Due libri / Il respiro della Cina contemporanea

6 Agosto 2021

Pazza idea. Leggere libri di autori italiani sulla Cina e sull’Asia, e immaginare equivalenti libri sull’Italia e l’Europa: cosa se ne racconterebbe a un lettore lontano, ignaro, incuriosito da una vicinanza al nostro mondo che è di per sé una novità?

Di questi tempi piovono, i libri sulla Cina e sull’Asia. Li scrivono bravi giornalisti e sinologi, era ora; leggendo trecento pagine ci si fa un’idea, a volo d’angelo. Per forza accade che il mio pensiero sia: si potrebbe scrivere sull’Italia o l’Europa così? Meglio: come sarebbe interessante riassumere in un solo volume il mio paese e l’umanità che mi circonda in questo momento di buriana. Quali temi sceglierei, dovendo spiegare il noi qui ora a un lettore cinese? E così come discettando di Cina ci si riferisce al confucianesimo, che data due millenni, come riferirsi qui al cristianesimo o all’illuminismo, al loro viaggio al termine nel mondo nostro, all’esaurirsi, sperando in un nuovo, meglio o peggio che sia. 
Che poi la sensazione di esaurimento mi porta a guardare il bello dell’Asia oggi: il continente che ci ripresenta il movimento, la novità, lo sviluppo e perfino quel campo di forze antico: il progresso. 


Beatrice Gallelli per Il Mulino propone La Cina in otto parole. Concetti chiave innestati dall’influenza (e colonizzazione) europea alla fine dell’Ottocento di cui il Paese di Mezzo si è poi riappropriato. Quel che è più interessante è la lettura delle trasformazioni dalle dinastie alla Repubblica e poi dalla Rivoluzione comunista e dal maoismo fin quasi all’oggi. È il libro che a me ha insegnato di più, tra quelli usciti negli ultimi anni. Mi è piaciuta la scelta delle parole: a spirito segue democrazia, a sviluppo, armonia. Non c’è mai la pretesa di presentarci una civiltà “differente”, dove la maggior parte delle categorie a noi abituali sarebbero inutilizzabili perché laggiù, poco da fare, gli orizzonti non sono gli stessi e ogni nostra osservazione critica sarebbe eurocentrica: è questa la piccola mania standard di molti sinologi che anziché facilitare la comprensione della Cina la disturba. Nel testo di Gallelli la Cina non è un mistero da svelare, ci è simile e vicina e semmai le differenze stanno più nella traiettoria ascendente loro, e quanto meno incerta nostra. 


Il respiro della Cina contemporanea è ben reso da La Cina non è una sola per Mondadori di Filippo Santelli, che è stato corrispondente di Repubblica da Pechino fino a sbattere su una quarantena infinita che, par di capire, non ne ha fiaccato la curiosità. Santelli la Cina se l’è girata in lungo e in largo, e ha molto da raccontare. Anche lui mette in fila capitoli dedicati ciascuno a una tematica, aperti dalla genesi del virus e dalla lotta alla pandemia. Ma si parla poi di lavoro e lavoratori, di condizione femminile, di nazionalismo aggressivo e censura, e persino di una nuova estetica di massa che è poi la parte più geniale di tutto il testo. 


Casca l’asino su un vezzo ormai acquisito anche dai migliori commentatori: mai usare la parola dittatura. Non una sola volta nel testo, al punto da spingermi a scrivere a Santelli e chiederne un perché. La risposta è quella, debole, di molti: non c’è un dittatore, una personalità. Ma le dittature militari, rispondo? Non è questa una dittatura di partito? Ci vorrebbe tempo, per parlarne con calma. Gallelli solo brevemente ricorda la ‘dittatura democratica popolare’ di cui parlava Mao, ma nel resto del testo pure qui si preferisce l’indeterminato: l’autorità, il partito, l’istituzione statale, un uso quasi imbarazzato della forma impersonale per cui sempre ‘si decide’, ‘si mette in opera’: chi mai? Il tratto distintivo di quella società: qualcuno fa per tutti e diventa il tutti. Il rischio di risolvere la questione con la dizione abituale ‘con caratteristiche cinesi’ è forte, io ci vedo un imbarazzo, un tirarsi indietro su ciò che è centrale nella misurazione di questo grande paese oggi. Anche se ambedue gli autori sottolineano poi come l’avvento di Xi Jinping porti giri di vite importanti sulla china, così viene definita, dell’autoritarismo e del culto della personalità. 

 



Devo superare lo scoglio anch’io e andare avanti? Invece torno indietro e penso alle questioni nostre. La quasi acclarata incapacità di argomentare e attendere argomentazioni avverse, seguire il filo di un discorso senza affermazioni apodittiche o bruschi mutamenti di scenario e andare fuori tema, perché l’interlocutore va spiazzato, confuso il telespettatore. Altro che metodo scientifico, quando si parla della società e del mondo l’ybris, la presunzione che pensava di costruirli come un motore a scoppio, criticata negli scorsi decenni ha ceduto il passo al pettegolezzo che costruisce poteri, altro che mondi. Come si esercita la democrazia entro un tale contesto estenuato?
Torniamo a loro. Tante cose illuminanti mi racconta Santelli quando parla di lavoro: che la Cina ha il più basso tasso di scolarizzazione della forza lavoro tra i paesi in via di sviluppo. Che “il sessantaquattro per cento dei cittadini ha un hukou – il certificato che obbliga a una determinata residenza rurale –, e fa da serbatoio di forza lavoro non qualificata per le grandi città: in caso di necessità, per esempio quando la disoccupazione sale e si rischiano tensioni sociali, quelle persone possono essere ri-spedite indietro nei villaggi d’origine, con le buone o con le cattive”.


Poi mi ricorda come all’obbligo del figlio unico si sia sostituita l’impossibilità a mantenere più di un figlio, in una società che invecchia. E che “nel World Happiness Report del 2020 la Cina – nonostante un benessere e un’aspettativa di vita in continuo aumento, fattori che di solito garantiscono un piazzamento in vetta – risulti al novantatreesimo posto in classifica su 156 Paesi, dietro anche al Tagikistan, alla Mongolia e alle Filippine. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che 54 milioni di cittadini soffrano di depressione e 41 milioni di disturbi legati all’ansia. Questo disagio sembra particolarmente diffuso all’interno della generazione dei figli unici”.
Sulla dicotomia innovazione censura, la considerazione più corretta: “Se sei contrario a qualunque valore essenziale dell’individualismo e del pensiero indipendente, alla volontà di correre rischi e sopportarne le conseguenze (...) che tipo di creatività ti puoi aspettare?”.


E poi il punto centrale, nella lettura sulla Cina: “In una società ultracontemporanea come quella cinese, senza passato, è questo senso pieno della presenza che spesso sfugge”. Altro che ritorno a Confucio, come suggerisce la propaganda di regime, in modo puramente strumentale. Meglio sarebbe tornare al modernismo, alla Repubblica, a quel periodo fertile precedente la presa del potere comunista che ha cancellato per decenni ogni traccia del passato: hai voglia che poi le persone si scaraventino verso il futuro. 
Di nuovo ambiguo però Santelli, sulla censura. Scrive: “Alcuni osservatori sostengono che il web, la rivoluzione che in Cina era iniziata come una forza liberatrice, alla fine è diventato uno strumento di controllo ancora più potente: una rete con cui il regime riesce a imbrigliare i discorsi dei cittadini, lasciando loro l’impressione di essere liberi.

 

Il risultato è paradossale: tecnicamente è abbastanza semplice per un cinese dotarsi di un software che permette di scavalcare la Grande Muraglia Digitale e avere accesso al web «libero», quello occidentale. Solo che quasi nessuno sente il bisogno o la voglia di farlo”. Sottovaluta un bel po' la forza dell’autocensura! Chi mai vorrebbe rischiare di infrangere la legge e finire nei guai, finché può girarsi dall’altra parte a guardare lo sviluppo e il progresso della propria condizione? Funzionava così, se ci si pensa un poco, la dittatura fascista del nostro ventennio, molto prima del web. 

Questa stella cinese ormai allo zenit dominerà il nostro ragionare nei prossimi decenni, sarà motivo di confronto e ottimo termine di paragone. Ci destabilizzerà: la reazione alla pandemia, la capacità di batterla è già tra noi come un interrogativo pressante, Santelli ben lo sottolinea. Vale la pena di leggerlo, così come Gallelli.

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