Cambridge analytica e le responsabilità / Facebook: il Re (era già) nudo

27 Marzo 2018

Sono molte ormai le cose che pensiamo di sapere rispetto all’affaire Facebook-Cambridge Analytica. Sono certezze che derivano dall’avere letto sui quotidiani e ascoltato nei mass media, con una certa continuità lungo l’arco di tutta la scorsa settimana, approfondimenti e opinioni di diversa natura a partire dalle “rivelazioni” fatte dal whistleblower Christopher Wylie, un ex impiegato di Cambridge Analytica  all’Observer e al New York Times.

Si tratta di certezze che hanno a che fare con la manipolazione elettorale, con il furto di dati e con la possibilità di una nostra sempre più elevata profilazione a causa dei contenuti, commenti ma soprattutto reazioni (i like) che lasciamo su Facebook.

E sono molte le cose che vogliamo ancora sapere. Ad esempio come i regolatori nei diversi Paesi pensano di agire nel futuro, quali contromisure assumerà Facebook dopo il tardivo post di scuse da parte di Mark Zuckerberg, per quale partito italiano Cambridge Analytica ha lavorato ecc.

 

 

È da questi dubbi e da queste certezze che nasce una reazione “di pancia” da parte degli utenti online, raccontata anche dai mass media, che si è andata costruendo attorno all’hashtag #DeleteFacebook in cui si suggerisce, si racconta, si mostra la propria uscita dal social network. Narrazione che trovate, con effetto paradossale, anche dentro la piattaforma.

 

In realtà le nostre certezze sull’intera vicenda, le domande che ci poniamo e le soluzioni proposte sono figlie di un particolare contesto culturale in cui inserire l’intera storia e in cui troviamo associato un certo clima sociale e mediale prodotto attorno alla contrarietà circa l’elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti e un rigurgito critico rispetto alla posizione che le piattaforme come Facebook stanno assumendo nell’opinione pubblica e nel racconto del mondo. Una doppia tendenza fortemente alimentata dai media e dalla élite culturale che si prende cura dell’informazione e anche della realtà della politica. La stessa élite che, all’insegna della disintermediazione con cittadinanza e pubblico e per mantenere una presenza di opinione, ha i propri profili su Facebook e altri social media. E non mi pare di aver visto in questi giorni i profili cancellati di quelle stesse élite che partecipavano al #DeleteFacebook o ne scrivevano.

 

 

Si badi bene: non voglio sottovalutare il problema né dire che l’applicazione della psicometria ai Big Data non possa avere conseguenze ma semplicemente che dobbiamo, se vogliamo capire meglio, affrontare con serietà e precisione chirurgica il tema.

 

Porci quindi domande circa gli effetti avuti dalla campagna di Obama nel 2012 sui ventenni utilizzando dati recuperati attraverso una App su Facebook che consentiva di raccogliere anche informazioni sugli amici. Il responsabile della campagna di Obama per “integration and media analytics”, Carol Davidsen ha detto durante il suo discorso al Personal Democracy Forum del 2015 “Siamo stati effettivamente in grado di scaricare l'intero social network degli Stati Uniti”.

Dobbiamo chiederci perché nel 2015 Facebook, a conoscenza di questo fatto e dei dati ceduti dal ricercatore dell'Università di Cambridge Aleksandr Kogan a Cambridge Analytica attraverso una App che raccoglieva gli stessi dati utilizzati nella campagna Obama, abbia modificato le regole di raccolta e non si sia posto delle domande su quanti altri abbiano potuto raccogliere i dati della popolazione (non sono americana) e che fine abbiano fatto questi dati.

Dobbiamo chiederci se non dovremmo pretendere maggiore trasparenza sulle campagne di micro-targeting come nel caso della comunicazione politica magari proprio dal lato dei partiti.

Dobbiamo chiederci se ciò di cui stiamo parlando, come hanno scritto molte testate, sia una breccia nel social network che ha consentito la raccolta di dati degli utenti, quindi un problema tecnico, o non sia piuttosto, come spiega bene Zeynep Tufekci parlando di Facebook come una macchina di sorveglianza di massa, “qualcosa di ancora più preoccupante: una conseguenza fin troppo naturale del modello di business di Facebook, che implica che le persone si rechino sul sito per l’interazione sociale, solo per essere tranquillamente sottoposti a un enorme livello di sorveglianza”.

E dobbiamo chiederci se e quanto il business costruito vendendo la nostra partecipazione e i nostri comportamenti online al mercato dei consumi e della politica riguardi solo piattaforme come Facebook o non rappresenti un contesto più ampio e complesso. Come spiega David “Doc” Searls, co-autore del Clutrain Manifesto, la stessa cosa vale anche per il Times e per ogni altra testata che utilizzi sistemi di pubblicità basata sul tracciamento e che portano i dati dei lettori a società terze senza controllo né da parte degli stessi lettori (a meno che non utilizzino tool anti tracciamento), né da parte delle testate.

 

In questo senso il caso Facebook-Cambridge Analytica non ci dice che “il Re è nudo” ma ha piuttosto scoperchiato un vaso di Pandora da cui stanno uscendo i mostri che l’accelerazione della vita connessa associata a un’economia neo-liberale ha generato. Un insieme di problemi reali che abbiamo cominciato da poco a trattare come ossessioni collettive di cui parliamo molto ma che non si traducono in comportamenti comuni o in regolamentazioni applicabili. Parlare di privacy violata, denunciare gli algoritmi, accusare “la Rete” di manipolazione costituisce per ora una strategia discorsiva che non ha avuto la forza di tradursi in una preoccupazione culturale diffusa. E anche le tracce lasciate dall’opinione pubblica online, come il #DeleteFacebook, a guardare bene fanno parte della stessa narrazione, almeno in Italia.

 

 

Se pensiamo infatti che parliamo di “5mila menzioni, 4 mila fonti diverse, molto concentrate su professioni intellettuali ed editoriali” e che il principale influencer sul tema è  il sito dell’Agenzia Giornalistica Italia Agi (dati SocialRecap) è evidente che più di un sentire comune si tratti di un racconto del tipo “il Re è nudo”. Un racconto retorico che rischia di bearsi dell’aver smascherato l’imbroglio mentre il rimosso che ha cominciato a emergere segna la fine della nostra innocenza e la necessità di assumerci la responsabilità delle nostre scelte.

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