Speciale

Le fiamme della guerra si misurano in gradi fahrenheit

24 Novembre 2014

Nello stillicidio di video postati dallo Stato Islamico negli ultimi mesi, ce n’è uno sostanzialmente ignorato, ma che è il più interessante per ragionare sui cortocircuiti provocati dall’attività mediatica dei fondamentalisti. Credo sia stato trascurato prima di tutto perché troppo lungo (dura 55 minuti) e quindi poco consumabile dai ritmi “istantanei” della comunicazione contemporanea; e perché non offre truculente immagini di atrocità. Cioè, non che non ci siano: ma non riguardano occidentali, e quindi, nella graduatoria dell’interesse mediatico, finiscono agli ultimi posti, come le vittime delle alluvioni in Bangladesh.

 

Già per la lunghezza il video, che si chiama Flames of War, propone la possibilità di un’analisi più profonda e strutturata dell’immaginario di IS (uso la dizione di “Islamic State” che loro stessi utilizzano nel filmato). Qui si vede che c’è un lavoro lungo e complesso; e sicuramente la mano di un autore, ancorché anonimo. E che si tratta di un “film” pensato per essere consumato come tale (e non come altri “messaggi nella bottiglia” lanciati in rete): lo dimostra il fatto che era stato preceduto, qualche giorno prima, da un trailer di un minuto, di cui in effetti si è parlato più del film stesso. D’altra parte il video ha un produttore dichiarato: quell’Al Hayat Media Center (sic) che è il responsabile di tutta la campagna di comunicazione di IS.

 

Flames of War (un titolo che ricorda un blockbuster americano, e che in effetti è il nome di un popolare gioco di simulazione della Seconda Guerra Mondiale) racconta la nascita e lo sviluppo di IS fino alla costituzione del Califfato. A chi è rivolto? Il film è costantemente commentato da uno speaker inglese; e laddove si parla in arabo ci sono i sottotitoli. Evidentemente, vuole essere visto da noi. Per trovare nuovi adepti? Forse. A me sembra piuttosto corrispondere a una necessità di sistemazione identitaria da parte di un movimento vittorioso. Come se, una volta conquistatosi col sangue il riconoscimento internazionale, IS abbia bisogno di darsi un canone e un epos. È successo in tutti i regimi: da Stalin a Hitler. Giunge il momento in cui un dittatore vuole “sistemare” la sua memoria e darle un posto – da lui considerato fatalmente manifesto – nella storia.

 

Certo, qui non ci troviamo di fronte a Eisenstein o a Riefenstahl. Ma Flames of War – al netto di quello di cui vorrebbe convincerci – è un film ben fatto. Ben fatto secondo i criteri che ci siamo abituati a considerare “buoni” negli ultimi anni. E scatta appunto qui il cortocircuito di cui parlavo all’inizio.

 

Flames of War è classificabile come un documentario e lo stile che lo caratterizza è una specie di incrocio tra History Channel e Michael Moore. Ricorda il primo per quanto riguarda grafica e montaggio: l’uso della musica come effetto, la scelta ossessiva di non montare le immagini linearmente ma di usare veloci dissolvenze nere in apertura e chiusura, l’intenzione generale di essere “infotainment”. Ricorda il secondo per quanto riguarda l’aspetto controinformativo, la dichiarata volontà di “spiegarti la verità”, al contrario di quanto fanno i media asserviti. Ecco, come film maker, penso che “spiegare la verità” in questi termini sia, ideologicamente e artisticamente, una posizione da combattere con forza. Il cinema è per natura un mezzo ambiguo nel suo rispecchiare la realtà. Ignorare (volontariamente o meno) questo statuto del linguaggio filmico è il discrimine su cui – per me – si misura l’onestà di un film. Mi spiego meglio: ogni film (come ogni atto artistico) dovrebbe ambire a trovare la verità. Ma la verità “vera” non è un pacchetto preconfezionato da qualcuno che la detiene per autorità: altrimenti si chiama propaganda, controinformazione, tv d’inchiesta. Per capirci: “Report” di Milena Gabanelli svela molte “verità”, ma non ha uno statuto artistico. Non ci prova nemmeno, peraltro: al contrario di molti documentari, anche celebrati, che vivono su quell’equivoco. Ma è esattamente lì la soglia sulla quale si capisce il reale valore di un film. Ed è anche la ragione per cui la Jihad può ispirarsi a Fahrenheit 9/11 ((un film che non mi ha mai convinto e adesso capisco meglio perché…).

 

Drammaturgicamente, si tratta di far schierare subito lo spettatore con il narratore mostrando da una parte il potere, l’arroganza, i grandi mezzi di distruzione; dall’altra i poveri, i liberi, i ribelli (se tutto questo vi ricorda Star Wars non è un caso; è non un caso che le immagini di Bush siano le stesse in Flames of War e in Fahrenheit 9/11). E in effetti la semplice giustapposizione tra le immagini delle superaccessoriate truppe americane e quelle dei barbuti armati solo di fede e kalashnikov non ha bisogno di commenti. All’orecchio occidentale, semmai, stona la retorica dello speaker, tutta incentrata sull’encomio dei guerriglieri amati da Allah, “the best of the best”. Una retorica a cui fa però da contrappunto uno stile di ripresa casual, attento a cogliere sorrisi, abbracci, pacche sulle spalle – tutta una prossemica viril-cameratesca che, peraltro, si ispira una famosa scena de Il mucchio selvaggio di Peckinpah.

 

 

Nondimeno, nel cercare di “portarti dalla sua parte”, Flames of War ha anche accenti poetici in maniera disturbante. C’è una lunga sequenza con camera fissa, in bianco e nero, di un plotone di combattenti, schierati su varie file, in posa come in certe foto di nostri partigiani. I primi sono seduti per terra e al centro dell’immagine c’è il loro comandante, il quale comincia a salmodiare dei versi del Corano, in un silenzio impressionante. I volti dei suoi soldati sono fissi, pensosi, serissimi. Imbracciano tutti il loro fucile e sembra che in quel momento si focalizzi tutta la loro vita: guerra e Allah – e i propri compagni. La cosa terribile è che – pur sapendo in che contesto si iscrive questa scena e cosa probabilmente faranno quegli uomini – non si può non cogliervi quasi un senso di dolcezza.

 

La musica, appunto, è un altro elemento affascinante (e perturbante) del film. Se ne sono occupati su doppiozero, come discorso generale, Ivan Carozzi e Paolo Inverni. Se quello che ripetutamente accompagna il montaggio è un anasheed nei termini in cui lo descrivono, bisogna ammettere che funziona alla grande. La ripetizione del tema crea un effetto ipnotico che smorza la violenza delle molte immagini di battaglia, dando profondità al piano del puro realismo. E qui non posso fare a meno di chiedermi una cosa a proposito di vent’anni e passa di World Music. Una moda che ha sdoganato anche i canti religiosi musulmani (penso al successo di uno come Nusrat Fateh Ali Khan, usato anche da Oliver Stone in Natural Born Killers…) proponendoceli fuori contesto, semplicemente come “musica”. Bene, mentre vedo i soldati di IS ammazzare i nemici (un’immagine dura ed estranea alla mia vita), perché me li sento invece vicini e quasi familiari, come se fossero i “buoni”? Perché, purtroppo, posso ricondurre quel sound alla mia esperienza culturale e trovarlo genericamente “bello”, anche se adesso mi accorgo di non avere il minimo strumento per capirne le implicazioni, che sono invece ovvie per i fondamentalisti.

 

Gran parte di Flames of War è occupato dalla descrizione di combattimenti, documentati da operatori che stanno in prima linea con i soldati. Segno evidente che fin dall’inizio era chiara l’intenzione di uno storytelling del movimento islamista. Rispetto a quello che si vede in questo film, le immagini prodotte dai droni dei servizi militari occidentali sono irrilevanti. Qui si vede la gente combattere e morire. Non muoiono solo i nemici (spesso finiti brutalmente), muoiono anche i Jihadisti. Muore in diretta un combattente che cade tra le linee e resta lì, filmato nell’agonia, che però è composta e “bella”.

 

D’altra parte, se la natura generale di queste immagini è quella del cinéma-verité, il montaggio si incarica di trasformarla in altro, secondo un’estetica da video musicale. Oltre alla musica, come detto, ci sono slow motion, ripetizioni, un uso abilissimo (quanto ovvio) degli effetti sonori. Una gran parte del finale del film è dedicata alla conquista di una base dell’esercito siriano e sembra una sequenza presa da Black Hawk Down o da Green Zone, e cioè l’essenza dei film bellici hollywoodiani dell’ultimo periodo. La battaglia è condotta di notte e gli operatori di IS sono costretti a usare l’effetto “Night Shoot”. Tutto diventa nero e verde, e dell’azione vera e propria si capisce poco: ci sono spari, gente che corre, urla. Ma la concitazione dello scontro armato si comunica perfettamente, con un meccanismo che ricorda le ossessive camere a mano di Blair Witch Project o di tutti i recenti film girati in stile “gonzo”.

 

Quando, il giorno dopo la vittoria, le immagini tornano a colori, “normali”, il regista di Flames of War ci apparecchia il gran finale in puro stile IS. Vediamo dei soldati siriani catturati (anche se nessuno porta la divisa) che si scavano la fossa. Un occidentale incappucciato che ricorda il famigerato “Jihadi John” li interroga. Chi siete? Perché siete qui? I poveracci non hanno voglia di rispondere, salvo uno che si scaglia in un’invettiva contro Assad, definito il vero colpevole della loro sorte, per averli mandati a combattere contro i “benedetti di Allah”.

 

Quella di far condividere alle vittime le ragioni della loro esecuzione è una costante dei video di IS, a cominciare dall’uccisione di James Foley per arrivare ai recenti video di Cantley, l’ostaggio portato in giro a Kobane a fare da testimonial. Sembra un sintomo molto evidente della cattiva coscienza che serpeggia sotto l’incrollabile fede fondamentalista. Perché poi la “confessione” o il riconoscimento delle ragioni di IS non salva la vita a nessuno. I disgraziati prigionieri vengono abbattuti uno dopo l’altro con un colpo di pistola alla testa.

 

Il film finisce in puro stile da trailer cinematografico, con il claim che annuncia “Fighting has just begun” (“La guerra è appena cominciata”). Ultimo segno di quanto tutto questa barbarie sia impastata di codici occidentali, “roba nostra”: come le migliaia di combattenti usciti dalle metropoli europee e americane per unirsi alla Guerra Santa dell’IS.

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