Tony Godfrey / Editoria: dove è finita l'arte contemporanea?

5 Dicembre 2020

“La critica d’arte oggi è storia dell’arte, sebbene non necessariamente la storia dell’arte dello storico dell’arte”, scriveva in modo sibillino il critico americano Harold Rosenberg nel 1975. Ennesima prova che l’arte contemporanea segna uno scarto rispetto alla sua storia.

Tony Godfrey ne è consapevole sin dalle primissime pagine di L’arte contemporanea. Un panorama globale (traduzione di Chiara Stangalino, Einaudi 2020, 279 pp. riccamente illustrate, 40 euro). Prende come pietra di paragone un evergreen quale Storia dell’arte di Ernst Gombrich, con le sue innumerevoli edizioni dal 1950 al 1994. Ne condivide appieno il celebre incipit – “non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti” – ma ne rileva alcune omissioni, a partire dalla disattenzione verso l’arte contemporanea (nel 1994 sono citati giusto David Hockney e Lucian Freud). Idem per le artiste donne (la prima, Käthe Kollwotz, spunta fuori solo nell’1989), per la parola degli artisti, per l’arte extra-europea (con rare eccezioni come le miniature moghul).

 

Sono cambiati i luoghi deputati dell’arte (dall’edificio sacro alla fiera, dallo studio al mondo intero), la funzione del mercato (nel 2018 si contavano oltre 260 fiere e 238 biennali), la mobilità degli artisti, le loro aspettative di carriera. È cambiato il rapporto con la storia dell’arte: “Una volta ho chiesto a una scultrice inglese quanto spesso visitasse il Victoria and Albert Museum, dov’è conservata la collezione nazionale di scultura. C’era stata una volta, mi rispose, con suo padre, per guardare i tappeti” (p. 14). Allo stesso modo, per interrogarsi oggi sull’arte e sugli artisti bisogna dotarsi di una cassetta degli attrezzi che non si limita più alla storia dell’arte.

L’intento di Godfrey è chiaro: “fornire un contesto all’interno del quale sia possibile comprendere ed esperire al meglio le opere d’arte di oggi, condividendo le mie stesse esperienze e opinioni” (p. 29). A tal fine, copre un vasto arco temporale che percorre a velocità variabile: comincia dal 1945 e dopo una ventina di pagine è già agli anni settanta quando, secondo una versione largamente condivisa negli Stati Uniti, comincerebbe l’arte contemporanea.

 

Alicja Kwade, Welenlinie 2017, Hayward Gallery, Londra, 2018, ph Mark Blower.


Godfrey mette in rilievo il ruolo di alcune mostre-chiave, come lo Skulptur Projekte di Münster o Magiciens de la Terre (Centre Pompidou, Parigi 1989) affiancata a China/Avant-Garde (Pechino 1989) che, vent’anni esatti dopo When Attitudes Become Form, apre una nuova fase, quella della globalizzazione. Un nodo decisivo: “All’inizio degli anni Ottanta c’era ancora un certo consenso su quali fossero gli artisti importanti […] Ma già all’inizio degli anni Novanta non era più così. Il 1989 non comportò solo l’avvento della globalizzazione, ma anche una più ampia diversità. Il mondo dell’arte diventò più vario e diffuso, frastagliato. Diventò più difficile delineare una mappa precisa della storia dell’arte: dopo gli anni Ottanta, con il neoespressionismo e il neoconcettualismo non ci sono più state scissioni o gruppi che possano essere definiti ‘movimenti’” (p. 128). 

 

Parallelamente alla diffusione dell’estetica relazionale, i curatori operano un’altra svolta: nella biennale del Whitney del 1993 la curatrice Elisabeth Sussman privilegia artisti neri, ispanici, gay o femministi. Godfrey la visita il giorno dopo il troppo affollato opening: “Rimasi sorpreso della sicurezza con cui una delle giovani curatrici affermava in modo categorico ‘Questo significa quello, e quell’altro questo!’”, per concludere: “Il museo era diventato la sede di una guerra di culture, non soltanto un deposito di oggetti” (p. 129). Nella prima Documenta del XXI secolo (2002) “curata per la prima volta da un non europeo” (p. 153), Okwui Enwezor allarga la scena e la politicizza. Non è più la storia dell’arte descritta da Gombrich, che lascia questo mondo pochi mesi prima.

 

Ann Hamilton, Indigo Blues, 1991.


Non cercate l’Italia

 

Attento a mettere in rilievo le singole opere piuttosto che le grandi linee generali, Godfrey non nasconde il suo spiazzamento da spettatore. A volte giudica ma la sua è un’opinione – l’ora dei giudizi di valore della critica modernista è tramontata: “altri artisti, le cui opere sono battute alle aste per milioni di euro, non mi convincono affatto. Il loro lavoro mi sembra prevedibile, senza complessità alcuna, e non aggiunge nulla alla storia dell’arte. Ma chi sono io per giudicare?” (p. 205). Con qualche stoccata, come davanti a Kiefer, “uno degli artisti più deludenti”: “Le sue opere sono diventate sempre più grandi, come se non avesse nessuna idea nuova, ma semplicemente ingigantisse quelle vecchie” (p. 233). 

Godfrey è attento alla circolazione delle opere d’arte e all’influsso del marketing: “L’arte è solo una massa di merci in vendita, o il suo scopo è cambiare il mondo? Oggi come mai prima d’ora si parla di ‘arte da asta’ e ‘arte da Biennale’, come se si trattasse di entità separate” (p. 200). È attento a rispettare la parità di genere: “Metà degli artisti discussi in questo capitolo sono donne, e nelle pagine seguenti il 50 per cento o più” (p. 144).

 

Con un penchant per la pittura (nel 2009 ha pubblicato con Phaidon Painting Today), Godfrey offre dell’arte contemporanea un panorama globale,  mantenendo la bussola anche quando si avvicina ai giorni nostri. Vivendo e lavorando nel sudest asiatico, fa dialogare celebri artisti occidentali con un contingente di artisti poco frequentato dall’Indonesia alla Cina. 

Chi cerca i nostri connazionali resterà deluso: l’unico italiano citato è, difficile sbagliarsi, Maurizio Cattelan. Un bel paradosso, visto che Godfrey lo introduce con queste sue parole: “Non mi considero un artista” (p. 133)! Unica consolazione: quella di Venezia è la biennale più citata.

L’Italia si trova in una posizione scalognata: poco cool per il canone internazionale e poco connessa al mercato, ma non così minore da essere rivalutata da uno sguardo post-coloniale. Né centrali né periferici, siamo anime purganti. Non ci resta che scegliere tra l’espiazione o la richiesta di suffragio al di là dei patrî confini e la caduta, ovvero il ripiego nel regionalismo ombelicale.

 

Annie Pootoogook, Bringing home foof, 2003-2004.


Inutile prendersela con Godfrey, il fenomeno è conclamato. The books that shaped art history, from Gombrich and Greenberg to Alpers and Krauss è un librone curato da Richard Shone e John-Paul Stonard (Thames and Hudson 2017), selezione raffinatissima di sedici titoli, apparsi precedentemente su “The Burlington Magazine” nella sezione Art History Reviewed. Una raccolta di “the most influential books of art history published during the twentieth century” o, tradotto, l’apoteosi giuliva del canone anglo-sassone, con zero italici tra i testi scelti come tra gli estensori delle riletture critiche. Del resto tra le infinite liste di saggi must-read di storia dell’arte che si trovano on line, quando si cita un italiano, potete scommetterci, si tratta di Cennini, Vasari o Leonardo; a volte fa capolino un Bruno Munari, la Storia della bellezza di Umberto Eco e poco altro.

 

I saggi non mancano

 

La pubblicazione del libro di Godfrey mi offre l’occasione per una riflessione più ampia. Da alcuni anni la saggistica Einaudi è impegnata nella traduzione di libri di divulgazione sull’arte contemporanea di matrice anglo-sassone. Se si eccettua il francese Denys Riout (L’arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, uscito nel 2000 e prontamente tradotto nel 2002) ricordo, in ordine decrescente: Julian Bell, Che cos’è la pittura? (2018); David Scotto Kastan, Stephen Farthing, Sul colore (2018); David Bate, La fotografia d’arte (2018) e Il primo libro di fotografia (2017); Alastair Sooke, Pop Art. Una storia a colori (2016); Juliet Hacking, I grandi fotografi (2015); James Hall, L’autoritratto (2014); Sally O’Reilly, Il corpo nell’arte contemporanea (2011); Charlotte Cotton, La fotografia come arte contemporanea (2010); Larry Shiner, L’invenzione dell’arte. Una storia culturale (2010); Graham Clarke, La fotografia (2009); Mary Acton, Guardare l’arte contemporanea (2008); Nigel Warburton, La questione dell’arte (2004).

 

Edmund De Waal, Library of exile, British Museum, Londra.


Nel caso dei saggi critici – quelli, per intenderci, che hanno scombussolato la disciplina della storia dell’arte contemporanea e si trovano nei syllabus delle università anglo-sassoni – il contingente è assai risicato. Sempre in ordine decrescente, e includendo anche il XIX secolo: Timothy J. Clark, Addio a un’idea (pubblicato nel 1999 e tradotto nel 2005); Meyer Schapiro, L’impressionismo (pubblicato nel 1997 e tradotto nel 2008), Jonathan Crary, Le tecniche dell’osservatore (pubblicato nel 1990 e tradotto nel 2013).

Cosa è accaduto? Che la saggistica di arte contemporanea non sia ormai altro che mediazione culturale? Non proprio, perché non sono certo i titoli di critica a mancare. Per non restare nel vago, e per citarne alcuni a mio avviso decisivi, appartenenti a decenni diversi, anche qui in ordine decrescente: Suhail Malik, On the Necessity of Art’s Exit From Contemporary Art (di prossima pubblicazione); Christopher S. Wood, A History of Art History (2019); T.J. Demos, Decolonizing Nature. Contemporary Art and the Politics of Ecology (2016); Yates McKee, Strike Art. Contemporary Art and the Post-Occupy Condition (2016); Peter Osborne, Anywhere or Not at All: The Philosophy of Contemporary Art (2013); Pamela Lee, New Games. Postmodernism After Contemporary Art (2013) o Forgetting the Art World (2012); Richard Meyer, What Was Contemporary Art? (2013); Margaret Iversen, Stephen Melville, Writing Art History. Disciplinary Departures (2010); Terry Smith, What is Contemporary Art? (2009); Bruce Altshuler, Collecting the New: Museums and Contemporary Art (2005); Briony Fer, The Infinite Line: Re-making Art after Modernism (2004); Julian Stallabrass, Art Incorporated. The Story of Contemporary Art (2004); Martha Buskirk, The Contingent Object of Contemporary Art (2003); Alfred Gell, Art and Agency. An Anthropological Theory (1998, ma in traduzione presso un altro editore); Yve-Alain Bois, Painting as Model (1990); Griselda Pollock, Vision and Difference. Feminism, Femininity and Histories of Art (1988); Frederick Kittler, Grammophon Film Typewriter (1986); Leo Steinberg, Other Criteria. Confrontations with Twentieth-Century Art (1972).

 

E per ricordare altri autori decisivi che mancano all’appello, questa volta in ordine alfabetico: Mieke Bal, Norman Bryson, Mark Cheetham, Diarmuid Costello, Thom Crow, Whitney Davis, Thierry De Duve, James Elkins, Darby English, Michael Fried, Martin Jay, Amelia Jones, Lucy Lippard, Stephen Melville, Keith Moxey, Aleander Nemerov, Donald Preziosi, Jennifer Roberts, Irit Rogoff, Christine Ross, Richard Shiff, David Summers, Cornel West, Richard Wollheim. Tralascio, per non appesantire ulteriormente la lista della spesa, le antologie di testi, ricordandone giusto due: Charles Harrison, Paul Wood (a cura di), Art in Theory. 1900-2000 (1992 e rieditata fino ad oggi) e Alexander Dumbadze, Suzanne Hudson (a cura di), Contemporary Art: 1989 to the Present (2012).

 

Montien Boonma, Zodiac houses, 1998-1999.


Insomma, ce n’è abbastanza per impinguare per un decennio il catalogo di una nuova casa editrice o della stessa Einaudi, la più titolata per questa operazione culturale. Cosa è accaduto allora negli ultimi vent’anni, dal Bacon di Deleuze (1995) al Bacon di Jonathan Littell (Trittico. Tre studi da Francis Bacon, Einaudi 2014)? Sembra che, a un certo punto, si sia deciso di svecchiare il catalogo, molto fedele alla tradizione iconologica (in Italia sempre florida, con le ristampe o le traduzioni di Panofsky salutate come eventi editoriali), centellinando se non saltando a pie’ pari la migliore saggistica del XX secolo.

Certo, nel frattempo si sono moltiplicate le introduzioni, le inchieste, le panoramiche che veicolano l’idea di un’arte contemporanea in quanto fenomeno di mercato e di costume piuttosto che di esperienza, di contestazione e di ricerca. I recenti best-seller lo confermano: Sarah Thornton, Seven Days in the Art World; Don Thompson, The $12 Million Stuffed Shark; Kyung An, Jessica Cerasi, Who’s Afraid of Contemporary Art? (i primi due tradotti in italiano da, rispettivamente, Feltrinelli e Mondadori). Per non citare i “contemporary art for dummies” italici, che nessuno ha mai avuto l’ardire di tradurre in altre lingue. Tra le eccezioni, mi piace ricordare lo scrittore Mauro Covacich con L’arte contemporanea spiegata a tuo marito (Laterza 2013).

 

Overdose propedeutica

 

Non è facile capire dove va la saggistica d’arte prodotta in inglese. Quando una quindicina di anni fa giravo per gli Stati Uniti, il libro che trovavo più spesso nelle case dei miei amici contemporaneisti non era un saggio o il catalogo di una mostra ma un romanzo, I love Dick di Chris Kraus (uscito nel 1997 e tradotto da Neri Pozza nel 2017). 

Libri come quello di Tony Godfrey colmano il divario italiano tra, da una parte, l’erudizione attenta solo alla filologia, che schiaccia sotto un tritasassi la presenza delle arti visive nella cronologia storica, e, dall’altra, una saggistica spregiudicata di bassa lega. Ma i testi propedeutici hanno ormai soppiantato i saggi che scardinano i paradigmi della storia dell’arte, che in Italia non brilla per audacia metodologica e teorica. Da noi pullulano ampi sorvoli di decenni e movimenti, tediose compilazioni, spogli di fondi, valorizzazione di sfigatissimi artisti locali, come se la storia dell’arte fosse un’associazione pro loco. Approcci meno rischiosi ma mortalmente soporiferi, incapaci di appassionarsi e di appassionare alle arti visive. Come se, al di là del feticismo del documento e delle pseudo-influenze, la nostra storia dell’arte sia visceralmente acritica e a corto di idee, e delle altre scienze umane o delle humanities non sappia che farci, preferendo rintanarsi nel cantuccio del vecchio storicismo.

In conclusione, ben vengano introduzioni all’arte contemporanea di matrice anglo-sassone, come quella dignitosa di Tony Godfrey o spiegazioni dell’arte a tuo marito, a tuo cognato, a tua suocera, a tua figlia, ai tuoi nipoti, alla famiglia intera gatto incluso. Ma non basta. C’è da sperare che, storditi dall’overdose propedeutica, un giorno non lontano il marito, il cognato, la suocera, la figlia, i nipoti, la famiglia e il gatto reclamino con una sola voce un po’ di critica.

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