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Lettere a don Julio Einaudi / La prammatica della fantasia

17 Agosto 2020

La casa editrice Einaudi è nata nel 1933: nel 1983 festeggiò il suo anniversario con varie iniziative, fra cui la pubblicazione del suo catalogo storico. Il volume uscì con il titolo Cinquant’anni di un editore nella collana Pbe ed era dotato di un apparato iconografico, che riproduceva le immagini di una mostra allestita per la ricorrenza. Erano copertine di libri, documenti storici (come l’informativa che la polizia torinese mandò a Mussolini già il 3 marzo del 1934 in merito alla nuova, e certamente antifascista, casa editrice), ritratti fotografici di autori (da Leone a Carlo Ginzburg, e fra Wittgenstein, Gadda, Benjamin, Beckett anche un indimenticabile Giorgio Manganelli, che esce dalla tenda a strisce di una salumeria di Dogliani, tenendo in mano un goloso pacchettino).

A testimonianza del fatto che gli autori Einaudi non erano tutti crucciati professori o profondi letterati, era esposta anche la riproduzione di una lettera di Gianni Rodari a Giulio Einaudi, scritta con una calligrafia minuta ed esatta su carta intestata del quotidiano Paese Sera, favolosamente (ed enigmisticamente) datata “6-1-61”: befane e sciarade, come per un presagio. 

L’occasione della lettera è l’uscita del primo libro einaudiano di Rodari, le Filastrocche in cielo e in terra (L’ago di Garda: C’era una volta un lago, e uno scolaro / un po’ somaro, un po’ mago, /con un piccolo apostrofo / lo trasformò in un ago...). 

Rodari la celebra con una certa deferenza, progressivamente volta al comico: 

 

...ho ricevuto le “filastrocche” e tocco il cielo con tutte e dieci le dita. Devo proprio dirle grazie dell’edizione bellissima, molto più bella di come potevo aspettarmela. Il libro rallegra piccoli e grandi solo a sfogliarlo e ispira una gran simpatia, credo di poterlo dire come se si trattasse del libro di un altro. In famiglia mi guardano e trattano con accresciuto rispetto, e per la prima volta posso chiudere la porta del mio studio (anche se ci vado a leggere un libro). Insomma, ho ricevuto i calzoni lunghi: se ha dei nemici, disponga di me.

 

Al momento dell’allestimento della mostra probabilmente non ci si lambiccò molto sulla scelta di questa lettera come esempio di una comunicazione “d’autore” con la casa editrice. Forse è stata una scelta pressoché casuale; certamente è stata una scelta felice.

Già da questa lettera (che è fra le prime, nel tempo) si stabilisce infatti uno dei toni che saranno poi costanti nell’epistolario rodariano con l’Einaudi (la casa con cui Rodari avrebbe pubblicato tutti i suoi libri più importanti), per sfumarsi un poco, ma non del tutto, negli ultimi e più disincantati anni. È il tono autoironico dell’autore di filastrocche inopinatamente accolto in un olimpo editoriale, che se ne propizia la principale divinità esibendo la propria devozione. È tutta una finta, naturalmente: questo tono non fa che prolungare l’opera letteraria dello stesso autore, come un peritesto che rifletta le smorfie e le delizie del testo. 

 

Nelle fantasie di Rodari, il favoloso non è un altro mondo ma è una piega inedita del quotidiano, una piega che la serietà e la compunzione dei cosiddetti adulti usa stirare ed eliminare come fosse una semplice stropicciatura, e che si può al contrario additare, evidenziare e approfondire usando gli strumenti della filastrocca, della rima, dell’associazione casuale, dell’errore linguistico: e allora rivelerà la sua natura profonda di crepaccio. In questo crepaccio il bambino rodariano (rodariano è l’esatto contrario di rotariano, naturalmente) non vorrà precipitare, come accadeva ad Alice. Ci si lascerà scivolare e volerà, perché il crepaccio del favoloso mette in comunicazione non con il basso ma con l’alto. In Rodari, oltre a mongolfiere e arcobaleni, volano treni, torte, automobili a cui si accende il semaforo blu.

 

 

La fantasia diventa l’inconscio dell’ideologico: un inconscio aereo, libero di spaziare ma sempre soggetto alla gravitazione. Un inconscio la cui funzione è rivelatoria, e investe i rapporti fra persone e persone e fra persone e istituzioni: ivi comprese la lingua nazionale ed eventualmente la propria casa editrice. 

Specialmente nei primi tempi della sua attività di scrittore per l’infanzia, il rapporto con le istituzioni, e i suoi riflessi politici e ideologici, è un problema molto sentito da Rodari. Come responsabile del giornale per ragazzi Il pioniere (l’alternativa Pci ai giornalini cattolici o commerciali) doveva fronteggiare abitudini pedagogiche sempre in odor di catechismo e comunque molto tradizionali. Come membro del Pci doveva scontare diffidenze e deficit culturali enormi. Nella sua biografia (Gianni Rodari, Einaudi 1990), Marcello Argilli ricorda un dibattito con Nilde Jotti, sulle pagine di Rinascita, in merito ai fumetti. Era il 1951: “Decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono dunque fatti collegati. ... È logico che il fumetto sia stato lanciato da Hearst, imperialista cinico e fascista”, aveva sentenziato Nilde Jotti. Rodari intervenne difendendo i fumetti fra mille distinguo e prudenze e auspicando “essenzialmente la nascita di una nuova letteratura per l’infanzia, capace anche con i suoi mezzi organizzativi di condurre una lotta efficace”. La sintesi spettò a Palmiro Togliatti. “Non ci sentiamo di condividere la posizione del Rodari... non metteremo in fumetti la storia del nostro partito o della rivoluzione”. Secondo Togliatti bisognava piuttosto elaborare narrazioni figurate ispirate alle stampe cinesi: “A questo compito dunque ci si cimenti, invece di correre dietro alle forme più corruttrici dell’americanismo”. 

 

Nell’anno successivo, il 1952, Rodari scrisse la prima lettera alla casa editrice Einaudi. Proponeva a Italo Calvino un commento a Pinocchio, il cui “segreto formale” è la “fusione perfetta di realtà e fantasia”, da studiare con “occhio critico esercitato, diciamolo pure, dal marxismo – anche senza metterlo in causa, che sarebbe eccessivo”. 

Attraversati gli anni Cinquanta, la preoccupazione ideologica di Rodari si libererà sostanzialmente dal rapporto con un apparato partitico, anche se si ripeteranno occasionalmente certe frasi sintomatiche, come la descrizione del regista Dal Fra: “bravissimo (e anche un bravo compagno)”. Ma non diventerà meno acuta: sarà proprio Calvino, in un bellissimo articolo indetto per un convegno sull’opera di Rodari, che era già morto, a ricordare come Rodari era sempre attento a cogliere le implicazioni ideologiche dei giochi di parole e del linguaggio in genere.

 

Dopo la prima lettera a Calvino, quando Rodari sarà diventato un autore della casa editrice, incomincerà il flusso di lettere che perlopiù, si può dirlo anche senza fare troppi calcoli statistici, saranno dedicate a questioni editoriali e amministrative: proposte di libri e richieste di danaro. Retrobottega e conti della serva? Nel caso di Rodari non può essere detto mai: nella selezione delle lettere per la presente pubblicazione a volte una lettera stava per essere scartata perché puramente funzionale ma ecco che nel congedo o in una nota laterale un guizzo rodariano la salva dalla routine. 

Più in generale, dobbiamo interrogarci. Cosa chiediamo a un epistolario? Ci sono epistolari che sono come opere liriche, con arie e recitativi: una divisione netta fra la comunicazione spicciola e la zona alta, memorabile della scrittura confidenziale. Nelle lettere di Rodari al suo editore e ai suoi editor in molti casi è evidente l’amicizia e la comunanza che il mittente sentiva verso interlocutori come Daniele Ponchiroli o Roberto Cerati o lo stesso Giulio Einaudi (in quest’ultimo caso però con una deferenza non solo mimetica). Ma a volte Rodari non sapeva neanche bene a chi stava scrivendo: aveva sicuramente notato che a una lettera mandata a Einaudi aveva risposto Ponchiroli, della questione sollevata con Guido Davico Bonino si era poi occupato Paolo Fossati. Lui era Rodari, un autore; loro erano persone colte e spiritose ma nel complesso formavano uno staff professionale. L’epistolario doveva tenere assieme la capra della comunicazione personalizzata con i cavoli della comunicazione funzionale e così si impose nella maggior parte delle lettere un andamento quasi da “recitar cantando”, in cui la parte didascalica (copertine, illustrazioni, composizione di un indice, proposizione di un titolo, richiesta di invio di copie a stampa e amici, affari economici) si trovava il più inestricabilmente possibile innervata dal genio personale dell’autore delle lettere. Si accavallano di continuo minute faccende editoriali, progetti solenni, clownerie epistolari.

 

L’interazione fra autore e editore avviene perciò en travesti: scrivendo a lui in persona o ai suoi collaboratori Rodari si riferisce a Giulio Einaudi chiamandolo “sire”, “eccellenza”, “don”, “monsignore”, “Sua Eminenza”, “cardinale”, “comandante”, “padrone”, e si propone come fedele seguace e a volte, buffonescamente, come scherano e spia editoriale. Una mascherata che ha svariate funzioni: non ultima quella che permette a Rodari di celare il senso di imbarazzo (e alleviare quello di eccessiva franchezza) delle sue continue richieste di pagamento. Non è facile infatti arrivare alle questioni di denaro con la gente dell’editoria, che ha sempre l’aria di stupirsi quando un autore batte cassa invece che parlare per esempio di Proust. Ma nella mascherata i ruoli possono improvvisamente ribaltarsi: la strategia del tapino in soggezione di fronte all’austera istituzione editoriale diventa un modo per raccontarsi e Rodari finisce per trattare i lettori delle sue lettere (adulti funzionari editoriali, spesso scrittori in proprio) come se fossero i piccoli lettori dei suoi libri, bambini, da blandire e divertire, enfatizzando comicamente la propria indigenza e la propria disgrazia:

 

 

 «è possibile ricevere un secondo assegno, compilato in ogni sua parte (anche con un maggior impegno del primo) ?»

 

«se mi viene un colpo non posso lasciare a mia figlia un accordo verbale»

 

«non per il principio, bada, ma per i due soldi»

 

«guardate che l’enciclica vietava l’uso della pillola, non degli assegni»

 

Qui Rodari applica una tecnica che avrebbe poi teorizzato nella Grammatica della Fantasia: l’accostamento fra due elementi incongrui, il binomio composto da pillola e assegni.

Un altro espediente era quello di parlare in una parodia del linguaggio ufficiale e burocratico:

 

«apprendo con vivo dolore che mi siete debitori della somma di lire 1.706.388. Non ci si può distrarre un momento, o un paio d’anni, e subito vi mettete a far debiti»

 

Un altro esempio paradossale:

 

«ho un fratello cassiere in banca e forse, lavorandolo opportunamente, potrei convincerlo a scappare con la cassa. Prima di appigliarmi “al peggio”, faccio, come si usa, il giro degli amici»

 

La fuga con la cassa è anche il tema di una microfavoletta successiva: 

 

Un cassiere di banca rubò la cassa, fuggì all'estero e visse felice e contento fino a tarda età. Un altro cassiere scappò con un'altra cassa: fu subito preso e messo in prigione. Fuggire non è ancora niente: bisogna anche saper fuggire « in fuori », invece che « in dentro ».

 

Cosa vuol dire questa favola? È molto bella la costruzione di una spazialità di tipo politico-favoloso: dentro è la prigione del proprio Paese, il massimo della costrizione; fuori è la libertà assoluta. 

Ma la morale della favola ricorda altri paradossi. Per esempio quello di Alphonse Allais, l’umorista francese che disse: «la logica porta a tutto. A condizione di uscirne». Nel 1961 nasceva il gruppo dell’Oulipo, che lavorava su certi giochi e certe costrizioni letterarie. Si definivano così: «topi che devono costruire il labirinto da cui si propongono di uscire». 

Dentro e fuori: una dimensione primaria che nella vicenda di Rodari si rivelerà sempre pertinente. Grammatica e fantasia continuano a celebrare il loro incontro: nei rapporti di Rodari con l’istituzione scolastica (incominciò come maestro elementare), a quelli con l’ortodossia comunista, a quelli con la lingua italiana, con le sue regole e i luoghi comuni, con la pedagogia e l’ideologia, con il giornalismo, con l’editoria, con la sua stessa scrittura.

 

Dentro e fuori: quasi mai Rodari, quando scrive, sta soltanto scrivendo. Quasi sempre Rodari, quando scrive, sta scrivendo e sta contemporaneamente giocando a scrivere: e non è proprio la stessa cosa.

I giochi epistolari di Rodari sono innumerevoli. Molti gli equivoci: 

 

Eccellenza, 

io trasecolo – anzi, se me lo permette, esorbito. Ella mi chiede, in caratteri dattilografici di stupefacente nitidezza e perfetta marginatura, notizie dei miei racconti: i quali, viceversa, giacciono tuttora inevasi presso codesta Santa Sede, affidate alle cure di un Capitale sociale di L. 400.000.000 e di più telefoni, nonché alla lettura di Italo Giulio Bollati Calvino – persone di Sua e di Mia totale fiducia...: 

Alle loro decisioni trepidante mi attengo.

Alla loro attenzione nella mia trepidazione mi sostengo.

A coloro che sottrarranno la mia vecchia al Beato Cottolengo.

Della lettura campionissimi più che del pedale Costante Girardengo.

 

Poi abbiamo giochi sulle date, parodie della carta intestata dell’Einaudi, semplici giochi di parole come “Sua Schifenza” in cui si incrociano schifo e Eccellenza, intestazioni deliranti, rimette estemporanee che sbucano come ramarri da un muro, varianti nel nome dell’interlocutore (soprattutto Daniele Ponchiroli, che diventa Ponchiriele, Danieroli, Daniello, Ponchi-cerati in abbinamento con Roberto Cerati), balzi nel registro aulico, disegni a margine. Quando Rodari è contento dei suoi interlocutori manda in casa editrice fogli con disegni veri e propri, come premio. Attorno a un ritaglio di giornale in cui si annuncia la laurea di suor Lanfranca delle Orsoline di Verona, con una tesi su “Gianni Rodari, scrittore per l’infanzia”, lo stesso Rodari disegna la tonaca di una suora a passeggio in un chiostro. Per ragioni oggi inesplicabili allega a una lettera un cartoncino che invitava a un incontro con Argan e altri su “Pittura tardoromana” con commenti autografi a margine: “Hanno parlato, chi sa che cosa hanno detto... / io ci ho l’alibi: a quell’ora me ne stavo al gabinetto” (con rimando, parrebbe, all’Armando di Enzo Iannacci). Dato che l’incontro si teneva alla libreria Feltrinelli di via del Babuino 39 / 40, a Roma, Rodari aggiunge: “Non sta bene, amici cari / star con un piede nel dispari e un piede nel pari”.

Di tutti questi giochi il più curioso è forse quello che incomincia con una lettera a Giulio Einaudi, così datata 

 

11-4-1964 

4 – 11 – 1964 

19 – 64 – 411 

(a scelta)

 

Una nota di mano dell’autore, in alto a sinistra, dice: “Si prega di citare Adorno nella risposta”. 

Rodari scrive in occasione dell’uscita del Libro degli errori, e finge di esserne un lettore ammirato:

 

Caro e gentile amico,

ho ricevuto e letto con vivo interesse “Il libro degli errori”, da Lei pubblicato con un coraggio che onora le patriottiche tradizioni del Piemonte. Trovo in questo Rodari (a proposito, chi è?) un’autentica vena filosofica [...]. Gli ambienti politici hanno subito afferrato le allusioni ai recenti fatti di Mosca e corre voce che nella federazione comunista di Avellino sia già sorto un movimento per “la via sbagliata al socialismo”. [...]

Perché non gli affida [a Rodari, ndr], prima che si faccia furbo, la stesura di un “Manuale di fantastica”, ovvero l’arte di inventarsi storie, con cinquanta ricette ad uso delle persone colte? [...].

 

 

La lettera si chiude con una nota: Allegato: Nulla; e con la firma di Gianni Rodari, sotto la quale aggiunse l’indicazione manoscritta: Capitale interamente sperperato (parodiando l’uso delle aziende di dichiarare nella loro carta intestata il capitale sociale).

Giulio Einaudi evidenziò la parola “sperperato” e aggiunse di suo pugno: “Deve avere soldi?” (evidentemente un’indicazione per la segreteria editoriale). Dopo di che rispose a Rodari, in data 11 novembre 1964 (la data della lettera di Rodari va intesa come 4 novembre, come diremo ancora), adempiendo spiritosamente all’obbligo di citazione adorniana:

 

caro Rodari,

grazie della tua lettera pluridatata, che chiarisce tante cose del tuo ultimo libro. Una deformazione professionale (accentuata credo dalla lettura di Adorno) mi spinge a prendere sul serio la tua proposta di un “Manuale di fantastica” e a chiedertene notizie dettagliate...

 

Il manuale di “Fantastica” (di cui Rodari aveva già incominciato a parlare in una lettera a Giulio Bollati del 23 febbraio 1962) è ovviamente quello che uscirà quasi nove anni dopo, con il titolo di Grammatica della fantasia. Quando il libro sarà pronto, in data 27 novembre 1973, Rodari rimanderà a Einaudi una copia della lettera di quest’ultimo, la decorerà con un disegno autografato (“Cometa del 27 – 11– 73 seguita da un orologio volante), evidenzierà le righe che riguardano il manuale di Fantastica e scriverà in margine al suo corrispondente: 

 

Caro Einaudi, non ho risposto subito a questa lettera perché avevo da fare. Ora la “Grammatica della fantasia” esiste e la risposta non serve più. Ovvero, non ogni risposta viaggia per posta...

 

Un ping pong di nove anni, sulla fantasia e i libri, alla presenza  fantomatica di Adorno. Rodari si divertiva così: e certamente anche Einaudi.

 

Ma anche al di là del gioco è notevole che tale ping pong finisca per mettere assieme due libri che sono tra i capolavori dell’intera opera di Rodari, e ne rappresentano due poli: Il libro degli errori e La grammatica della fantasia

Anche nel titolo la grammatica della fantasia nasce dalle suggestioni dello strutturalismo che in quegli anni veniva proponendo saggi intitolati: Morfologia della fiaba, Sistema della moda, Fenomenologia di Mike Bongiorno. Tutte espressioni composte da un termine scientifico o filosofico e astratto e da un termine invece comune e popolare. Sotto i suoi microscopi l’analista non mette più ali di farfalle o frammenti di roccia vulcanica ma principi azzurri, tailleur e telequiz.

Senza preoccupazioni di rigore scientifico, ma temperando il proprio istinto con buone letture di approfondimento, Rodari aggiunge a questa serie ideale addirittura una grammatica della fantasia, come idea di libro che ricostruisca in un laboratorio i possibili modelli di funzionamento della fiaba. Un laboratorio: ma non nell’accezione scientifica (o alchemica), con camici bianchi e provette e vapori, bensì nell’accezione pedagogica, di stanza attrezzata per laboriose creazioni infantili.

Per questo non si può opporre il Libro degli errori alla Grammatica della fantasia: i due libri compiono lo stesso tragitto, sia pure andando in senso reciprocamente inverso. Uno insegna, l’altro mette in pratica un insegnamento: l’insegnamento che la norma non è mai rigida, ma la sua deviazione non è mai immotivata.

Il punto in cui si incontrano i due libri è appunto il gioco: l’eterna oscillazione fra la grammatica dell’istituzione e la tendenziale anarchia della pratica. Ma non si evoca quasi mai invano la potenza dell’errore. 

 

 

L’ultima lettera del presente epistolario, indirizzata da Rodari a Carlo Carena nel gennaio del 1980, annuncia: “oggi ho accompagnato mia moglie in clinica per un’operazione – quando uscirà lei dovrò entrarci io, per colpa di un’arteria occlusa – vede che non ho lo spirito adatto per rifare la prefazione alle Favole al telefono”. Il recitativo di esordio si increspa alla frase successiva: “La programmerò [la prefazione, ndr] per l’edizione tredicesima, anche se doveste interrogarmi con i tavolini”. Poi la lettera prosegue piana, con l’indicazione di alcune modifiche puntuali. Fra queste e il congedo, un’ultima rimetta: “Altro di me non vi saprei narrare /  e la flebografia mi vado a fare”. 

L’esame clinico che Rodari annunciava a Carena non ebbe un esito fortunato, poiché fece programmare un intervento di media entità. Solo in sala operatoria il chirurgo si accorse di un ulteriore problema fino ad allora inavvertito, la cui rimozione prolungò l’intervento fino a sette ore, tre ore in più di quelle previste. Già provato nel fisico Rodari non riuscì più a ristabilirsi: morì tre giorni dopo l’operazione. 

Conosciamo questa vicenda grazie alla documentata biografia di Argilli, il quale scrive letteralmente: “... un grosso aneurisma nella zona iliaca, che per la sua collocazione l’ortografia non poteva rilevare".

 

L’ortografia? 

Quasi sicuramente l’autore voleva scrivere aortografia, probabilmente lo ha anche scritto e un refuso (come chiamarlo banale?) è sfuggito a tutti i giri di bozze. 

La grammatica della fantasia, la faccia autoironica della dea Ortografia, aveva acceso il semaforo blu, e aveva liberato nei cieli della favola l’ultimo errore, salutando così con uno scherzo (come lui stesso usava nelle lettere agli amici einaudiani) la memorabile vicenda umana di Gianni Rodari.

 

Questo testo costituisce la prefazione a Gianni Rodari, Lettere a don Julio Einaudi, Hidalgo editorial e ad altri queridos amigos, a cura di Stefano Bartezzaghi, Einaudi, 2008. Ringraziamo l’editore per averci concesso di pubblicarlo.

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