Sguardo di donna

12 Novembre 2015

«Mi chiederai tu, morto disadorno,/ d’abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?», scriveva Pier Paolo Pasolini. A questa disperata necessità ognuno prova a rispondere a modo suo. Dopo quarant’anni dalla morte, c’è chi Pasolini l’ha amato, chi l’ha odiato, chi lo legge in  silenzio come una preghiera, chi se lo porta dentro senza dire una parola, forse c’è anche qualcuno che non lo conosce. E poi c’è chi prova a rispondere a quella domanda attraverso il proprio lavoro, il proprio essere nel  mondo, il proprio sguardo. Ogni individuo in maniera diversa: con coraggio, tenacia, ironia, leggerezza, sofferenza o dolore. Così sono le opere delle venticinque fotografe esposte nella mostra Sguardo di donna: tanti diversi modi di essere nel mondo. Passioni.

 

Le loro sono immagini in limine, verrebbe da dire evocando un’immagine montaliana, riflessi dove i confini vacillano, l’identità non ha più un volto stabile o un’unica dimensione, la normalità e la mostruosità si sovrappongono, oppure le immagini hanno il potere di trasformarsi in idee, pensieri, visioni del mondo: fotografie che mostrano l’emarginazione, la città, le strade, un po’ come se fosse possibile camminare nei testi di Walter Benjamin, dove il nostro sguardo si fa catturare ora da quel frammento, ora da quell’altro e come se contemporaneamente ognuno di essi fosse la chiave per comprendere l’intera opera. In questo modo si cammina fra le stanze di Sguardo di donna: convinti che ogni immagine sia la chiave di lettura per giungere in tempo all’inevitabile appuntamento con il “reale”: l’identità, la relazione, la violenza, la differenza. E con i molti interrogativi che sorgono seguendo le tracce disseminate nel percorso.

 

Si può iniziare con Diane Arbus e i suoi soggetti emblemi di un’alterità assoluta e distante: la ragazza del circo, la danzatrice in topless, o l’anziana donna con una maschera da uccello, sprofondate in una solitudine senza parola. Sembrano tanti viaggi dentro la persona, in un silenzio interiore che nell’immobilità dell’immagine si mostra per come è:  «un segreto che parla di un segreto», afferma la fotografa, che tuttavia interroga il nostro sguardo nel senso opposto: che valore hanno queste esistenze? Cosa si cela dietro i costumi o le maschere? Chi sono gli individui che appaiono nell’immagine? Esistono? Come sono le loro vite?

 

Diane Arbus, Girl in her circus costume, MD, 1970. The Estate of Diane Arbus LLC, courtesy M. & E. Woerdehoff von Graffenried, Paris

 

La risposta si trova in maniera diversa nelle altre immagini esposte. Sembra che in esse sia racchiuso il tentativo di oltrepassare ciò che Susan Sontag nel suo saggio sulla fotografia,  scriveva a proposito delle immagini della Arbus: ovvero che impediscono una comprensione storica della realtà, poiché mostrano “un mondo nel quale tutti sono stranieri, disperatamente isolati, immobilizzati in identità e reazioni meccaniche e paralizzanti”, rendendo così irrilevanti la politica e la storia.

 

Nelle stanze di questa mostra curata da Francesca Alfano Miglietti, si assiste invece a un trionfo di storie e di diversità che si aprono allo spettatore, che chiedono di essere guardate, e proprio grazie alla messa in immagine della loro instabilità, riescono a instaurare con esso una relazione non legata all’idea di possesso ma a quella di possibilità.

 

La sudafricana Zanele Muholi con la sua opera Faces and Phases (2006-2014), ritrae lesbiche e transessuali incontrati durante i suoi viaggi come attivista in posti come Città del Capo, Gauteng, Botswana, uno strumento per rivelare, attraverso il ritratto, i volti di donne oppresse da una società patriarcale e intollerante. Come spiega l’artista, Faces è “metafora della persona, e anche del confronto faccia a faccia tra la fotografa (artista e attivista al contempo) e i protagonisti dei ritratti; Phases si riferisce ai passaggi da una fase o da un’esperienza sessuale all’altra”.

 

Zanele Muholi, Skye Chirape, Brighton United Kingdom 2010. Zanele Muholi, courtesy Stevenson, Cape Town and Johannesburg

 

In modo diverso, anche Bettina Rheims stabilisce relazioni. L’opera in mostra Gender Studies (2011) raffigura uomini e donne transessuali che hanno deciso di vivere sulla linea di confine tra i due generi sessuali. I modelli sono ingaggiati con un procedimento inconsueto per l’artista, che crea un profilo in Facebook in cui, diffondendo immagini di un’altra serie fotografica, invita “chi si sente diverso” a contattarla. 

 

Bettina Rheims, Valentin P. III (From the series Gender Studies) 2011. Bettina Rheims

 

E ancora Catherine Opie che inizia a fotografare le comunità del suo paese: quella queer di S. Francisco, i surfisti in attesa delle onde, i pescatori dei laghi ghiacciati del Minnesota, i giocatori di football delle squadre del college, soffermandosi su come l’identità individuale si manifesta attraverso i gruppi: le coppie le squadre le folle.

 

Catherine Opie, Ron Athey 1994, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino. Catherine Opie, courtesy Regen Projects, Los Angeles

 

E c’è invece chi si diverte a dissacrare attraverso il proprio corpo, alcune icone su cui si è in parte costruito il modello wasp di bellezza femminile: Tracey Rose, con l’opera Ciao Bella! (2001-2002), presentata in occasione della Biennale di Venezia curata da Harald Szeemann, indossa i panni di diversi personaggi femminili ritraendo e annientando quelle stesse icone: Lolita, Ilona Staller, una coniglietta, una sirena.

 

Tracey Rose, Lolita (from the series Ciao Bella!) 2001. Tracey Rose, courtesy the artist and Dan Gunn, Berlin

 

Il corpo, con le sue forme al limite e del limite, si fa così portatore di un’energia incontenibile, spazio aperto a molteplici con-formazioni, come si percepisce in The Ballad of Sexual Dependency (1985) di Nan Goldin, ma anche in altre immagini, seppur meno esplicite, ma non per questo meno provocatorie. Così i volti perturbanti dei gemelli identici fissati dall’obiettivo di Martina Bacigalupo, le immagini surreali di Sam Taylor-Johnson che mostra i desideri più reconditi dei soggetti raffigurati, le ipnotiche oscillazioni identitarie messe in scena da Roni Horn, dove nel progetto You Are the Weather (2010-2011), fotografa una donna in cento modi diversi e solo apparentemente ripetitivi o le immagini di Yelena Yemchuk, che sceglie di raffigurare le persone che la coinvolgono emotivamente, stabilendo con esse una relazione diretta.

 

Martina Bacigalupo, Walter and Benjamin (From the series Hito) 2005. Martina Bacigalupo/Agence VU’, Paris

 

Il passo dall’identità individuale alla presenza nel mondo è brevissimo. E qui, ancor prima dell’interrogativo in merito all’esistenza di un’eventuale peculiarità dello sguardo femminile e alle differenze in rapporto ad uno sguardo maschile, sorge un’altra domanda.  O meglio se la pone Judith Butler in una conferenza pronunciata in occasione del conferimento del premio Adorno consegnatole a Francoforte nel settembre del 2012, che ripropone un interrogativo dello stesso Adorno: «come condurre una vita buona in una vita cattiva?».

 

La risposta della filosofa passa attraverso il riconoscimento di una forma di vita sociale in cui la vita di ognuno implica quella dell’altro, così come la condizione di vulnerabilità e precarietà in cui si è immersi: «se devo vivere una vita buona sarà una vita vissuta insieme agli altri, una vita che non può essere chiamata vita senza gli altri. Non perderò questo io che io sono; chiunque io sia, verrò trasformato dalle connessioni con gli altri, poiché la mia dipendenza dagli altri e la mia “dipendibilità” sono necessarie a vivere, e a vivere bene».

 

Per questo la domanda etica su una buona vita, non può che incontrare la domanda politica sulle vite degli altri, e sulle forme con cui a vite diverse corrispondono diverse forme di dominazione e di gestione da parte del potere. In questo punto preciso si innesta un’altra parte delle immagini esposte in mostra. Se l’identità individuale si configura, nelle opere di alcune artiste, come possibilità e relazione, il passo successivo è quello di “entrare” nelle vite degli altri: nelle città, nelle case, nelle strade. In che modo?  Attraverso un impegno volto a mettere in discussione le diverse divisioni dilaganti nel nostro presente, tra esistenze riconosciute ed esistenze non riconosciute nei loro desideri e nelle loro differenze, non solo identitarie.

 

Le immagini di Letizia Battaglia ne sono un esempio: le sue fotografie testimoniano i delitti di mafia, raccontano la sua città, Palermo, nella miseria e nello splendore: le morti violente, i quartieri degradati, le strade insanguinate, ma anche gli sguardi delle bambine che incarnano la speranza nel futuro, in cui la fotografa si rispecchia, immergendosi appieno nella realtà che la circonda: “Non bastava fotografare, bisognava farlo con rispetto e partecipazione”, ribadisce tutt’oggi.

 

Letizia Battaglia, Omicidio sulla sedia, Palermo 1975. Letizia Battaglia

 

La medesima tensione con cui si esprime Donna Ferrato, che nella sua opera Living with the Enemy (1988) fotografa le violenze subite  da donne e ragazze all’interno delle pareti domestiche, con cui ha smosso parte dell’opinione pubblica. E ancora: un caso del tutto singolare, il volto e il corpo malato e anziano di Ezra Pound, immortalato nei venti scatti di Lisetta Carmi, il cui sguardo esprime, ricorda la fotografa, “la solitudine, la disperazione, l’aggressività, lo sguardo perso nell’infinito”.

 

Donna Ferrato, Diamond (from the series Living with the Enemy) 1988. Donna Ferrato

 

E se alla fine l’interrogativo che sorge è: cosa hanno cambiato queste immagini? La violenza è diminuita, il degrado sparito, le città sono luoghi idilliaci? No. Eppure l’imperativo categorico è iniziare: a guardare, a capire, a stare nel mondo, forse a cambiare. E queste fotografie ne sono l’emblema: non se ne vanno, stanno ferme, chiedono di essere viste, sono lì a interpellare ognuno di noi sul nostro ruolo e il nostro essere nel mondo. C’è una frase di Marlene Dumas che voglio ricordare: «Vorrei che i miei quadri fossero poesie. La poesia è una scrittura che respira, lascia spazi aperti, in modo che si possa leggere tra le righe». Grazie a questa mostra, si può capire come lo può essere anche una fotografia.

 

 

 

La mostra

Sguardo di donna. Da Diane Arbus a Letizia Battaglia, a cura di Francesca Alfano Miglietti

Le 25 fotografe esposte sono: Diane Arbus, Martina Bacigalupo, Yael Bartana, Letizia Battaglia, Margaret Bourke-White, Sophie Calle, Lisetta Carmi, Tacita Dean, Lucinda Devlin, Donna Ferrato, Giorgia Fiorio, Nan Goldin, Roni Horn, Zanele Muholi, Shirin Neshat, Yoko Ono, Catherine Opie, Bettina Rheims, Tracey Rose, Martha Rosler, Chiara Samugheo, Alessandra Sanguinetti, Sam Taylor Johnson, Donata Wenders, Yelena Yemchuk.

 

Venezia, Casa dei Tre Oci, dal 11/9/2015 al 8/12/29015

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