Gli angeli musicanti di Gaudenzio Ferrari

25 Dicembre 2014

Beata chèla man, ch'a la fa inscì anca duman” esclamò il mendicante con riconoscenza quando si rese conto della generosità dell’obolo ricevuto.

Era seduto sui gradini del santuario di Saronno e intirizziva negli abiti leggeri. Aveva le punte delle dita delle mani congelate. Le avvicinò alla bocca e soffiò. Invano. Il freddo pungente di quella vigilia di Natale (la più rigida a memoria d’uomo) gli era penetrato fin dentro le ossa. Avrebbe fatto meglio ad entrare subito in chiesa alla ricerca di un poco di tepore. Anche quello delle candele accese davanti all’altare della Madonna gli sarebbe bastato. E poi, chi sa? Magari la Vergine lo avrebbe beneficiato di uno dei miracoli per cui la sua statua andava tanto famosa facendolo guarire. In fondo era questo il motivo principale della sua venuta lì. L’altro era la curiosità di vedere gli affreschi della cupola, di cui nell’ambiente dei musicisti non si faceva che parlare.

 

Arrivava da Milano, dopo un pellegrinaggio a piedi che gli era costato parecchi giorni e molta fatica, dato che doveva procedere sulla sola gamba destra. La sinistra ormai altro non era se non un’appendice inerte, da quando quel maledetto fulmine l’aveva colpita portandosi via insieme alla sua capacità di camminare anche la sua unica fonte di reddito. Ambrogio, questo il suo nome, prima della disgrazia, infatti, era stato un abile suonatore d’organo. Il migliore della chiesa annessa al Monastero Maggiore di San Maurizio, dal cui organo, un vero prodigio della tecnica, sapeva trarre sublimi armonie.

Ora invece era costretto a mendicare.

 

Gaudenzio Ferrari, Angeli musicanti, cupola del Santuario di Santa Maria dei Miracoli, Saronno, 1535-36, dettagli.

 

L’artista diede l’ultimo tocco a secco con della lacca rossa alla veste dell’angelo che aveva appena terminato di affrescare, ne guarnì i bordi con una finitura in oro zecchino e si allontanò per osservare il risultato. Doveva stare attento a non mettere un piede in fallo, il ponteggio sul quale lavorava sorgeva a un’altezza di circa 25 metri dal suolo e non vi erano protezioni. Stava rifinendo gli ultimi dettagli delle vesti degli angeli sulla schiera più esterna delle quattro concentriche da lui concepite a ornamento della cupola del santuario di Santa Maria dei Miracoli. Gaudenzio Ferrari amava i cangiantismi nei tessuti. Gli piaceva che questi ultimi rifulgessero di improvvisi bagliori. Perciò non lesinava sui repentini cambiamenti cromatici, né sulle lumeggiature, quei rapidi colpi di colore più chiari rispetto alla tonalità di fondo che non mancavano mai nelle sue opere.

 

Erano stati i deputati saronnesi a volere fortemente che fosse lui a concepire l’intero programma iconografico del registro superiore della loro chiesa (quello inferiore lo aveva curato il compianto Bernardino Luini). Senza dubbio suggestionati dal “gran teatro montano” che il pittore di Veduggia aveva realizzato al Sacro Monte di Varallo, i deputati incaricati di sovrintendere all'amministrazione dei beni e alla fabbrica dell'edificio sacro desideravano che anche nella loro cupola ci fosse la stessa magica commistione tra pittura e scultura, così coinvolgente ed emozionale, capace di smuovere il sangue in tutti coloro che si trovavano al suo cospetto.

 

 

E Gaudenzio aveva accettato di buon grado. Stavolta però aveva ribaltato i rapporti di prevalenza. Mentre al Sacro Monte la protagonista della rappresentazione sacra era la scultura – coi dipinti a farle da illusionistica quinta teatrale –, qui la grande interprete della scena era invece la pittura. Una pittura densa e intensamente cromatica, lucente e palpitante, con la quale aveva dato vita alle schiere angeliche, alle loro vesti fluttuanti, alle loro ali dispiegate, ai loro capelli ricci o morbidamente ondulati e danzanti nell’aria. Mentre le grandi statue lignee delle Sibille, dei Profeti (ospitate nelle nicchie del tamburo decagonale), la figura intagliata del busto di Dio Padre (al centro della cupola) e quella della Vergine Assunta (collocata sul bordo del tamburo e anch’essa scolpita nel legno, come le altre, dal suo aiuto, Andrea da Milano) erano destinate ad essere delle comprimarie, se non addirittura delle comparse. Da profondo conoscitore dell’animo umano qual era, Gaudenzio sapeva molto bene che le manifestazioni spettacolari hanno il potere di risvegliare persino la fede più assopita. Il fasto e il tripudio cromatico di quella sua macchina scenica perfetta si sarebbero incisi nella memoria del popolo, il vero destinatario della sua opera, accendendone la devozione.

 

Ormai l’affresco poteva dirsi concluso. Lo aveva iniziato nell’aprile del 1535, dopo che, innalzati i ponteggi, il fabbro aveva infisso al centro della cupola delle zanche in ferro per reggere la scultura del busto di Dio Padre. Poiché la decorazione a fresco delle cupole avviene sempre a partire dall'alto verso il basso, Gaudenzio aveva iniziato a dipingerla subito dopo quella messa in opera. Ci aveva messo più di cento giornate, ma adesso era ora di smontare i trabattelli e di lasciare Saronno. Sarebbe andato a Milano ad affrescare la cappella di Santa Corona nella chiesa bramantesca di Santa Maria delle Grazie. Aveva già preso in fitto una casa nella parrocchia di San Nazzaro in Brolo alla Porta Romana.

 

 

Quando Ambrogio entrò in chiesa, i fedeli stavano salmodiando l’antifona mariana dell’Ave Regina Coelorum, tradizionalmente intonata al termine della giornata liturgica. Camminava lentamente, per non disturbarne il canto col ticchettio della sua stampella sul pavimento. Percorso il breve tratto di navata che conduceva al quadrato (la chiesa a quel tempo era ancora a pianta centrale) sollevò gli occhi verso la cupola, illuminata da centinaia di candele, e non poté trattenere un Oh di meraviglia. Le voci terrestri sembravano modularsi in perfetta sintonia coi suoni celesti dell'orchestra angelica che vi era dipinta.

Rapito, la osservò con attenzione.

 

Il cerchio più prossimo alla figura tridimensionale del busto di Dio Padre, che campeggiava al centro, era composto da trentuno puttini danzanti, nudi e inondati dalla luce divina. Degli angeli cantori componevano la schiera successiva, quali leggenti le note da corali, quali da sinuosi, lunghissimi cartigli, che si avvolgevano e si dispiegavano, ondeggiando quasi ritmicamente. Gli ultimi due cerchi erano invece popolati da un’affollata moltitudine di angeli musicanti intenti a suonare chi strumenti a corde, chi a fiato e chi a percussione: viole, lire da braccio, liuti, flauti, trombe, tamburi, timpani ed altri bizzarri che il mendico non conosceva. Contò più di cinquanta strumenti. Mai aveva vista un’orchestra così ricca.

 

La dolcezza dei volti degli angeli, poi, la naturalezza dei loro gesti, il delicato chiaroscuro con cui era stato modellato il loro volume, l’opulenza cromatica delle loro vesti – nelle variegate tonalità dei verdi e degli azzurri contrappuntati da rossi vibranti e da luminosi ocra e oro – conferivano all’insieme una straordinaria forza espressiva.

 

Come guidato da quei suonatori d’eccezione, anche Ambrogio aveva incominciato a cantare insieme agli altri fedeli. E, istintivamente aveva iniziato a muovere le mani, quasi che le sue dita sfiorassero una tastiera immaginaria. Senza che se ne fosse reso conto, persino i suoi piedi si erano mossi, prima l’uno poi l’altro, indistintamente, come a pigiare i pedali di un organo inesistente.

 

Quando, al termine del rito, uscì dalla chiesa, camminava senza più doversi reggere alla stampella. La gamba offesa stava ricominciando a sostenerlo. Dapprima incerti, i suoi passi si facevano sempre più sicuri, mentre l’orologio della torre scandiva ventitré rintocchi.

Tra un’ora esatta sarebbe nato Gesù.

 

Nota: Gaudenzio Ferrari fu anche un abile suonatore di lira da braccio e di liuto, come ci tramanda Giovan Paolo Lomazzo, nel suo Tempio della pittura (1590). Nel Concerto di Saronno l’artista non si limita ad enumerare, come in una sorta di catalogo, tutti gli strumenti in uso al suo tempo, insieme ad altri scaturiti dalla sua fantasia, ma li dipinge con esattezza filologica tanto nella loro rappresentazione che nel modo in cui venivano suonati. Di quelli allora conosciuti non ne manca nessuno: dall’alpenhorn (corno delle Alpi), all’altobasso; dall’arpa alla bombarda; dai cimballini (o piccoli piatti), alla cornamusa; dal cornetto, al flauto (dolce e traverso); dal flauto di Pan (o siringa), alla ghironda; dalla lira da braccio, al liuto; dalla nyastaranga, all’organo portativo; dalla ribeca , alla viella; dal salterio (o cetra), al tamburo e al tamburello; dai timpani, al triangolo; dalla tromba, alla viola. Cosa curiosa, in nessuno di essi sono disegnate le corde. L’affresco è ancora oggi oggetto di studio da parte dei musicologi, visto che alcuni strumenti di quell’epoca sono noti solo per il suo tramite.

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