Sociologia della catastrofe / Mottarone: il perché di un disastro

22 Giugno 2021

La tragedia della funivia del Mottarone ci ha scossi profondamente. Ci ha lasciati quasi increduli. È possibile che persone “normali” abbiano messo a rischio la vita di altre persone con tanta pertinacia, con tanto apparente disprezzo? Altre tragedie, vicine e lontane, hanno innescato studi approfonditi sui meccanismi che stanno alla base di eventi così sconcertanti.

 

Diane Vaughan insegna sociologia alla Columbia University di New York. Nel campo, alquanto specialistico, della sociologia dei disastri, si è fatta un nome grazie all’analisi, acuta e documentata, su come andarono le cose alla NASA negli anni precedenti il disastro del Challenger. I lettori meno giovani ricorderanno che nel gennaio del 1986 la navetta Challenger, lanciata da Cape Kennedy con sette astronauti a bordo (fra i quali Christa McAuliffe, un’insegnante di scienze che avrebbe dovuto tenere una lezione dallo spazio), si disintegrò in volo un minuto dopo il lancio, uccidendo tutti i membri dell’equipaggio. Ne seguì un’inchiesta, condotta dalla Commissione Rogers, alla quale partecipò anche il premio Nobel per la fisica Richard Feynman. 

 

Vaughan non faceva parte di quella commissione, ma il suo libro The Challenger Launch Decision: Risky Technology, Culture and Deviance at NASA, uscito nel 1996, rappresenta forse il lascito più duraturo, in termini di insegnamento, che quel disastro ci abbia lasciato. Il succo è molto semplice: si finisce per accettare una procedura notoriamente rischiosa perché in numerose occasioni quella procedura non ha dato luogo a incidenti. Il fatto che non ci siano stati incidenti 10 volte autorizza a pensare che andrà bene anche l’undicesima. Il nome che Vaughan ha dato a questo modo perverso di ragionare è normalizzazione della devianza.

 

Vaughan è arrivata allo studio della vicenda Challenger dopo una lunga preparazione: in precedenza aveva scritto un libro su come si sfasciano le relazioni amorose (Uncoupling, del 1986), e un altro su un complicato caso di frode ai danni del sistema sanitario (Controlling Unlawful Organizational Behavior, del 1983). I tre temi sono intimamente connessi, lo si capisce bene leggendo questo brano, tratto da una sua intervista rilasciata a Consultant (potete trovare l’intero testo in rete, qui). 

“Sono interessata al lato oscuro delle organizzazioni: perché le cose vanno storte – errore, negligenza, disastro. La mia ricerca mostra che i guai derivano non solo da errori degli individui, ma anche da errori organizzativi. La fine di una relazione fra due persone è un esempio, perché la relazione amorosa è l’organizzazione più piccola che esista. Con quella ricerca ho ricostruito, usando lo strumento dell’intervista, il processo attraverso il quale le relazioni si sfasciano. È una transizione graduale, non una rottura improvvisa: una persona inizia ad allontanarsi dalla relazione, socialmente e psicologicamente, prima dell’altra. Quando la persona che viene lasciata indietro si rende conto che il rapporto è seriamente compromesso, l’altra persona è già “partita” sotto tanti aspetti, che la relazione è ormai difficile da salvare.  

 

Dalle reazioni che ho avuto a questo mio studio, mi sono resa conto che la sociologia ha un messaggio importante da dare, perché può mettere in luce dei pattern che sono comuni a diverse situazioni: come le persone vivono le loro vite e come le organizzazioni assolvono i loro compiti. Per esempio, esiste un meccanismo comune che può spiegare la negligenza nelle organizzazioni, il deterioramento delle relazioni amorose, incidenti e disastri. In ciascuno dei miei tre libri, ho messo in evidenza un pattern costante: un lungo periodo di incubazione disseminato di segnali di pericolo che sono passati inosservati, o sono stati male interpretati, oppure deliberatamente ignorati. La mia ricerca ha proposto uno schema per spiegare come la devianza viene “normalizzata” in vari tipi di organizzazioni”.

 

 

Nel caso del Challenger, il problema sottovalutato (o meglio “normalizzato”) dalla NASA riguardava le guarnizioni in plastica che garantivano la tenuta stagna delle giunture fra i diversi segmenti dei razzi che davano la spinta iniziale al Challenger (i cosiddetti booster rockets). Tutti i tecnici e i manager sapevano dei problemi di tenuta delle guarnizioni. Il giorno stabilito per il lancio era molto freddo. Gli ingegneri di Morton-Thiokol, la società produttrice dei razzi, consigliarono di rinviare il lancio, perché la bassa temperatura avrebbe indurito la plastica, riducendone ulteriormente la capacità di tenuta. Alla fine, dopo una drammatica riunione, si accettò il rischio: sappiamo che le guarnizioni sono un punto debole, ma finora tutto è andato bene. Quella mattina, invece, non tutto andò bene: uno sbuffo di gas incandescente fuoriuscì da uno dei razzi e investì il serbatoio di gas liquido del Challenger, facendolo esplodere. Questo disastro causò un blocco di quasi tre anni al programma Shuttle (in cui si trovò, finalmente, il tempo di ridisegnare le guarnizioni dei razzi). 

 

Questa non è, purtroppo, la fine della storia. Diciassette anni dopo, nel 2003, un altro shuttle, il Columbia, si disintegrò nello spazio, questa volta in fase di rientro nell’atmosfera. Nuova commissione d’inchiesta. Ai lavori di questa commissione Vaugham partecipò in qualità di additional investigator. Il rapporto della commissione fu molto critico dell’assetto organizzativo della NASA. Concluse che la lezione del Challenger non era stata assimilata in termini culturali e organizzativi. In particolare, affidare a una sola persona – il program manager – l’obiettivo di ottenere il rispetto dei tempi, la sicurezza, l’economicità, fu considerato dalla commissione la ricetta perfetta per generare “sviste” in tema di sicurezza. Se uno volesse, per estrema diligenza, ripercorrere la letteratura sullo shuttle per risalire alle radici lontane di quegli errori fatali, qui troverà molta bibliografia

(manca il libro di Vaughan perché successivo alla redazione del testo). Infine, come è naturale, anche il mondo del cinema si è interessato a questa storia: l’anno scorso Netflix ha prodotto una miniserie avvincente e ben fatta, Challenger: l’ultimo volo.

 

Il concetto di normalizzazione della devianza si applica a tutti i casi in cui organizzazioni grandi e piccole si trovano a confrontarsi sistematicamente con il rischio. John Banja è uno dei maggiori specialisti mondiali nel campo dell’errore medico. In un articolo del 2010, The normalization of deviance in healthcare delivery, riporta questo esempio: “Quando ero al terzo anno di medicina fui spettatore di un intervento chirurgico difficile. Dopo due ore di operazione, il chirurgo inavvertitamente toccò la propria mascherina con la punta dello strumento che stava adoperando. Invece di richiedere un nuovo strumento sterile, si bloccò per qualche secondo, mentre tutti nella stanza lo guardarono. Poi continuò ad operare. Cinque minuti dopo, stessa scena, e ancora nessuno disse nulla. Fui alquanto sconcertato. Quando, dopo l’operazione, chiesi a una delle infermiere un commento su quell’episodio, mi rispose, “Oh, niente di grave. Ora imbottiamo il paziente di antibiotici e tutto andrà per il meglio.” E in effetti le cose andarono come aveva detto l’infermiera; il paziente si riprese bene”. L’osservazione finale è, evidentemente, cruciale: proprio perché “tutto finisce bene”, medici e infermieri costruiscono in sé stessi la convinzione che la violazione dei protocolli sia perfettamente accettabile: normalizzazione della devianza. Fino a quando un paziente non muore.

 

In conclusione, chi agisce sconsideratamente mettendo in pericolo la vita umana è colpevole e va perseguito con severità. Massimamente quando, come nel caso della funivia del Mottarone, vengono addirittura disinseriti i sistemi di sicurezza obbligatori (a questo non si arrivò mai nell’agenzia spaziale americana). Ma va anche corretta la cultura che tollera e promuove la normalizzazione di quello che è sbagliato, della devianza. Ciò che sembra “tutto sommato” accettabile, contiene il seme del disastro.

 

Il “motore” della devianza può essere economico (come pare sia stato nel caso del Mottarone), politico (l’ansia di non rimanere indietro nella competizione internazionale nel caso del Challenger), oppure psicologico (falsa percezione di infallibilità). Ma il meccanismo attraverso il quale la devianza viene normalizzata è sempre lo stesso: è andata bene finora, andrà bene anche stavolta. È questa costanza del meccanismo che ci deve far drizzare le antenne, che ci deve far scoprire e correggere i tanti casi in cui diventiamo insensibili all’errore, e quindi al rischio sottostante. Una vera e propria narcotizzazione alla quale dobbiamo reagire. Ciascuno di noi può reagire, mettendo in evidenza e denunciando i comportamenti che vanno contro le regole, anche se da trent’anni (o magari da sessanta, da cento) “si fa così”.

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