Béatrice Coron: storie nella carta

27 Febbraio 2012

Il mondo visionario di Béatrice Coron è ricreato grazie a una sottrazione del superfluo: l’artista, che si autodefinisce una “tagliatrice”, rimuove dal foglio tutto ciò che non fa parte della storia che si accinge a raccontare. L’immagine esiste già, è imprigionata nella carta, attende solo di essere visualizzata dagli occhi dell’immaginazione e “liberata” da mani sapienti.

 

L’arte di Béatrice mira a rivelare l’essenziale, perciò anche la scelta dei materiali e della tecnica è volta a un’essenzialità di fondo: la carta è economica, leggera e versatile; la tecnica prescelta è graficamente efficace e diretta nei suoi intenti comunicativi. Il procedimento dell’artista è molto semplice: visualizza la storia e, dal momento che l’immagine si trova già nella carta, deve solo rimuovere il superfluo perché essa possa venire alla luce. Sembra quasi che l’immagine preesista alla creazione artistica, che abbia una propria autonomia concettuale, ma che si trovi imprigionata dal foglio e attenda di esserne svincolata. Saper guardare oltre la superficie consente di dare forma a mondi strani e meravigliosi. Béatrice definisce in questo modo la propria arte: “io taglio storie”; l’invenzione corrisponde alla sottrazione, non alla creazione, in un semplice procedimento grazie al quale “levare” corrisponde al suo composto “sollevare”, come anche al più nobile “elevare”.

 

Questa suggestiva poetica della sottrazione ricorda, con le debite distanze, quella neoplatonica “liberazione” dal marmo che è alla base della scultura michelangiolesca: il soggetto scultoreo nasce grazie a un’operazione di affrancamento dal blocco di marmo, una simbolica alienazione dell’anima dal corpo materiale, avvertito quale pesante giogo. Il riscatto dell’anima dalla dimensione corporea nella quale vive reclusa corrisponde, per l’artista neoplatonico, alla sublimazione dell’uomo mortale, che è finalmente in grado di ricongiungersi con la dimensione trascendente alla quale è destinato. Parallelamente e metaforicamente, nel blocco di marmo è racchiuso il soggetto scultoreo che, godendo già di una propria esistenza e autonomia, al pari dell’anima umana, attende la definitiva redenzione per mano dell’artista.

 

Allo stesso modo si spiega l’appellativo di “Prigioni”, attribuito alle famose sculture dell’artista rinascimentale, che appaiono “incompiute” alla sensibilità moderna, mentre i persistenti vincoli con la pietra che ancora parzialmente li avvolge, non consentendo loro di assumere la forma e l’aspetto della figura umana completa, sono un chiarissimo richiamo alle difficoltà spirituali che l’anima incontra nel suo progressivo sforzo di liberazione dalla materia al fine di ricongiungersi all’Assoluto da cui proviene.

 

In una delle sue “Rime”, recita così l’eccelso scultore: “Sì come per levar, donna, si pone/ in pietra alpestra e dura/ una viva figura,/ che là più cresce u’ più la pietra scema;/ tal alcun’opre buone,/ per l’alma che pur trema,/ cela il superchio della propria carne/ co’ l’inculta sua cruda e dura scorza.”

 

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