B. Synger, “Bohemian Rhapsody” / La leggenda del santo frontman

21 Dicembre 2018

Bohemian Rhapsody, il biopic di Bryan Singer sul compianto e fiammeggiante leader dei Queen, rispecchia senza troppa fantasia il modello delle vite dei santi: umili natali, vocazione, illuminazione divina, miracoli, traversata del deserto, tentazione dei diavoli, pentimento, morte e risurrezione. Ogni tappa è scandita in modo didascalico. Il dialogo con la redentrice che lo salva dal suo lato più sinistro avviene in modo canonico, sotto una pioggia scrosciante. I diavoli che lo tentano sono più esterni che interni e, come quelli di Sant’Antonio, si presentano in forme esteticamente ripugnanti: la loro guida, Paul (Pender, manager personale di Mercury, interpretato da Allen Leech), è sufficientemente viscido. Mary (Austin, la prima fidanzata, nel film Lucy Boynton) ha le fattezze di una santa. Taylor, Deacon e May, suoi compagni nella band, assomigliano di più ai quattro evangelisti (con il manager Jim Beach nel ruolo del quarto) che non ad altrettanti artisti rock: anche i numeri contano. Mai si videro quattro rockstar più pudiche, pudibonde e moderate nei loro comportamenti. 

 


Il film ignora completamente il percorso artistico di Freddie e il contesto musicale-culturale nel quale la musica dei Queen si è sviluppata. Il talento di Freddie non ha origine. È come il raggio di luce azzurra che annuncia a John Belushi, alias “Joliet Jake” Blues dei Blues Brothers, la sua missione per conto di Dio. Freddie passa da una gioventù spesa come facchino all’aeroporto di Heathrow al ruolo di grande interprete senza soluzione di continuità. Nemmeno Peter Parker morso dal ragno è altrettanto rapido nel padroneggiare i propri superpoteri. Qui, invece, Farrokh Bulsara nasce già Freddie Mercury: molto più simile a un supereroe dotato di poteri straordinari (e inspiegabili) che a un artista che esprime e sviluppa il proprio talento. Oltretutto, si mostra olimpicamente disinteressato a quello che dovrà cantare. Quando Brian May (Gwilym Lee) gli propone il ritmo di We Will Rock You, non batte ciglio. Quando i membri del gruppo discutono sul genere di musica che devono fare, lui esce a passeggiare. La musica è solo una coreografia di lusso per il suo percorso di santificazione.

 

Dal Sacro all’Arte e ritorno. Un percorso evidente nella scelta dell’attore, Rami Malek, molto più sofferto ed emaciato (in senso estetico) del sanguigno e solido cantante (almeno fino a prima della malattia che l’avrebbe indebolito e ucciso). Laddove l’originale si compiaceva della propria immagine di macho palestrato, la sua rappresentazione cinematografica ha decisamente virato sull’immagine di una persona dal fisico ectomorfo, il cui corpo lasciava già intravvedere, per consunzione prima spirituale che infettiva, l’anima sottostante. Se a qualcuno la metafora fosse sfuggita, quando Mary/Boynton lo raggiunge per ravvederlo, a mo’ di angelo custode che le forze del male avevano tenuto lontano, gli dice: “Ti stai consumando come una fiamma”. E Freddie/Malek : “Sì, ma con quale intenso bagliore”. Manca solo l’aureola.

 

Da sinistra: Freddie Mercury, Rami Malek.


Rami Malek in questo caso è bravissimo ad esprimere questa lotta interiore con finezze espressive che l’originale forse non esprimeva con altrettanto tremore e inquietudine. Peccato che il cliché del ragazzo impaurito che vuole essere amato non corrisponda affatto al narcisismo titanico del vero Freddie. Ma le analogie con la beatificazione non si esauriscono. Il nostro Freddie è casto e puro, almeno a guardare il contenuto letterale della finzione cinematografica. La sua vita privata è accennata ma mai mostrata. Non lo vediamo fare niente di più che scambiarsi un bacio, piuttosto casto, con il futuro fidanzato “serio”. Non lo vediamo mai a letto con nessuno, né uomo né donna, se non un attimo prima di donare un anello e di giurare eterno amore.

 

Anche i genitori di Freddie ricalcano lo schema del processo di santificazione: prima non lo comprendono, come Giuseppe e Maria di fronte a Gesù nel tempio, e poi, di fronte alla folla dei fedeli e alla promessa di fare del bene con spirito giusto, riconoscono la luce divina che, sulla soglia della morte, il cantante sembra irradiare tutto intorno. 

Come il santo bevitore di Joseph Roth, Freddie è intrinsecamente buono: qualsiasi cosa farà nel corso della sua vita non potrà che sospingerlo verso la beatificazione. È un predestinato. Anche se il suo percorso esistenziale è tortuoso, non potrà che redimersi. Anzi, è proprio la sua debolezza che lo rende ancora più meritevole di salvezza. Perdonato dagli amici e purificato dalla malattia che lui vive come un martirio, potrà così salire le ultime scale che lo innalzeranno per sempre nel paradiso degli artisti. Una promessa di redenzione e resurrezione, sia pure attraverso il riconoscimento artistico dei posteri, dove la scala finale prima di salire sul palco del Live Aid è metafora fin troppo evidente. L’artista non sale i gradini, ma ascende a una condizione superiore. Amen. 

 

Il caso di Freddie e della sua beatificazione cinematografica, peraltro già percorsa in molti altri biopic recenti, è interessante perché ci permette di fare qualche considerazione sul rapporto tra arte e religione. Non si tratta soltanto di un limite creativo degli sceneggiatori né di una serie di vincoli imposti dai produttori. Si tratta piuttosto dell’espressione di un rapporto canonico tra arte e sacralità, ovviamente nascosto e negato, ma nei fatti onnipresente. 

L’artista, almeno fino all’era dei Talent Show che hanno messo la pietra tombale sull’arte popolare, incarnava la figura del santo laico, manifestazione di un ordine estetico superiore, votato al sacrificio personale in nome di un bene più alto, ma non necessariamente collegato a nessuna religione positiva. Da Vincent Van Gogh a Jim Morrison, l’artista percorre una via crucis dove si consuma nel tentativo di liberare la sua vera natura che dovrà, una volta manifestatasi e irradiatasi intorno come nel roveto ardente, risplendere sui fedeli – anzi no, sui suoi fan e ammiratori. L’arte ha riempito quel luogo rassicurante che la morte di Dio aveva reso vuoto e abissale. 

 


D’altronde, l’arte moderna nasce con la narrazione di Giorgio Vasari, che quattro secoli fa inventò la figura dell’artista basandosi proprio sul modello delle vite dei santi. Il suo Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, pubblicato per la prima volta nel 1550, sembra un testo religioso, tanto l’analogia è evidente. L’artista è il santo laico e le sue opere sono i suoi miracoli, compiuti in parte per impegno personale e in parte per manifestazione diretta dell’Arte. In fondo, anche oggi, se andiamo a Londra alla Tate Gallery – o in qualunque altro grande museo – l’atmosfera e l’architettura ricordano molto quelle delle grandi cattedrali prerinascimentali: un ampio spazio monumentale, una imponente struttura architettonica, un flusso di fedeli alla ricerca della propria edificazione e salvezza, una efficiente organizzazione economica, qualche santo, qualche reliquia e, tutt’intorno, le bancarelle con salamelle e birrette. La raccolta delle offerte è praticamente identica, come la possibilità di sponsorizzare panche, altari, stanze e borse di studio.

 

L’arte risponde a quel bisogno di trovare una dimensione superiore ma collettiva, che altre forme di svago non riescono a soddisfare. Si fa carico di una serie di valori etico-sociali che promettono una edificazione facilmente raggiungibile, è sufficiente guadagnarsi l’appartenenza a quel mondo. Se una volta si doveva recitare un Credo, oggi è spesso sufficiente riconoscersi in una certa corrente estetica e manifestare la condivisione nel gusto di qualche opera. In fondo, è molto più facile e gradevole apprezzare Van Gogh o Mercury che non dichiarare la propria adesione a qualche astrusa formula teologica. 

 

Con questo non voglio né parlare di religione né criticare la musica dei Queen (che adoro), ma credo sia interessante vedere come queste analogie, tra arte e sacro, si siano accumulate e concentrate in un film che ne è rimasto letteralmente schiacciato. Quanto a Mercury, preferisco ricordarlo con le parole della sua canzone The Golden Boy che compose per duettare, in modo sfacciatamente smisurato, insieme al soprano Montserrat Caballé: “I love you for your passion/I love you for your fire/The violent desire that burns me in its flame/A love I dare not name”. Non un santo, ma forse un angelo caduto.

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