Conversazione con Jonathan Coe

12 Marzo 2013

Incontro Jonathan Coe per la seconda volta (dopo averlo già presentato al festival Collisioni, in Piemonte, due anni fa) al festival WriteIdea di Londra, di fronte ad un pubblico attentissimo e alla presenza di due interpreti per sordi. Come allora, Coe si dimostra persona sensibile, affascinante e modesta. Dopo avermi spiegato com’è riuscito a farsi definire dal quasi coetaneo Nick Hornby “...il miglior scrittore della sua generazione”(citazione buttata da Hornby in un articoletto, ma poi ripresa da Coe e immortalata sulla copertina dell’edizione tascabile di Circolo Chiuso), passiamo subito a domande concrete – le risposte, come sempre, si riveleranno ricche e stimolanti.

 



 

Il tuo ultimo romanzo, I Terribili Segreti di Maxwell Sim (2009), che narra la crisi esistenziale di un uomo di mezz’età, sembra in contrasto con altri di più ampio respiro, tipo La Famiglia Henson. Puoi parlarci di come arrivi a questo cambio di registro, di volta in volta?

 

È vero che libri come La Famiglia Winshaw e La Banda dei Brocchi fanno parte di quello che molti definiscono ‘lo stato della nazione’, un fenomeno letterario che è ormai diventato un mini genere, anzi, quasi un’industria, se pensiamo anche agli ultimi libri di John Lanchester, Amanda Craig e Sebastian Faulks, per esempio. In questo tipo di libri di solito compaiono personaggi provenienti da mondi diversi, da classi sociali opposte che si confrontano, spesso drammaticamente, sullo sfondo di una riconoscibilissima realtà contemporanea. Ma secondo me anche la storia di Maxwell Sim, a suo modo, descrive i nostri tempi, è un ritratto di una società consumista, arida e desolante, di stazioni di servizio, rappresentanti e alberghi anonimi. Il libro non si occupa delle cause di tutto ciò, ma tenta comunque di offrire un ritratto accurato del paese che abbiamo, in qualche modo, creato. Con La Famiglia Winshaw avevo sentito il bisogno di scrivere sulla contemporaneità, e ad anni di distanza mi sembra profetico. Oggi vorrei tornare a scrivere un libro che tratti in modo diretto di temi attuali, ma non mi va l’idea di creare un ‘romanzo arrabbiato’, vorrei avere ancora un risvolto comico - il problema è che dopo più di trent’anni di Thatcherismo, trovo sempre più difficile ridere di certe cose, la situazione non mi sembra comica come una volta.

 

 

Restiamo ancora sui temi del giorno. In Gran Bretagna da un po’ di tempo si dibatte vivamente la questione della riforma scolastica, e soprattutto sul come insegnare a leggere e a scrivere. Tu, che hai frequentato la stessa scuola di Tolkien, cosa ne pensi?

 

Quello che il Ministro dell’Istruzione Michael Gove sta cercando di fare (mettendo troppa importanza sugli esami, per esempio), sembra una brutta caricatura di quello che succedeva già quando andavo a scuola io, negli anni ’70. Il sistema di allora mi ha dato le basi fondamentali della grammatica, è vero, ma nessuno strumento per sviluppare l’immaginazione – oggi è lo stesso, non c’è posto per l’immaginazione nella politica del ministro Gove. Per fortuna a me l’immaginazione è venuta abbastanza presto, a 11 anni avevo già scritto veri e propri romanzi. Penso che la mia motivazione sia stata la noia – scrivere era un modo per uscire dalla noia della periferia di Birmingham, quando c’erano solo tre canali TV e la cosa migliore da fare la sera era rifugiarmi in camera mia con una penna e un taccuino. Oggi invece è diverso, io ho due figlie (di 12 e 15 anni), che non sanno cosa sia la noia, sono sempre occupatissime con Facebook, Blackberry e in molti altri modi. La più grande vorrebbe scrivere, ma mi pare non abbia ancora trovato lo spazio mentale indispensabile per creare della narrativa.

 

 

Molti dei tuoi libri sono intrisi di musica, e tu stesso suoni e componi. Puoi parlarci dell’importanza della musica per te?

 

Siccome i miei gusti musicali (come quelli letterari) sono per artisti un po’ particolari, eccentrici, non necessariamente popolari, trovo strano il far parte di un gruppo di scrittori che invece ha avuto un successo, tutto sommato, di massa. Io ammiro Lawrence Sterne, Flann O’Brien e BS Johnson, autori che arrivano alla narrativa da un’angolatura obliqua, che cercano di seguire un approccio convenzionale, ma allo stesso tempo fanno di tutto per sovvertirlo. Lo stesso avviene con la musica: adoro i protagonisti della scena musicale di Canterbury degli anni ’70 (gruppi come Caravan, Hatfield & The North, Camel), e trovo curioso notare che i riferimenti musicali nei miei romanzi spesso non sono raccolti dal pubblico di lingua inglese, ma sono compresi benissimo dai lettori italiani. Per dare l’idea, una volta una radio nazionale italiana ha addirittura dedicato un’intera trasmissione di due ore alla musica citata ne La Banda dei Brocchi e Circolo Chiuso! Questo non succederebbe mai in Gran Bretagna. Allora, visto che sia gli scrittori che i musicisti hanno in comune un desiderio di sperimentare, io cerco di fare lo stesso, cercando la sperimentazione, ma allo stesso tempo attraverso canoni accessibili. I musicisti di Canterbury, partendo dal rock per portare il loro discorso musicale altrove, facevano proprio così – la loro non era musica difficile, ma non ha mai avuto un successo veramente di massa, perché era troppo diversa.

 

 

Concretamente, come manifesti questo intento quando scrivi?

 

Ogni volta che scrivo un libro nuovo cerco di fare qualcosa di diverso – e con questo non voglio dire qualcosa che non sia mai stato fatto, perché da Tristram Shandy in poi è impossibile fare qualcosa di veramente diverso – ma diverso almeno da quello che ho fatto prima (questo potrebbe spiegare il cambio di direzione di cui si parlava precedentemente). Cerco sempre di portare i lettori con me e di farli divertire. Il mio collega e amico Will Self crede che i romanzi abbiano il diritto - anzi l’obbligo - di essere difficili. È contento quando la gente dice che i suoi libri sono difficili da leggere, ma per me è vero l’opposto: io voglio che i lettori si divertano leggendo i miei libri. Sono un lettore pigro, non mi faccio problemi nell’abbandonare un libro se non mi prende sin dall’inizio. Mi rendo conto che molta gente legge per rilassarsi, per evadere dalle cose quotidiane, e anche se questo non vuol dire che io voglia immergere i miei lettori in un bagno caldo e confortevole ogni volta, devo tenerne conto quando scrivo. Forse verso la fine di un libro, quando il lettore ha già investito del tempo nel leggermi, a volte mi permetto di tentare strade nuove, ma in generale cerco sempre di catturare il lettore sin dall’inizio, di invitarlo, di farlo sentire veramente a proprio agio. Un altro romanzo chiave per me è stato Tom Jones, il classico di Henry Fielding, che già nella prima pagina fa una dichiarazione al lettore, dicendo che lo scrittore non dovrebbe essere uno che ti invita ad una cena per pochi intimi, ma un proprietario di ristorante (o gestore di pub), che deve fare di tutto per invitarti ad entrare nel suo locale, e di rendere l’esperienza piacevole ed attraente. La mia posizione quando scrivo (ma anche quando suono) è la stessa: ci deve essere una grande dose di originalità, un’angolazione obliqua e un po’ di sperimentazione, ma l’approccio deve essere sempre molto accessibile.

 

 

So che stai per completare un nuovo romanzo, ma la tua pubblicazione più recente è uscita prima in Italia che in Gran Bretagna. Di cosa si tratta?

 

Si chiama Lo Specchio dei Desideri, e non so se definirlo libro per bambini, perché é una fiaba per giovani lettori rivolta anche agli adulti. La protagonista è una bambina di otto anni che trova uno specchio rotto in una discarica, ma è uno specchio diverso dal solito perché non riflette il mondo per quello che è, ma qualcosa di diverso, qualcosa che cambia mentre lei cresce, fino all’età di quindici anni. È un libro con un messaggio politico perché dimostra che la bambina sviluppa una coscienza sociale – all’inizio lei nello specchio ci vede un mondo fantastico, con draghi, unicorni e castelli, ma gradualmente ci vede il mondo per come dovrebbe essere, acquistando così una consapevolezza dei problemi reali che la circondano. Mi è venuta l’idea di scrivere un libro per un pubblico più giovane perché volevo usare il linguaggio in un modo più semplice. Questo è il mio secondo libro pubblicato prima in Italia che in Gran Bretagna, ne avevo già scritto un altro quando Alessandro Baricco mi aveva chiesto di riscrivere I Viaggi di Gulliver, di Jonathan Swift, in una versione per bambini di otto anni. Il mio compito era di ridurre questo capolavoro della narrativa politica così pieno di saggezza, verità e cinismo, in una storia di 8.000 parole. Ci ho messo due mesi ed è stata un’esperienza molto interessante. Il difficile è stato mantenere l’essenza del romanzo, senza semplificarlo troppo, ma cercando di riproporre la storia usando un linguaggio semplice. Una volta era uno dei testi scolastici, ma a dir la verità è abbastanza difficile, io stesso sono solo riuscito a capirlo quando avevo diciotto anni. Dopo l’esperienza di Gulliver, sono arrivato a concepire una storia come Lo Specchio dei Desideri, libro che ho voluto arricchire di illustrazioni, perché lo vedevo anche come un bellissimo oggetto, cosa che naturalmente non avrebbe funzionato in versione ebook. Come molti, credo che i libri cartacei continueranno ad esistere, e così ho chiesto a un’amica illustratrice di Napoli, Chiara Coccorese, di darmi una mano, e questo spiega forse un certo sapore italiano. Confesso di avere una relazione particolare con il pubblico italiano, un pubblico che negli ultimi venti anni si è dimostrato molto leale nei miei confronti, per questo mi è parso naturale pubblicarlo prima in Italia.

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