1931 – 2022 / Piergiorgio Bellocchio: al di sotto della mischia

19 Aprile 2022

Piergiorgio Bellocchio è stato un intellettuale tra i più influenti e al tempo stesso più appartati del proprio tempo. Il suo nome è legato ai “Quaderni piacentini” da lui fondati (1962) e diretti e che prendono il nome dalla città emiliana dove è vissuto per tutta la vita. Nel tempo si affiancarono nella direzione Grazia Cherchi, poi Goffredo Fofi, ma vanno aggiunti, tra i collaboratori, almeno i nomi di Luca Baranelli, Francesco Ciafaloni, Giovanni Jervis, Michele Salvati, Bianca Beccalli, Giovanni Giudici, Carlo Donolo e molti altri. La rivista era un punto di riferimento per la sinistra non marxista che aveva tra i suoi maestri Raniero Panzieri (1921-1964) e un rapporto dialettico con i grandi intellettuali del tempo, in particolare con Franco Fortini, ma anche con Cesare Cases e Sebastiano Timpanaro, che vi collaborarono a loro volta.

Bellocchio, che non aveva attitudini di comando ma cercava soprattutto una consonanza morale con i collaboratori della rivista, ha ribadito più volte che la stagione più feconda di elaborazione culturale e politica del ‘68 avvenne negli anni che lo precedettero: la decolonizzazione e le conseguenze della guerra d’Algeria (Frantz Fanon), i fermenti di rinnovamento nella Chiesa cattolica (don Milani), le prime rivolte studentesche americane e il movimento antirazzista, le battaglie laiciste in una società italiana ancora molto autoritaria. La rivista non faceva sconti ai grandi intellettuali, registi e scrittori del tempo, sia quelli legati al PCI, sia a tutti gli altri. Non erano amati nemmeno i coetanei del Gruppo 63, considerati troppo tecnocrati e in carriera. Bellocchio alimentava socraticamente nel gruppo la diffusione di ciò che non stato ancora tradotto in Italia: i surrealisti francesi, la cultura della Germania di Weimar, il new criticism americano. Utilizzava la letteratura, i grandi romanzi, come strumento di interpretazione della società e delle sue dinamiche. Aveva però anche molta voglia di imparare dai collaboratori più aggiornati le trasformazioni della società, italiana e internazionale: oltre a quelli ricordati c’erano anche Elvio Fachinelli, Sergio Bologna, Guido Viale e altri ancora.


Negli anni Settanta la rivista, pur continuando a essere interessante, scontò un po’ l’eccesso di ideologia che si impadronì della società italiana, finendo per chiudere i battenti nel 1984. Bellocchio distribuiva personalmente le copie in giro per il nord Italia ed era un modo di restare in contatto con i diversi gruppi locali (in particolare di Milano e di Torino), che era quanto di meglio offrisse a quel tempo la società civile di casa nostra. A parte una raccolta di racconti, I piacevoli servi (1966), pubblicata col favore di Vittorio Sereni da Mondadori, Bellocchio non si cimentò mai nella narrativa e si risolse tardi a raccogliere i suoi spunti critici in libri pubblicati nella seconda parte della sua vita. Per citarne qualcuno: Dalla parte del torto (1989), Al di sotto della mischia (2007) e il più recente Un seme di umanità (2020), a proposito del quale si veda la recensione su doppiozero. A questa seconda fase di vita appartiene anche la rivista “Diario” (1985-1993), redatta unicamente insieme all’amico Alfonso Berardinelli e che registra l’ammainabandiera della nostra sinistra e la laicizzazione della società in nome di una modernizzazione spinta da una rincorsa all’arricchimento personale, mentre gli antichi valori scomparivano senza essere sostituiti da altri. Bellocchio, oltre che un grande critico letterario fuori da ogni schema ma con un gusto pressoché infallibile, è stato, quasi unico nel nostro Paese, un grande osservatore e critico della società sul modello di George Orwell o di Albert Camus. Partendo da fatterelli di costume o di cronaca riusciva a risalire alle grandi trasformazioni del nostro Paese.

 


Chi lo ha conosciuto ne ricorda, a parte l’eterna sigaretta e l’aria stropicciata da attore francese dei film in bianconero, la grande simpatia umana, una curiosità intellettuale senza steccati, la natura caustica ma sempre comprensiva dell’imperfezione dell’umanità. Chi non lo ha conosciuto lo può ritrovare nel bellissimo documentario, Marx può aspettare (2021), girato dal fratello Marco, in ricordo di un altro fratello, Camillo, morto suicida. Un clan famigliare con grandi differenze al suo interno ma unito da un vincolo d’amore.

 

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Ripubblichiamo qui l’intervista del 25 marzo 2020 che Alberto Saibene ha fatto a Piergiorgio Bellocchio in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, Un seme d’umanità (Quodlibet, 2020)

 

Mi è capitato negli ultimi anni di incontrare Piergiorgio Bellocchio a Piacenza o d’estate in Versilia e ogni volta gli chiedevo a che punto fosse con il libro che raccoglieva le sue riflessioni, introduzioni e critiche su autori tra Ottocento e Novecento. Le risposte di Bellocchio nei primi tempi erano evasive, poi via via più convinte. Ho seguito l’iter della pubblicazione attraverso le notizie che mi davano gli amici Gianni D’Amo, a cui il libro è dedicato, e Luca Baranelli, che lo hanno fiancheggiato nelle diverse fasi. Ora finalmente possiamo leggere Un seme d’umanità. Note di letteratura (Quodlibet) ed è un avvenimento da festeggiare perché Bellocchio, pur essendo stato animatore di riviste come “Quaderni piacentini” e “Diario”, con l’amico Alfonso Berardinelli, ha preferito restare appartato, come se uno sguardo di sbieco fosse il più efficace per comprendere il proprio tempo. Un lettore di provincia?

 

Mi veniva in mente la formula applicata a Renato Serra, un critico dei primi del Novecento, il primo a fare kulturkritik nel nostro Paese. Solo una suggestione, anche se Bellocchio non si è mai spostato da Piacenza, dove vive in un anonimo condominio anni Sessanta. È qui che mi accoglie con quell’aria da attore francese e l’eterna sigaretta (“Le ho diminuite”, protesta). Si avvicina ai 90, ma in fondo è sempre uguale, sempre curioso di quel che accade attorno. Non vorrebbe un’intervista, “tutti fanno interviste e nessuno una recensione”. L’elenco degli autori trattati nella prima parte del libro (Casanova, Stendhal, il grande romanzo russo, Dickens, Flaubert, Belinskij, Herzen) non corrisponde alle sue predilezioni ma ci si avvicina. Al centro c’è il grande critico americano Edmund Wilson (“è il critico che più mi ha influenzato”), mentre per il XX secolo le affinità sono più evidenti (Hasek, Lawrence d’Arabia, Isherwood, Orwell, Céline, Nizan, Böll e, tra gli italiani, il Pampaloni autobiografico, le lettere di Pasolini, Fenoglio, Bianciardi, Danilo Montaldi), con un ultimo saggio dedicato al Barry Lyndon di Stanley Kubrick. 

 

Ma quando li hai letti questi romanzi? Arbasino, che è del '30, dice che durante la guerra non c’era niente da fare se non leggere. “Un po’ è vero. Allora c’erano i libri e la radio. La radio è stata molto importante negli anni Quaranta: il teatro, Shakespeare, la RAI che aveva una buona compagnia d’attori. Quanto ai romanzi, cominci con quel che trovi in casa: Zola, Maupassant erano nella biblioteca di mio padre, ma non lo erano Flaubert o Stendhal. Tolstoj era molto apprezzato. Poi esistevano le biblioteche circolanti dove ogni settimana sceglievi qualche libro. In quel modo ho letto parecchio”.

Leggere i romanzi per la mia generazione ha significato cercare di capire come funziona il mondo, come ci si deve stare. Era così anche per voi? “Dico sempre all’amico Gianni D’Amo, insegnante di liceo, che per far capire ai ragazzi la filosofia tedesca basta leggere I Buddenbrook. Dentro trovi Hegel, Schopenhauer, Wagner e Nietzsche, tradotti in vita”. I primi saggi sono spesso introduzioni anni Settanta-Ottanta per i ‘Grandi Libri’ Garzanti e l’aria del tempo si ritrova in un’idea progressista di società, con gli scrittori che devono essere uno strumento di questa presa di consapevolezza. “Avevo letto Lukács certamente, ma il critico che mi ha più influenzato è Edmund Wilson: andava sempre al di là della letteratura. Ad esempio in Stazione Finlandia. Biografia di un’idea, Lenin e Trotzkji divenivano personaggi, ma la connessione tra vita sociale e romanzo prosegue anche nel Novecento: pensiamo al Dottor Zivago”.

Mi sembra che i canonici Proust e Joyce (Kafka è un discorso a parte) non siano tra i tuoi autori. O sbaglio? “Joyce l’ho letto con una certa attenzione e piacere, Proust l’ho iniziato, ma l’ho letto bene e tutto solo dieci anni fa. A me piaceva molto Jean Santeuil: il mio sogno sarebbe stato di scrivere un piccolo Santeuil”. Il saggio su Herzen è un discorso a parte, che, tra l’altro, introduce il tema dell’autobiografia. È un saggio simpatetico, così come quello sul soldato Sc’vejk. “Quest’ultimo nasce su commissione di Franco Moretti per quei libroni Einaudi sul romanzo, così come quello su Fenoglio. Li ho fatti molto volentieri”. Insomma tutti i pezzi, o quasi, nascono su commissione. Nella paginetta di premessa scrivi come la scrittura d’invenzione ti abbia progressivamente interessato meno a favore di scritture diaristiche, memorialistiche, storico-politiche, anche se le distinzioni non sono mai così nette. Se posso cogliere una coincidenza mi pare che questo interesse per la persona, per il singolo nella storia, avviene nel momento del tramonto delle grandi ideologie.

 

Nel libro mancano gli Americani, che sono forse gli ultimi a voler spiegare il mondo attraverso il romanzo. Come mai? “Non è capitato, ma qualche romanzo di Philip Roth l’ho letto: Pastorale americana, ad esempio. Associo la forza economica e politica di una nazione con l’importanza, anche per contrasto, dei romanzi e a me pare che gli Americani sono quelli, ancora oggi, che ne hanno di più”. Nel libro c’è un pezzo non finito su Napoli '44 di Norman Lewis. “Il libro mi era piaciuto e mi dava l’occasione di fare una riflessione sull’Italia”.

In effetti un altro tema che vien fuori è il tuo interesse per l’antropologia degli Italiani, visti da fuori, ma anche da scrittori di casa nostra. “Sì, ho molte annotazioni su Pinocchio che non ho mai raccolto in un saggio. Di Pinocchio se ne sono occupati in molti (Manganelli e tanti altri), ma il miglior lettore di Pinocchio è stato Paolo Poli che aveva trovato una chiave giusta solo attraverso l’interpretazione. Un altro libro è Cuore. Henry Miller in Tropico del Cancro manifesta un amore sviscerato per Cuore. Il diario scolastico è un libro molto interessante di cui varrebbe la pena occuparsi senza fare troppo la parodia come ha fatto Umberto Eco”.

Insomma si ritrova un tuo interesse per il costume degli italiani.  “Pensa solo al fascismo. Non riesco a seguire gli scrittori italiani contemporanei. Sono un po’ diffidente. I miei scrittori sono Fenoglio, Volponi, Meneghello, Calvino, la generazione nata negli anni Venti. Sono passati tutti per la guerra. Così come lo stesso Pampaloni”. Un bravo critico, Daniele Giglioli, ha riassunto la generazione attuale in un saggio dal titolo Senza trauma, una letteratura senza trauma. “E in effetti Bassani e Fenoglio cosa avrebbero scritto senza quel che gli è successo?”.

E Pasolini di cui ha anche scritto un’introduzione nel Meridiano dedicato ai Saggi, anche lui appartiene a quella generazione? “Oltre ai saggi, il mio Pasolini preferito è quello giovanile. Patì il problema dell’omosessualità che non ha mai superato”. In questo libro tu lo attraversi tramite l’epistolario. Quel che colpisce è la sterminata produttività: cinema, teatro, letteratura, giornalismo. E se lo si paragona a d’Annunzio? Sono troppo provocatorio? “Ci sono punti di contatti ma noi odiavamo D’Annunzio e volevamo invece bene a Pasolini, anche se i poeti per la mia generazione sono Montale e Eliot, La terra desolata, il libro che annuncia il secolo nuovo”.

Non abbiamo ancora parlato di un grande del Novecento che si ritrova in queste pagine: Céline. “L’ho letto molto con grande ammirazione”. Pensando a Céline ti chiedo se il romanzo dev’essere per forza borghese. In questo caso verrebbe da dire antiborghese. “In Céline c’è però la piccola borghesia”. Anche Dickens forse non è borghese. “Sì in lui c’è un grande amore per il teatro”. Un luogo neutro rispetto alle classi sociali. “Dickens non accetta mai un invito a corte, non si imborghesisce”.

Mi pare che ci sia una tua simpatia manifesta verso gli irregolari. Montaldi lo hai conosciuto bene? “Abbastanza. Era un personaggio curiosissimo, lui sì di estrazione popolare. Il padre comunista che fu poi espulso dal Partito. Anche lui uscì dal PCI, con questa prospettiva di Parigi come luogo dove c’era stato se non altro un movimento trotzkista di qualche peso, a differenza che da noi. Montaldi era un uomo libero. Aveva lavorato qualche tempo da Feltrinelli ma poi si era stufato. Campava di poco, forse era aiutato dalla madre che non è che ne avesse molti neanche lei. Non hai mai voluto collaborare ai ‘Quaderni’. Lo si andava a trovare a Cremona”. 

Ti consideri uno scrittore, hai uno stile così personale, non sei tanto facilmente inquadrabile, affabile verso il lettore: dove hai imparato? “Da giovane a casa passava il ‘Corriere’: Piovene e Montale a modo loro erano maestri, così come Ansaldo: grande stilista, grande giornalista, grande sociologo. Sto pensando ai pezzi sulla ‘Rivoluzione Liberale’. C’è n’è uno su Ojetti ad esempio. Ebbe poi l’interdizione della firma, riuscì a resistere qualche anno, ma quando Ciano gli chiese di collaborare al ‘Telegrafo’ capitolò”.

Tu tra Pampaloni e Fortini da che parte stavi? “Io stavo dalla parte di Fortini, anche perché non conoscevo ancora il Pampaloni memorialista. In Fortini c’è un’energia, una polemica, mentre in Pampaloni si sente la lezione di Pancrazi, ma in Fedele alle amicizie ci sono giudizi penetranti, scritti senza alzare la voce”. Tutti hanno litigato con Fortini, mentre tu sei riuscito a farla franca nonostante la sua propensione. Come ce l’hai fatta? “L’imbarazzo l’ho provato quando abbiamo pubblicato su ‘Diario’ il saggio di Berardinelli sugli stili dell’estremismo. Il pezzo uscì quando a Fortini venne diagnosticato un tumore all’intestino. La cosa mi dispiacque molto. Lo andai poi a trovare ma non si parlò della cosa. Era diventato uno scheletro”.

Un altro fratello maggiore è Cases. “Molto bravo, anche come italianista. Peccato non sia occupato dei classici italiani o milanesi. Era uno che non raccoglieva, meno male che Baranelli si è occupato di mettere insieme quei libri per Einaudi”. Mi colpisce che Cases sia stato immune dal mito di Gadda. “Anche Fortini”. Certo che Gadda usato come santo patrono del Gruppo 63 oggi suona un po’ strumentale. “In effetti certe diffidenze verso Gadda sono state determinate dallo sfruttamento da parte di alcuni, anche se ad esempio Arbasino ha scritto delle cose abbastanza belle su di lui”.

Ho l’impressione che il canone novecentesco alla fine sia stato messo a punto dai professori universitari. Nel tuo libro tra gli irregolari c’è Bianciardi, che è troppo forte per essere messo da parte. “Hai ragione, ma Calvino, Fenoglio sono entrati nel canone dalla porta giusta. Trovo però che le Lezioni americane siano il suo libro più superficiale. Non parla mai dell’Italia. Va ad Harvard e non parla da dove viene”.

 

 

Non possiamo pretendere che i nostri scrittori siano anche i nostri eroi. Sto pensando a Orwell e Camus, che in qualche modo lo sono stati. “Quando ero giovane Sartre e Camus si contendevano la palma, poi li ho mollati entrambi, pur essendo molto diversi”. Ci sono scrittori considerati santi laici, una categoria a cui un po’ indulge Goffredo Fofi (non solo con gli scrittori naturalmente). Tu non sei così, anche se Orwell ha pagato tutto in prima persona. “Sì, Orwell ha una statura diversa e, a modo suo, anche Lawrence d’Arabia, figura da rivedere. Vorrei aggiungere Auden come poeta e forse Eliot con la Terra desolata che è all’inizio di tutto”.

Ti capita di rileggere i libri della tua gioventù? “Devo dire che non affronto spesso riletture perché sono poi delle delusioni, con l’eccezione di Dostoevskij. Conrad, che aveva contato così tanto nella mia formazione, è stato deludente da rileggere”. Sono appunto romanzi di formazione, che valgono quando sono letti per la prima volta. “Diverso è il caso dei moralisti come Chamfort, che era un mio autore anche in gioventù o se leggo Le ricordanze di Leopardi mi viene da piangere ancora oggi. Nel frattempo ho imparato a farmi piacere anche Manzoni. E poi Porta, Belli. De Sanctis, Nievo, Verga, ma è come se il melodramma avesse tolto spazio al nostro romanzo”.

Vorrei concludere parlando di cinema. Nel libro c’è un saggio molto bello su Barry Lyndon, il modo in cui Kubrick rilegge la storia, ma in generale si sente una grande passione per il cinema. Ci sei andato tanto? “Nei miei vent’anni avevo un cineclub con amici. A quell’epoca, a parte il neorealismo, c’erano i primi Wilder, John Huston. Il cinema l’ho amato moltissimo. Vedemmo insieme i capolavori del muto, Dreyer, Ejzenštejn, il cinema francese. Fu una grande educazione. Non so se questi film terranno nel tempo come la grande letteratura. Se dovessi però dire il film che mi ha più posseduto è stato Biancaneve e i sette nani, visto a sette anni. Noi in più eravamo una famiglia numerosa: io forse ero Pisolo, ma chi se lo ricorda più”.

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