare sulle cinque sale a disposizione e sulla hall delineando quasi sei mostre personali, ognuna diversa dall’altra, ma comunque in relazione tra loro. Ho infatti voluto che alcuni lavori, come Grab Them by the Balls (2020) e Pendants (2020), fossero presenti in diverse stanze così da generare nel visitatore una sensazione di déjà vu simile all’effetto indotto dall’architettura della Kunsthalle che è labirintica”.

Non è la prima volta che Bonvicini delinea una mostra come somma di stanze differenti in dialogo tra loro. Basti ricordare la personale Unrequited Love alla Galleria Raffaella Cortese nel 2019. Tale modalità di strutturare le esposizioni non corrisponde a una scelta estetica né narrativa, ma piuttosto a uno strumento per attivare il pensiero dell’osservatore, per istigare una riflessione capace di portarlo oltre rispetto alla semplice visione. 

 

Monica Bonvicini, Unrequited Love Installation view at Galleria Raffaella Cortese, Milan, 2019 Photo: Andrea Rossetti


Per questa ragione, anche a Bielefeld le relazioni tra le opere esposte ci sono, ma non sono semplici, né chiaramente visibili. Derivano soprattutto da specifici temi a cui sono stata interessata durante il 2020, come la domesticità, l’isolamento, il ‘care’ a livello instituzionale”.

Al tema della domesticità rinviano in particolare due lavori esposti, che esemplificano altresì la tipologia di rapporto che l’artista desidera innescare tra opera, luogo espositivo e spettatore: Breach of Decor (2020) è costituita da tappeti che coprono circa 70 mq e che il visitatore trova immediatamente all’entrata della sala principale; Be Your Mirror (2020) si compone di pannelli di alluminio posti a coprire 40 mq di parete, che vengono ogni giorno lucidati da un addetto del museo che spende lo stesso tempo sul lavoro invece di lucidare il pavimento di legno. Se Breach of Decor attiva il visitatore obbligandolo a camminare sulla sua superficie, Be Your Mirror lo coinvolge con il suono assordante generato dalla lucidatrice che si propaga ogni giorno in tutto il museo.

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Ma alcune delle opere esposte alla Kunsthalle a Bielefeld sono unite anche dal loro riferirsi alla storia dell’arte che costituisce un tema ricorrente nella ricerca di Bonvicini:

In una sala ho esposto Malboro Man (2020), raffigurante l’icona del cowboy serigrafata su alluminio, che in un certo senso evoca la Pop art di Andy Warhol. Ho esposto anche All the Pretty Horses (2020), sculture simili al portabottiglie di Marcel Duchamp ma con l’aggiunta di elementi di vetro trasparente o grigio scuro, presentati su piedistalli in mattoni di gesso, che rinviano a opere minimaliste di Sol LeWitt. Inoltre, ho preferito non utilizzare le luci del museo ma inserire dei neon a terra che possono richiamare Dan Flavin. Nella mostra è perciò presente un riferimento ad artisti, molto ‘pesanti’ nel mondo dell’arte e del suo mercato, con la conseguente riflessione su un certo tipo di estetica e di storia dell’arte, e su come io, artista donna, li metta in relazione l’uno con l’altro”. 

Il suo aver studiato a Cal Arts, la scuola in cui la Women House ha avuto inizio con il primo Feminist Art Program può aver inciso sulla sua formazione. Tuttavia, la sua ricerca non è circoscrivibile al femminismo, così come non è definibile con nessun’altra etichetta concettuale; anzi, rifugge dalle etichette per decostruire ogni volta il pensiero dell’osservatore e indurlo a ripensare il reale, a vederlo con occhi diversi.

 

Monica Bonvicini, Breathing, 2017 Steel structure, compressed air cylinder, compressor, rope, synthetic fiber, leather belts dimensions variable Courtesy of the artist; Galleria Raffaella Cortese, Milan; Galerie Peter Kilchmann, Zurich; Mitchell-Inness & Nash, New York Photo: Andrea Rossetti; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


In realtà, sebbene includa sovente l’idea di decostruzione e distruzione, il suo lavoro non è nemmeno definibile aggressivo, come a volte è stato erroneamente descritto:

Per me la distruzione è sempre la premessa per la creazione. Se vedo qualcosa la voglio cambiare, anche se si tratta della storia dell’arte. I miei lavori non sono però aggressivi; mi interessa soltanto avere un impatto sull’osservatore; mi interessa innescare un confronto con il pubblico. per esempio, parlando di artisti italiani, ho sempre amato le opere di Emilio Vedova, la sua gestualità, il suo essere diretto nell’espressione, il suo atteggiamento politico anche nella scelta dei materiali perché la scelta dei materiali è indice del tipo di economia con cui un artista decide di lavorare”.

Tutto questo è evidente non solo alla mostra a Bielefeld, ma soprattutto nelle numerose opere pubbliche che Bonvicini ha realizzato nel corso della sua attività, molte delle quali però sono state concepite quando lo spazio pubblico a cui erano destinate ancora non c’era o non era ancora concluso. È il caso delle scale di Stairway to Hell (2003), l’installazione realizzata per la 8th Istanbul Biennale, poi inclusa nel nuovo museo a costituire l’unico accesso al piano superiore, e adesso in cerca di una nuova collocazione poiché il museo non esiste più.

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


L’installazione pubblica che però forse esemplifica meglio il rapporto che l’artista sempre innesca tra opera, luogo pubblico, architettura e spettatore, è She Lies (2007), ad Oslo: 

L’Opera House di Snøhetta non era ancora conclusa, così come l’intero fiordo dove sarebbe stata collocata l’opera; quindi, per concepirla, mi sono dovuta immaginare come sarebbe diventato quel luogo. I lavori di arte pubblica che conosco sull’acqua mi sono sempre sembrati noiosi, perché fissi, mentre l’acqua non lo è mai. Perciò ho pensato a un’opera che si muovesse con la corrente del mare, il vento. Volevo creare qualcosa di continuamente diverso per gli abitanti che lo avrebbero visto ogni giorno, volevo che fosse bello, delicato e leggero, ma dal forte impatto, in armonia e in contrasto con il tramonto e con la natura circostante. Da qui She Lies, un’opera dal cambiamento perenne, che si muove su se stessa e per un perimetro di circa 30 m grazie alle forza della natura. È stata costruita con vetro trasparente ma più riflettente del solito, per garantire un riflesso dell’ambiente intorno, ma può anche apparire come la rovina di facciata modernista. Si ispira al dipinto di Caspar David Friedrich che ha due titoli, di cui il secondo è Die Falsche Hoffnung. In particolare, il dipinto non mi interessa per l’immagine della nave naufragata, ma per i blocchi di ghiaccio dipinti in modo così fisico da sembrare una scultura”. 

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Ricordare She Lies e altre opere precedenti di Bonvicini, significa sottolineare la grande coerenza nella sua ricerca. Dalla sua prima mostra personale al California Institute of the Arts nel 1991 fino all’attuale mostra a Bielefeld, infatti, Bonvicini ha indagato il rapporto tra architettura, spazio pubblico e privato, coercizione e libertà, potere e controllo, nonché relazioni di genere, includendo numerosi riferimenti storici, politici, culturali, artistici e instaurando una relazione critica con i luoghi espositivi, i materiali utilizzati e con lo spettatore capace di mettere in discussione il significato stesso del fare arte, l’ambiguità del suo linguaggio.

Da qui quella che può essere definita la sua ‘architettura performativa’, dove l’esperienza sensibile e corporea dello spettatore, posta in relazione con l’opera, destruttura lo spazio, lo plasma, in quanto è concepita come parte fondamentale dell’opera stessa. Si pensi a Don’t Miss a Sec’. (2004), un padiglione di vetro dal carattere tipicamente minimalista che può venire usato dal pubblico. All’interno un blocco sanitario in acciaio inossidabile. collocato per la prima volta a Basilea, nella piazza di fronte alla fiera dell’arte, insieme ad altre sculture pubbliche, il lavoro era disponibile a tutti i passanti che potevano dedicarsi al suo interno alle private funzioni, osservando l’andare e venire attorno, senza essere visti: 

In Don’t Miss a Sec’. metto a confronto la bellezza della scultura minimalista con la parte più ‘sporca’ del corpo umano. Se pensiamo a Dan Graham, Robert Morris e agli artisti americani degli anni Sessanta, tutti si sono confrontati con la danza, con la performance e quindi con la corporalità, ma poi, paradossalmente, hanno realizzato sculture del tutto anestetiche. Con Don’t Miss a Sec’. faccio emergere questo aspetto contraddittorio del loro lavoro, molto diverso anche dal loro stile di vita degli anni Sessanta e Settanta”.

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Per quanto i lavori di Bonvicini siano spesso monumentali, non danno mai certezze, ma sono volti a innescare un dubbio, alla stregua della Lode del dubbio di Bertolt Brecht. Gli stessi materiali utilizzati sono sempre veicolo di una tensione tra due o più entità: da un lato, ad esempio, la luce e lo specchio rimandano al rapporto tra l’io, lo spazio e il diverso da sé; dall’altro le catene e le cinghie sono metafora dei rapporti di potere e dipendenza. Anche il suono è da considerarsi un materiale alla stregua degli altri in quanto genera un rapporto e una tensione tra opera, spazio e spettatore. Si veda la già citata Be Your Mirror a Bielefeld ma anche a Breathing del 2017, una scultura cinetica che si muove come danzando mentre i pistoni pneumatici che dirigono i movimenti producono un rumore violento. 

Da sottolineare, inoltre, il fatto che alcuni temi trattati da anni da Bonvicini sono poi divenuti centrali nel dibattito odierno: l’identità di genere (v. Wallfuckin’, 1995), il neo-liberismo e le questioni migratorie (v. I Cannot Hide My Anger, 2019), le questioni ecologiche tra cui la distruzione della natura attraverso le attività umane (v. la serie Hurricanes and Other Catastrophes, 2008 on going). La grande forza del lavoro di Bonvicini risiede proprio nel suo aderire al reale; anzi essere più radicali del reale stesso, immergendovisi totalmente per operare in modo attivo e partecipe rispetto a ciò che sta attorno a noi e anche che ci ha preceduto. Il costante riferimento alla storia dell’arte e alla storia in generale è infatti volto a comprendere, attraverso il passato, il presente in cui viviamo. Questo atteggiamento deriva sia da una involontaria eredità culturale sia da una volontaria scelta di riappropriazione di ciò che ci precede per avere la possibilità di mutarlo, di ricrearlo dopo averlo distrutto, di riattualizzarlo. 

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Mi relaziono alla storia per capire meglio cosa sta succedendo oggi. Non mi interessa la cronaca, ma la storia”.

Le idee di distruzione e (ri)costruzione sono alla base della ricerca dell’artista che attribuisce loro il medesimo valore, in quanto entrambe possono produrre una nuova creazione. Il suo lavoro è dunque un’indagine sul ruolo ‘costruttivo’ che l’artista può avere nella società in cui vive, grazie alla tensione creativa e mobilitante che può instaurare tra opera, spazio e spettatore. Forse l’opera che meglio esemplifica questo suo approccio è la scultura esposta a Bielefeld intitolata Up in Arms (2019): la riproduzione delle braccia dell’artista in vetro rosa intagliato evoca sia la tenerezza sia la tensione, così come, grazie al titolo, induce alla resistenza e alla protesta. Viene naturale citare, in conclusione, una dichiarazione dell’artista in un’intervista di Massimiliano Gioni pubblicata su “Flash Art” nel 2017:

Per me l’arte, quando è buona, è come lo squillo di una sveglia. […] Il mio approccio all’arte ha molto a che fare con l’arte stessa. Riguarda il domandarsi cosa sia l’arte, il sistema dell’arte e il relativo ruolo dell’artista al suo interno”.

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